Vita vera e vita romanzata.

 

   La vita breve di Giambattista (Giovan Battista) Pergolesi è tutt’oggi ammantata di uno spesso velo di incertezze e contraddizioni. Mi hanno molto favorevolmente sorpreso le parole del Mastriani nell’Avvertenza di questo suo romanzo, in cui, circa centocinquanta anni fa, confessa candidamente che nell’incertezza del luogo di nascita del musicista egli preferisce optare per fissare i suoi natali a Casoria: «Io mi attenni a questa seconda opinione, come quella che più giovava allo interesse del mio racconto, che dovea veder la luce in Napoli…»

   Dunque, Francesco Mastriani da bravo narratore e onesto intellettuale mette qui a parte i lettori che in un romanzo, seppur biografico, è lecito prescindere dalla verità storica o almeno scegliere le opzioni più utili alla narrazione per consentire all’immaginazione dell’autore di condurre il lettore nel suo bosco narrativo anche su sentieri di pura fantasia. Si lasci quindi allo storico scavare in antiche biblioteche e polverosi archivi alla ricerca di documenti e riscontri, prezioso lavoro per gli eruditi e per l’amore della “Verità”, ma il mestiere del narratore è un altro, anche quando la narrazione “prende il volo” partendo da personaggi realmente vissuti e fatti concretamente avvenuti.

   Era forse lo Ivanoe dello Scott la pura traduzione letteraria di quello della storia? E Artù, e Lancillotto, e Merlino? Erano Renzo e Lucia, e la miriade di personaggi storici insieme ai quali muovono i loro passi, poco rappresentativi della storia del ‘600 lombardo? E quanto questi personaggi ed una infinità di altri, pur tratti al romanzo dalla vita reale, sono per la letteratura meno importanti nella misura in cui si distanziano dai loro omonimi realmente vissuti nella Storia?

   E qui giova accennare all’amichevole ed affettuosa questione che proprio in quegli anni fin de siecle dividerà Benedetto Croce da Salvatore di Giacomo sul concetto della “narrazione storica”. «La fortuna è dei divulgatori» affermava il poeta citando “le bibliophile Jacob”, di contro alla più severa e rigorosa posizione del suo amico Don Benedetto… E come non concordare col di Giacomo che sapeva “raccontare” anche nelle opere “erudite”, quelle che il suo amico filosofo chiamava “le pazzielle”, portando il lettore indietro nel tempo attraverso sentieri di documenti ed archivi, date e fatti accaduti e riscontrati, ma illuminando i personaggi, le scene e i panorami rappresentati con quelle sue ineguagliabili pennellate fini da pittore della Napoli della Belle Epoque?

   Non giungono qui a caso le citazioni del di Giacomo e del Croce, che condurranno entrambi approfonditi studi sul Pergolesi, con precise indicazioni storiche che Mastriani, ben documentato sui testi disponibili al suo tempo, non avrebbe fatto in tempo a leggere. Il primo ci fa scoprire che, ad onta del suo nome, il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo accoglieva, oltre i bimbi poveri di Napoli, anche convittori paganti provenienti dalle altre città d’Italia. Sotto quest’ultima veste fu accolto il Pergolesi, che povero di famiglia non era affatto, sotto il nome di Jesi, sua città natale. L’indigenza sopraggiunse per il povero Jesi, ma in anni più tardi, accompagnandosi alla progressiva rovina dei beni materiali di cui aveva goduto la famiglia a mano a mano che la cattiva salute ne consumava corpi e agii. Il Croce a sua volta, certezze genealogiche e anagrafiche alla mano, chiarirà l’inconsistenza storica della favola dell’amore travagliato per Maria Spinelli che pure è asse narrativo portante del lavoro di Mastriani, con molta probabilità tratto dagli scritti del Florimo, all’epoca di gran moda e diffusione a Napoli. Ma ciò nulla toglie alla passione, alla partecipazione emotiva con cui Mastriani disegna il suo giovane musicista, dandogli vita letteraria così vera da appassionare il fortunato lettore

   Si veda, ad esempio, la fonte della musica sgorgare nel petto del giovanissimo Battistino:

   «Il più delle ore della giornata, Battistino se ne stava seduto appo il vano di una finestruola, donde l’occhio spaziava su i campi; ed ivi, colle braccia penzoloni, collo sguardo smarrito nel vacuo dell’aere, il fanciullo parea che prestasse l’udito alle misteriose armonie della natura [… …]

   Quando il vento agitava le cime de’ pioppi e de’ platani, quando il monotono canto de’ campagnuoli colpiva il suo orecchio, gli occhi del fanciullo luccicavano; e le pallide sue labbra si schiudevano per lo affollarsi del respiro nel petto. I suoni, il canto, le armonie di qualsivoglia natura attiravano l’anima di quel fanciullo verso regioni indefinite, dov’ella si spaziava con intero abbandono de’sensi e della materia.»

   E dunque Francesco Mastriani è narratore partecipe e coinvolgente; il lettore non troverà, è vero, nel suo romanzo il Pergolesi della “Storia”, ma vi troverà di certo qualcuno che è degno di somigliargli molto e di rappresentarlo nel profondo, con le sue vulnerabilità e il suo genio, il sorriso intriso di pianto che ebbe fin da bambino, sopportando la morte prematura dei fratelli, il dolore quotidiano di una gamba azzoppata dalla poliomielite, e poi nel giro di pochissimi anni la morte di tutti i suoi familiari, l’amatissima madre, l’affezionato padre… «Una vita breve, ma con tanta morte dentro» si potrebbe ben dire di lui, pur in un’alternanza di fortune artistiche, successi, cadute, amori idealizzati, disillusioni sentimentali. Una vita da perdente, genio sì, ma perdente, fino alla fine, fino all’oltraggio dell’anonima sepoltura in fossa comune, a Pozzuoli, riscattata solo dal fulgore della sua musica, quella sì immortale, la quale pure, fra le alterne fortune dei suoi pochi anni vissuti, impiegò almeno un quarto di secolo prima di imporsi all’attenzione e all’ammirazione dell’Europa e del mondo.

   Non si creda, tuttavia, che il Battistino di Mastriani sia personaggio di totale invenzione e che la sua costruzione sia priva di ricerche, studi ed approfondimenti che erano l’abitudine dell’autore, fecondissimo scrittore ma altrettanto attento lettore, studioso delle materie cui decideva indirizzare i propri interessi e la propria arte. Si prenda a semplice e veloce esempio il fatto che il Mastriani decide di citare con piccolissime modifiche il nome del padre e della madre del musicista: “Ciccio Andrea” e “Marianna Vittoria” o “Anna Vittoria” nel suo romanzo, praticamente i nomi veri dei genitori che erano per l’appunto “Francesco Andrea” e “Anna Vittoria Giorgi”. Seguono le citazioni puntuali degli insegnanti del giovane musicista presso il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, i Maestri: Domenico De Matteis, Gaetano Greco, Francesco Durante, Francesco Feo [1] e tanti altri particolari biografici storicamente accertati.

   Ma anche se il Pergolesi di Mastriani fosse solo un’ombra tremolante ed inafferrabile disegnata dalla luce della fantasia dell’autore, apprezzeremmo di quell’ombra il cuore vero e palpitante che le dà vita, la mente fervida che, abilmente, dalle quinte, suggerisce le battute a quell’attore insicuro e zoppicante che sta agendo la scena della vita, mentre la sua storia, il suo destino, compiendosi, ci commuovono per sé e per il suo autore.

   Un Pergolesi-Mastriani in cui, forse, l’autore si identificò molto per quel tragico destino di chi nella vita sa solo cantare e si trova a vivere in un mondo di sordi.

 

Piccolo sfogo di amor patrio

  Mi sia qui concessa una citazione quasi integrale del Mastriani che recita:

   «Ma… trista condizione fu sempre del poeta, del letterato e dell’artista in un paese, che pur tanto ama la poesia, le lettere e le arti!

Nessuno più di noi ama questo cielo e questa terra di Napoli, alla quale abbiamo consacrato tutte le forze del nostro povero ingegno, e per la quale operosamente ci affaticammo in sudati volumi. Ma noi non l’adulammo giammai; ed al cospetto de’ suoi vizi la ponemmo perché di tal vista si giovasse a proprio correggimento.

E così francamente le diciamo ch’essa uccide i suoi figli più cari, i più eletti ingegni, la gloria stessa del suo suolo, lasciandoli languire negli stenti e nella inedia.

Per carità del suolo natio, noi non tesseremo la dolorosa storia de’ tanti illustri che, a premio delle loro opere immortali, si ebbero le croci infinite della povertà, per non dire, della miseria. A che giova lo innalzare monumenti e statue agl’illustri defunti, quando i loro giorni furono amareggiati dalle umiliazioni che seco adduce la povertà, e che sono mille volte più crudeli ad un’anima che sente la propria dignità e la propria grandezza? Benvero, quelle umiliazioni dovrebbero piuttosto far salire il rossore su la fronte del governo e del paese dove un grand’ uomo languisce nel tristo bisogno.

Il Tasso, il Giambattista Vico, il Poliziano, il Camoens ed altri mille morti nella più squallida indigenza sono macchie indelebili che deturpano la civiltà e il paese in cui quelli ebbero cuna…

…Noi non neghiamo che la indolenza e la irresolutezza e, più che tutto, la poca brama di arricchire sono forse le precipue cagioni per cui il più de’sommi ingegni furono e sono poverissimi; ma è innegabile che la modestia, e talvolta la timidezza, non si compagna giammai dal vero merito, il cui posto è occupato invece dalla tracotanza e dalla presunzione. La società avrebbe l’obbligo di prendere per un braccio queste due spudorate e respingerle indietro per dar libero il passo allo ingegno modesto ma non ignoto; ed ecco dov’è la colpa degli uomini, della società, de’governi. Non tutti hanno la fibra per essere importuni, arditi e audaci; e, sventuratamente, il mondo appartiene a costoro…

… Andate a rifare il mondo se potete! E, sopra tutto, provatevi a mutare l’indole di questa nostra amatissima Napoli, la quale si ebbe in ogni tempo il malvezzo di non saper trovare mai niente di bello in tutto ciò che è napolitano, mentre qualsivoglia baggianata forestiera trova qui entusiastica accoglienza, ovazioni e quattrini a iosa! Questa antipatia o disprezzo che hanno i Napolitani per tutto ciò che è nato in Napoli ha sua profonda e inveterata radice nella servilità del popolo e nell’abbiezione in cui questo fu tenuto da’padroni stranieri. Non ci è paesello nel mondo, in cui le cose proprie e i propri concittadini non vengano anteposti, apprezzati, ben pagati, levati al cielo e difesi a spada tratta, e soltanto appo noi la cosa è diversa; e nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, nelle industrie, nelle manifatture si preferisce sempre e si paga al decuplo tutto ciò che è francese, turco, o scandinavo, e che per lo più è inferiore al napolitano.»

Le fonti dell’ispirazione.

   Senza pretesa di esaustività, a vantaggio del lettore contemporaneo e per amore della precisione, elenco qui sommariamente gli scritti biografici o critici sul Pergolesi che il buon Mastriani aveva a disposizione ai suoi tempi, molti dei quali sicuramente egli non mancò di consultare e studiare, com’era suo costume, per costruire comunque un personaggio verisimile, e scovare spunti narrativi fra le scarne e incerte note biografiche più antiche.

   Certamente Francesco Mastriani appena ventiseienne si era interessato alle vicende pergolesiane già nella sua Olimpiade lavoro teatrale che fu pubblicato sul giornale Il Sibilo dal 3 al 17 luglio 1845, ma in questo elenco arriveremo al 1874, anno di pubblicazione del presente romanzo.

   Naturalmente un elenco più completo appesantirebbe questa prefazione; quindi, mi atterrò ai soli titoli che con maggiore probabilità furono a disposizione di Francesco Mastriani per diffusione, importanza, o per luogo di edizione, oltre, ovviamente che per data di pubblicazione.

ROUSSEAU J.J., Lettre sur la musique francaise, Parigi, 1753.

GRIMM FRIEDERICH MELCHIOR, Le petit prophète de Boehmischbroda. Le correcteur des bouffons. La guerre de l’Opéra, Parigi, 1753. (Nuova ed. La Haye, 1774).

ROUSSEAU J. J., Lettres des MM, du coin du Roi a. MM. du coin de la Reine sur la nouvelle pièce intitulèe: la Servante maitresse, Parigi, 1753.

D’ALEMBERT JEAN, De la libertè de la musique (in Melanges de litterature, d’histoire ed de philosphie), vol. IV, Amsterdam, 1759.

ROUSSEAU J. J., Dictionnaire de musique, Parigi, 1768.

BOYER CHARLES, Notice sur la vie et les ouvrage de Pergolèse, in “Mercure de France” vol. II (luglio), Parigi, 1772.

EXIMENO ANTONIO, Dell’origine e delle regole della musica con la storia del suo progresso, Roma, 1774.

DE LABORDE G. B., Essai sur la musique, vol.III, Pargi, 1780. Poi Dizionario Istorico tradotto dal francese e stampato in Napoli nel 1791.

ARTEAGA STEFANO, Le Rivoluzioni del Teatro Musicale Italiano dalla sua Origine fino al Presente, tomo II, Venezia 1785.

BERTINI GIUSEPPE (Abate), Dizionario Storico-Critico degli scrittori di musica, Palermo 1815, tomo III.

MAZZARELLA DA CERRETO ANDREA, Voce “Gio. Battista Pergolesi”, in Biografia degli Uomini Illustri del Regno di Napoli, Ornata de’ loro rispettivi ritratti. Napoli, 1816.

BLASIS CARLO, Biografia di Pergolese, Milano, 1817

ORLOFF GREGORIO, Saggio sopra la Storia della musica in Italia dai tempi più antichi fino ai nostri giorni (Traduzione di Benedetto Coronati, tom. III. Roma 1823).

VILLAROSA CARLO (Marchese di Villarosa), Lettera biografica intorno alla patria ed alla vita di Gio. Battista Pergolese, Napoli, 1831, (altra ed.1843).

VILLAROSA CARLO (Marchese di Villarosa), voce PERGOLESE (Giambattista), in Biografia degli Italiani Illustri nelle Scienze, Lettere ed Arti del Secolo XVIII, e de’ Contemporanei, vol. I, Venezia 1834.

FRACASETTI GIUSEPPE, Biografia di Gio. Battista Pergolesi, in “Biografie e ritratti degli uomini illustri piceni”, vol. II, a cura di Ant. Hercolani, Forlì, 1839.

VILLAROSA CARLO (Marchese di Villarosa), Memorie dei compositori di musica del Regno di Napoli, Napoli, 1840.

ROUSSEAU J. J., Lettre sur la musique francaise, Parigi, 1753

ZAPPERT. Duni e Pergolese (Racconto storico) in “Cosmorama Pittorico” anno X, Milano 1844(ripubblicato anonimo in L’OMNIBUS PITTORESCO, enciclopedia artistica e letteraria, anno decimo, Napoli 8 gennaio 1853).

ANONIMO, Duni e Pergolese, Racconto storico in “Gazzetta Musicale di Napoli” 1852 n. 26 e 1853 n. 1, Napoli 1852-53.

BOLOGNESE GENNARO, Giambattista Pergolese, dramma storico in cinque atti, in “Drammi di Gennaro Bolognese con l’aggiunta di altri suoi componimenti pubblicati per cura del fratello Domenico”, ed. Stabilimento Tipografico di G.Gioja, Napoli, 1854, (altra ed. titolo: Pergolese, dramma storico in cinque atti, rappresentato la prima volta in Napoli al teatro dei Fiorentini dalla drammatica compagnia Alberti nel marzo del 1854 e replicato a richiesta per moltissime sere, ed. Vincenzo e Salvatore De Angelis – di Francesco, Napoli,1873).

CELANO CARLO, Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli, vol. IlI, Napoli, 1856.

SERRAO PAOLO, Pergolesi, melodramma semiserio in musica, versi di F. Quercia, da rappresentarsi nel Real Teatro del Fondo (Napoli) nell’estate del 1857, ed. Tipografia Flautina, Napoli 1857.

SOLERA TEMISTOCLE, G. B. Pergolesi, melodramma con musica di Stefano Ronchetti-Montevisi, rappresentato alla Scala il 16 marzo 1857, Milano, 1857.

BALDACCHINI SAVERIO, Riposi ed ombre, (lirica «Al Pergolese»), ed. Stamperia del Fibreno, Napoli, 1858.

PREDARI FRANCESCO, Enciclopedia economica accomodata all’intelligenza ed ai bisogni d’ ogni ceto di persone con incisioni in legno, voce Pergolesi, Serie I, vol. IV, ed. Bazzarini e Brochenaus, Coeditori – Presso Giuseppe Marghieri, Napoli 1860; presso Gaetano Maspero, vol. II, Torino 1861.

FLORIMO FRANCESCO, Cenno storico sulla scuola musicale di Napoli, Napoli, 1869.

«L’ILLUSTRAZIONE POPOLARE», Giambattista Pergolese, vol. I, anno I n.28 del 10/02/1870, Milano, 1870.

Le citazioni

  Un aspetto particolare dello stile del Mastriani è il suo gusto per dissimulare e nascondere nella sua narrazione il ricordo di frammenti della grande letteratura e della cultura delle nostre radici e del suo tempo. Valgano per tutti questi versi che l’autore fa scrivere dalla giovane Maria Spinelli per la sua prima prova di composizione:

    «Non sappiamo in qual libretto di opera semiseria rappresentata in qualcuno de’ nostri teatri, Maria Spinelli trovò questi quattro versi imitanti la semplicità metastasiana, la quale formava allora il tipo della poesia lirica:

Quando io sono vicino a te

Sento in sen balzarmi il cor;

Or, se questo amor non è,

Dimmi tu che cosa è amor.

Veramente se ci fosse permesso di esprimere un nostro piccolo sospetto, diremmo che questi quattro versi la donzella non li trovò già, com’ella disse, in un libretto per musica, ma li creò da sé, però che solea verseggiare con molta facilità e leggiadria. Comunque fosse, ella vestì di note questi quattro versi, e una sera fece sentire al maestro la sua composizione…».

   In realtà il Mastriani, a mio avviso, fa qui chiaramente riferimento al Petrarca del Canzoniere, sonetto CXXXII:

S’amor non è, che dunque è quel che sento?

Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale?

   Parimenti più avanti il medico del Pergolesi, il dottor Bruni, dirà all’ammalato Battistino:

«la vita non è che dovere. Noi tutti abbiamo l’obbligo sacrosanto di conservarcela il più lungo tempo che sia possibile per adempiere a’doveri dello stato in cui la provvidenza ci ha collocati; ma se a Dio piacesse di abbreviare i nostri giorni, noi dovremmo rassegnarci a’suoi decreti.»

   Il che segue alla perfezione i precetti che sintetizzano bene i doveri etici del tempo del Mastriani, ovvero:

 «La vita non è che un dovere che riguarda il fine del possesso del sommo Bene, per cui gli fu dato l’essere e l’uso della vita; l’uomo che ha adempiuto il suo incarico, ha eseguito la sua missione, ha acquistato ciò per cui fu posto all’esistenza, ed il sacrificio della vita non è una perdita, ma un guadagno, non è un male, ma il suo vero bene.» [2]

   A volte la citazione è diretta ed esplicita come in questo caso, a proposito di talento non riconosciuto:

«Nell’aureo libro dello Smiles [3] noi troviamo queste parole ch’egli attribuisce a Washington Irwing:

«Tutto ciò che si dice del merito modesto obbliato non è troppo spesso che un pretesto, di cui le persone indolenti ed irresolute si servono per imputare al pubblico la loro oscurità… L’ingegno maturato dallo studio e ben disciplinato è sempre sicuro di trovare un campo aperto, purché voglia darsi un po’di pena, e non abbia la pretesa che si venga a cercarlo».

   Oppure, a proposito della c.d. Querelle des Bouffons che vide protagonista il nostro Pergolesi:

Ci piace di qui riferire le parole stesse di uno scrittore francese, il signor Choron, antico direttore dell’Opèra:

«Una lotta violenta s’ impegnò fin dal diciassettesimo secolo tra la melodia francese e la melodia italiana, vale a dire tra il cattivo gusto (la melodia francese) e la melodia; e si prolungò quasi fin verso lo scorcio del diciottesimo secolo; e, fa d’uopo confessarlo a vergogna dell’arte, due volte la melodia francese, sostenuta da tutti gli appoggi della ignoranza e della pedanteria; due volte la melodia francese, non già quella semplice e franca che era nel popolo e su i piccoli teatri, ma quella trista e presuntuosa salmodia sovraccarica delle più assurde fioriture (brodieres), quel preteso canto francese, intramezzato di urli, formato di tutto ciò che il cattivo gusto può immaginare, e ignobilmente spogliato di ciò che costituiva il suo pristino merito, trionfò, ad onta del pubblico clamore, nel teatro dell’Opèra e nelle cattedrali di Francia[4]

Mastriani e la musica del suo tempo

  Molto critica la posizione dell’autore sulla natura e funzione del teatro in musica, e quindi sui musicisti suoi contemporanei. Riletta oggi risulta pervasa di un ulteriore carico di ironia recato dal tempo. Egli, prendendo posizione a favore del secolo di lumi, scrive testualmente:

«La musica buffa era preferita alla drammatica. I nostri antenati andavano al teatro per trovarsi una piacevole distrazione nella esposizione di fattizie scene giocose accompagnate da una musica che doveva essere una fioritura del canto e non assorbirlo interamente. Che cosa avrieno pensato que’nostri cari progenitori se avessero visto su le liriche scene morir di tisi una donna od agonizzare un uomo tra le torture, spettacoli a cui ci hanno avvezzi i nostri moderni compositori? Quali dolorose cefalalgie non avrieno quei dabbenuomini riportato dal teatro dopo di aver sentito per esempio, l’Aida o il don Carlos?

Quei signori andavano al teatro per isvagarsi, per sentire dolci e facili melodie, e non per istudiare o per assordarsi il timpano. Allora non si aveva idea di quella che noi chiamiamo musica dotta, giacché per que’signori la musica doveva essere piacevole e non altro che piacevole; e noi crediamo che que’ signori aveano ragione e che aveano un dito di criterio più di noi. Quando i nostri antenati si ritiravano dal teatro erano soddisfatti, rallegrati: avevano riso di cuore, mentre le soavi melodie d’una musica piena e facile avevano lasciato su i loro sensi una dolce e grata impressione, per cui andavano lietamente a cena, e dormivano saporitamente sognando le graziose scene e i gentili balletti, di cui erano stati spettatori la sera. Noi altri invece, felicissima generazione dell’ultimo terzo del secolo decimonono, noi ci ritiriamo dal teatro con pessimo umore, storditi come capponi nell’acqua, co’timpani sfracassati da’ tromboni e dalle grancasse e co’ nervi irritati e convulsi per tutte le bricconerie che abbiamo veduto commettersi sul teatro, come se non fossero bastanti quelle che vediamo fuori teatro…»

   E più avanti:

«Pergolesi era povero.

Quelli non erano i nostri aurei tempi in cui l’Aida del Verdi si è pagata non so quante centinaia e migliaia di lire, e la Figlia di Madama Angot, barzelletta francese, non so quanti altri spropositi di lire.

Il San Guglielmo d’Aquitania, la Sallustia, il Prigioniero superbo, rappresentato al teatro San Bartolomeo nell’anno 1733, e la Serva padrona, capolavoro musicale, non fruttarono all’autore che poche centinaia di ducati. La Serva Padrona fu comperata per trenta ducati; e ciò fu nel 1734, cioè centoquarant’anni fa; a’dì nostri, nel 1850 od in questi dintorni di tempo, un capolavoro di musica buffa, che oggi fa il giro di tutti i teatri del mondo, fu pagato all’autore ducati quaranta, appunto quanto si paga per una biscroma di qualche maestruzzo francese o tedesco.

Andate a trovare la ragione di queste incredibili sproporzioni! La ragione ve la dirò io, ed è che la povertà, la modestia, l’umiltà furono sempre pesate in quella bilancia in cui si pesa il bronzo e il rame; e la ricchezza, la vanità e la superbia furono sempre pesate in quella bilancia in cui si pesa l’oro.»

 

Frammenti casuali di cronache musicali pergolesiane.

Nella Gazzetta Musicale di Napoli, anno VI n.13 del 28 marzo 1857, si legge:

LO STABAT MATER DI PERGOLESI

Eseguito la sera del 27 corrente nella Reale Arciconfraternita della Scala Santa.

Il solo monumento della vantata scuola napolitana che le vicende del tempo abbiano rispettato è lo Stabat del Pergolesi. Le generazioni si succedono ricordandosi appena de’ soli nomi gloriosi di Scarlatti, di Durante, di Leo, di Jommelli, di Piccinni, di Cimarosa, di Paesiello; e laddove le opere di costoro giacciono dimenticate nella polvere degli archivi lo Stabat del Pergolesi non passa stagione che fra noi non si esegua con l’ammirazione di chi lo sente… Queste considerazioni facevamo la sera di venerdì dopo di esserci rifatti dalla commozione che ci avea cagionata la bella esecuzione dello Stabat del Pergolesi diretta dal maestro Matteo Fischetti.»

   E ancora nel numero 17, stesso anno, del 25 aprile

«Nella chiesa dell’Università, (siamo nella Settimana Santa) sentii anche ed anzi per la prima volta il famoso Stabat Mater di Pergolese, il quale com’è noto, fu composto soltanto per due voci di soprano. Il maestro Salvi che ne fu alla direzione lo fece eseguire da quaranta voci egualmente di soprano, lasciandovi degli assoli. Non entro nei dettagli, giacché se ne scrisse già di troppo: riferirò solamente che le parti furono eseguite da signore cantanti dilettanti dell’alta aristocrazia e che lo effetto ne fu grandissimo ed immenso; anzi la coraggiosa innovazione ottenne l’effetto a si alto grado, che gli altri che gli altri direttori di musica sacra lo vanno eseguendo sul modello di Salvi…»

   Amo immaginare che nell’una o nell’altra, o magari in entrambi queste occasioni, il trentasettenne Mastriani fosse tra i commossi spettatori…

Commiato.

   Pergolesi, il giudizio universale lo predica per uno dei più solenni maestri e riformatori della musica moderna, e quelli di Rousseau, di Marmontel, del D’Alembert, del Merlin, dell’Eximeno tanto più degni di fede quanto meno inclini dai pregiudizi della loro nazione a confessare il merito degli italiani, e quello infine dell’Arteaga, che scrive a cinquan’anni dalla morte del Pergolesi:

«Pergolesi, il gran Pergolesi divenne inimitabile per la semplicità accoppiata alla grandezza del suo stile, per la verità dell’affitto, per la naturalezza, e vigore della espressione, per l’aggiustatezza, ed unità del disegno, onde vien meritatamente chiamato il Raffaello, e il Virgilio della musica. Simile al primo egli non ebbe altra guida, che la natura, né altro scopo, che di rappresentarla al vivo,

L’arte, che tutto fa, nulla si scopre.

Simile al secondo ei maneggiò con felicità incomparabile i diversi stili, de’ quali si fa uso nella musica, mostrandosi grave, maestoso, e sublime nello Stabat Mater, vivo, impetuoso, e tragico nell’ Olimpiade, e nell’ Orfeo, grazioso, vario, e piccante, ma sempre elegante, e regolato nella Serva Padrona, la quale ebbe il merito singolare, sentita che fu la prima volta a Parigi, di cagionare una inaspettata rivoluzione negli orecchi de’francesi troppo restii in favor della musica italiana. Niuno meglio di lui ha saputo ottenere i fini, che dee proporsi un compositore; niuno ha fatto miglior uso del contrappunto, ove l’uopo lo richiedeva: niuno ha dato più calore, e più vita ai Duetti, questa parte così interessante della musica teatrale. Di che possono far fede l’inimitabile addio di Megacle, e di Aristea nell’ Olimpiade, e il lo conosco a quegli occhietti della Serva Padrona, modelli entrambi di gusto il più perfetto, cui possa arrivarsi in codesto genere. Egli insomma portò, la melodia teatrale al maggior grado di eccellenza, a cui sia stata finora portata…»[5]

   Ci piace concludere questa prefazione con le parole di Salvatore di Giacomo scritte in occasione di una sua commemorazione del Pergolesi:

 «La storia di questo indimenticabile poeta la cui vita arse e si consumò in un baleno … è la storia di un canto breve e solitario, la cui disperata passione ha tremato in accenti così singolarmente umani che, a un tratto, e come in quel fuggente miracolo che aveva tutto illuminato e percosso, si sono spezzati sì, ma per essere raccolti da un’eco, che mai si potrà spegnere.»

                     OTTAVIO COSTA

[1] Domenico De Matteis, Maestro di strumenti a corda dal 1727 (anno della morte della madre di Gian Battista) almeno fino al 1743; Gaetano Greco, Maestro di contrappunto composizione dal 1717 sino al 1728, che aveva studiato con Alessandro Scarlatti, al quale successe nell’insegnamento della composizione, dopo la sua morte la carica di Maestro di Cappella del Conservatorio fu ricoperta da Francesco Durante, già suo allievo, di lui Jean Jacques Rousseau, nel suo Dictionnaire de Musique, Parigi 1762, ebbe a dire: “le plus grand harmoniste d’Italie, c’est-à-dire du monde”; infine Francesco Feo, compositore, fu uno dei più grandi maestri di musica napoletani del suo tempo.

[2] Corso di Filosofia Morale del P. Benedetto d’Acquisto da Monreale, ed. Francesco Lao, Palermo 1851, p.426.

[3] Chi s’aiuta Dio l’aiuta. (Nota originale nel testo)

[4] Nouveau Manuel complet de Musique vocale etinstrumentale–Tom II –pag. 64.(Nota originale nel testo) .

[5] ARTEAGA STEFANO, Le Rivoluzioni del Teatro Musicale Italiano dalla sua Origine fino al Presente, tomo II, cap. IX, pagg. 22, 23. Venezia 1785.