Centocinquanta anni fa nacque Francesco Mastriani, cioè nel 1819. E morì nel 1891, l’anno in cui la Serao pubblicava «Il paese di cuccagna», riconoscendo nel vecchio romanziere un suo precursore. E non era vero, perché Mastriani non riuscì a possedere l’arte, ma si fermò in patetico slancio alla «tranche de vie», disperdendo un suo innegabile vigore di sentimento e di espressività nelle lunghe digressioni sociali, nelle pedestri descrizioni, nelle concioni moralistiche.
Ma gli spetta pure un merito, quello di aver agitato col vomere sottile della sua cannuccia il vasto e brulicante tessuto della vita popolare napoletana: ed è inutile, un discorso su Mastriani ricade sempre sui legami e le derivazioni che il romanziere ebbe strettissimi con le miserie, le angosce, le aspirazioni confuse del popolo. Fosse stato uno Zola, la sua fatica sarebbe stata conosciuta e lodata da un altro pubblico, quello borghese: invece la sua stessa «quota» d’artista – oscillante in una particolare quadrettatura del diagramma – lo tenne a contatto con il popolo: i suoi romanzi – pubblicati su un giornale laico, diffuso, carico di spiriti risorgimentali quale il «Roma» ‒ erano letti dal popolino, dai piccoli mercanti, e gli analfabeti (allora più numerosi che oggi, a Napoli) si facevano leggere le «appendici» dei suoi romanzi dai fortunati interpreti della pagina scritta. E riconoscevano Mastriani come vindice delle loro sventure, lo salutavano per la strada, rendendogli il massimo omaggio partenopeo del «professore», i negozianti gli toglievano qualche centesimo sul pane, 6 sui maccheroni, significandogli così la gratitudine.
Nella famosa epigrafe che Giovanni Bovio dettò alla sua morte, si notava che in un’altra città Mastriani sarebbe diventato celebre e ricco: ma Napoli, «povera come lui», non poteva dargli nulla. La bellezza dell’immagine impedisce forse di rendersi conto che essa fu vera: i drammi del popolo erano troppo lontani, allora, dalla considerazione della borghesia ancora si calavano i morti poveri nell’obbrobrio delle 365 fosse, la White Mario raccapricciava nel raccogliere i documenti per il suo libro sulla miseria napoletana, il colera serpeggiava nelle fondamenta della città vecchia. C’era un diaframma tra poveri e agiati, che soltanto con i moti degli ultimi anni del secolo sarebbe stato incrinato: per adesso, cioè quando Mastriani visse e scrisse, non esisteva comunicazione tra i due mondi. L’unico contatto avveniva una volta all’anno, quando la nobiltà napoletana offriva un pranzo ad una rappresentanza di derelitti, riuniti tra le colonne doriche della sala Tarsia. Poi quelli andavano ai loro tuguri. E «il professore» con loro, li seguiva, li interrogava, prendeva appunti sotto le volte stillanti, nei fondaci senza luce, nelle taverne fumose. E così veniva a crearsi un circolo vano: le cose atroci, pietose o ripugnanti che il romanziere trasceglieva e additava alla gente finivano con l’essere «rilette» dagli stessi protagonisti, tornavano all’ambiente che li aveva prodotte. La critica (e ve n’era allora a Napoli?) non segnalava i libri di Mastriani; le autorità non li leggevano. Dalla fatica di un uomo che per mezzo secolo raccontò i dolori della plebe, a conti fatti, non venne nulla né dall’arte né dagli uomini.
E perciò la vicenda di Mastriani è avvolta di pietà, per questa impotenza dello scrittore a suscitare una reazione sociale, un interesse della critica, un apporto economico magari a sé stesso: nulla. Croce lo registra nel suo poderoso e affettuoso rastrellamento dell’Italia letteraria del secondo Ottocento come «il più notabile romanziere del genere d’appendice che l’Italia abbia dato». Il che è una generosa finzione, nel senso che parlare di «generi» da parte di un critico che li ripudiò decisamente, significava implicitamente svalutare l’oggetto della sua critica.
Studente di medicina, lascia gli studi per la letteratura. Ottiene un impiego alla Dogana borbonica, nelle ore libere fa da guida agli stranieri, impara così inglese e francese. Si sposa, ha quattro figli, abita per tutta la sua vita tra la gente della Sanità, in quella ferita di tufo che s’incunea nella montagna di Capodimonte, allagata ad ogni pioggia dalla lava dei Vergini.
Nel ’47 il primo romanzo, Sotto altro cielo. Poi altri, che cominciarono a dargli notorietà: La cieca di Sorrento, Il mio cadavere, Matteo l’idiota, Il conte di Castelmoresco, Quattro figlie da maritare, Il materialista… Nel 1875 un piccolo colpo di fortuna: un contratto con il «Roma», che gli darà prima due lire, poi cinque per ogni puntata di romanzo. Giorno per giorno egli scrive chilometri di appendici, in tutto 107 romanzi: I misteri di Napoli (Eugène Sue aveva pubblicato quelli di Parigi vent’anni prima, avendone ricchezza e onore), La sepolta viva, I lazzari, Una martire e decine e decine ancora.
Ma tra il ’63 e ’64 aveva scritto I vermi, una serie di «studi storici sulle classi pericolose in Napoli», una galleria hughiana di ribaldi, stupratori, ladri, anime abbiette in un lungo discorso narrativo nel quale il senso dell’affresco si perde – non sostenuto da reali possibilità di sintesi, sotto l’assillo dell’indigenza e della fretta – in moltissimi quadri, molti dei quali di autonoma vitalità. Vecchi osceni, piccoli strozzini che opprimono piccolissimi debitori, fanciullette ghermite dal vizio, ladruncoli sfrontati, avidi «padroni di casa», ruffiani venditori di carne umana.
Lo scrittore si sentiva parte di un tutto, nella sua accesa e convulsa fantasia i fatti della sua stessa vita si confondevano con quelli del popolo: e ciò era in fondo un fenomeno autentico, un riconoscersi in matrice comune. Non mandolini e canzoni, fiori alle finestre e serenate: chi non consce cosa nasconda il sipario della poesia popolaresca dell’ultimo Ottocento, ignora il volto vero del popolo napoletano, lontano dagli atteggiamenti digiacomistici come della luna. Pane, pessimo vino, maccheroni conditi col solo formaggio, coltello in tasca, malattie deturpanti, vizio: una alta percentuale della plebe borbonica e post-borbonica era fatta di questi elementi.
E bisognava essere capaci di sollevarsi dal groviglio della Halles per accedere alle luci del salotto di Nanà, soggiogare e solleticare volta a volta i lettori, cavare distillati fumanti dal brulichio della passioni umane a tutti i livelli; in una parola essere artisti, ed allora la dura fatica sarebbe stato un lievito per la comprensione e la fama. A restare qualche scalino più sotto, era un continuo rovello, due lire al giorno e la soddisfazione di vedere qualche lettore ritagliare le appendici e incollarsele su un quaderno.
Quali dunque i meriti di Mastriani? Indubbiamente, l’aver elevato a materia letteraria il tetro inconfessato risvolto della vita di una città. Non è affatto poco. Tutto il resto non dipese da lui: lo sforzo e la novità di quell’impresa, l’affondare la vanga e portare i vermi alla luce, esaurirono le capacità dello scrittore. Certo le sue appendici, lette da un popolo che avesse potuto leggerle, avrebbero spronato alle barricate. Ma Napoli non era Parigi.
Tanto vero, questo, che Sue ha un bel monumento e Mastriani nemmeno una stradetta a lui intitolata. Quest’uomo buono, colto e modesto morì con la testa sui fogli: come una cometa penzolante di stracci, s’era consumato la vita a larghi giri sulla sua città, amandola e soffrendola, impotente ad altro. Dove fu sepolto? E i suoi figli? Sembra, alla fantasia che le ricorrenze centenarie più accendono alla pietà, sembra come se il vecchio professore, una sera, fosse stato travolto dal fiume dei Vergini, sbattuto tra gli argini di tufo, inabissandosi nel tempo senza tracce.
MAX VAJRO
.
MASSIMILIANO VAJRO (spesso citato come Max Vajro (Napoli 1930 – 2003), è stato un giornalista e scrittore italiano. Dopo la laurea il Lettere alla Federico II di Napoli, a 25 anni fu già autore di una biografia di Arrigo Boito. L’impegno nella musicologia lo portò ad una nuova pubblicazione nel 1962: Fascino delle canzoni napoletane. Svolse intensa attività di pubblicista esordendo come critico nel quotidiano «Il Mezzogiorno». Nel 1950 fu segretario del Comitato per le celebrazioni di Arrigo Boito (presieduto da Benedetto Croce); fu fondatore della rivista «Il San Carlo», fu responsabile dell’ufficio stampa dell’Azienda soggiorno e del Teatro San Carlo. Divenne inviato speciale de «Il Mattino» e direttore, per breve periodo, del quotidiano «Napoli Notte». Nel 1980 fu presidente della Società promotrice di belle arti. Alla fine degli anni ’90, Massimiliano Vajro prese la guida della casa editrice Fausto Fiorentino Editore, impegno che mantenne fino a poco tempo prima della sua scomparsa.