La scrittura di Francesco Mastriani, poliedrico e fluviale “forzato della penna” (fu, nell’ordine, attore, scrittore teatrale, giornalista, redattore, traduttore, ancor prima che romanziere), offre un punto di osservazione privilegiato per saggiare il fenomeno di ibridazione delle forme del romanzo dell’Ottocento: in primo luogo, la conversione della tragedia in tragico, espressa e declinata nel genere più “democratico” – per così dire – del romanzo e, in seconda battuta, la declinazione del tragico nelle differenti espressioni del “giallo” e del romanzo “giudiziario”, in un percorso che si dipana per oltre quarant’anni (quanti ne corrono dalla pubblicazione nel 1848 del suo primo romanzo, Sotto altro cielo, alla morte nel 1891).
Mastriani, infatti, fu tra i primi a trasformare in letteratura d’intreccio la cronaca nera e giudiziaria e, grazie a un’abile commistione di generi (rosa, nero, gotico, giallo, romanzo storico; e non da ultimo, per appunto, il tragico), ha costituito un modello archetipo, un serbatoio a cui ha poi attinto a piene mani il thriller napoletano contemporaneo (da Giuseppe Ferrandino ad Attilio Veraldi, fino a Maurizio De Giovanni), di cui si può definire a buon ragione il precursore.
Superata la prima fase della sua produzione letteraria, corrispondente all’ultimo decennio borbonico e magistralmente rappresentata da un testo di forte impianto drammatico quale La cieca di Sorrento, Mastriani nel periodo post-unitario continua la propria sperimentazione in ottica didattico-documentaria, cimentandosi in opere di maggior realismo nell’originale formula del romanzo-inchiesta (la cosiddetta “trilogia socialista”).
Nell’ultimo ventennio di attività poi, coincidente con l’inizio della sua assidua collaborazione al Roma, lo scrittore trae dalle pagine di cronaca e dalle vicende giudiziarie storie reali e dolorosamente tragiche, di cui sono protagonisti personaggi comuni: il quotidiano e la sua lingua perciò – abbandonati definitivamente l’accentuata letterarietà e il lirismo della prima produzione – irrompono ora con forza nel tessuto narrativo, in un ibridismo linguistico che gli allontanò definitivamente la simpatia dei critici.
Parafrasando le parole di George Eliot, anche le persone insignificanti possono trasformarsi in personaggi tragici, anche la più prosaica esistenza quotidiana può diventare una tragedia: ecco allora che Mastriani può far assumere dimensioni epiche a uomini anonimi, come Ciccio, il povero bettoliere di Borgo Loreto; o stagliare plasticamente nella sua tragica solitudine persino una matricida, come la Coletta de La Medea di Portamedina.
Ma Mastriani va oltre: il suo interesse è indagare, denunciare, cogliere il momento in cui la parabola discendente ha avuto inizio; e quindi, già sperimentata la tragedia in versi, di impianto classico e di argomento storico, sceglie di narrare episodi di una dolorosa tragicità moderna: come quella delle ombre, delle figlie della Madonna, di donne sedotte e abbandonate o solo semplicemente ingannate, che vanno in scena sullo sfondo di una realtà degradata e quotidiana, e di uomini accusati ingiustamente, vittima dei contorti e inefficaci meccanismi giudiziari.
Ecco attuarsi allora la conversione della tragedia in tragico: il genere letterario diviene un modo, “una qualità non più distintiva di un solo genere, ma dotata di un’esistenza nomade”.
Entro un tessuto sostanzialmente colloquiale, che è quello del mondo oggetto di narrazione. Di tragicità vera marcata, come vedremo, anche linguisticamente da Mastriani che alle nuove forme del romanzo affida un ruolo educativo e formativo, fondamentale per la società civile.
Frutto della instancabile sperimentazione letteraria di Francesco Mastriani è ispirata a fatti realmente accaduti, è del 1882 La Medea di Portamedina, in cui noir e tragedia si fondono con i tipi del romanzo sociale e con i primi accenni al poliziesco-giudiziario, pur entro la struttura tipica del genere d’appendice.
Se i romanzi di questo decennio, quali per esempio il Processo Cordier, Il bettoliere di Borgo Loreto e Il barcaiuolo di Amalfi, prevale però maggiormente l’interesse per l’aspetto giuridico, con una attenta ricostruzione delle fasi delle indagini e del dibattito processuale, qui il focus è tutto sul gesto criminale e sulle sue motivazioni e dunque, in definitiva, sull’omicida e sulla sua complessa psiche.
L’aula del tribunale in cui Coletta, nelle pagine finali del romanzo, confermerà fermamente la sua colpa, è il palcoscenico dove la verità va in scena e si rappresenta fedelmente il dramma delle vittime e dei loro carnefici.
Perché, come lo scrittore denuncia, spesso anche i carnefici sono vittime e il loro gesto criminale è solo l’ultimo atto di una tragedia che ha travolto la loro vita incolpevole e a cui non è possibile rendere giustizia.
Tale è la vicenda di Coletta Esposito, la cui testa, a quanto si legge ad apertura di romanzo, ancora sul principio dell’Ottocento penzolava dalle mura di Castel Capuano dal lato che guarda a Santa Maria Cancello; lato che per questo motivo era indicato dal popolino, pur ormai abolita la barbara usanza, come I cape da Vicaria.
Dalla testa penzolante di Coletta prende inizio dunque con un dichiarato flashback la narrazione dei “drammatici e terribili fatti” di cui fu protagonista “la Medea di Portamedina, come nelle aule della Giustizia fu soprannominata per somiglianza di atrocità con la famosa figlia del re della Colchide”.
La donna difatti si macchierà di un orrendo duplice misfatto: accecata da una indomabile gelosia, ucciderà la bambina avuta dall’amante Cipriano e la giovane donna con cui il fedifrago stava per unirsi segretamente in matrimonio.
Ma se pure non può esserci giustificazione all’infanticidio commesso, Coletta è tuttavia una predestinata alla violenza, che è definitivamente autorizzata, in un complesso tormento psicologico, dal tradimento da parte del suo uomo di un antico giuramento di fedeltà, rinnovato sulla vita della loro bambina: di qui una vendetta insensibile a ogni vincolo di umanità.
Il crimine di Coletta, con evidente debito al clima positivistico, deve essere dunque inquadrato nel contesto sociale degradato da cui meccanicisticamente deriva; e per questo lo scrittore – già consueto al tratteggio degli studi storico-sociali della trilogia – dipana il lunghissimo antefatto preparatorio alla tragedia, ripercorrendo a ritroso la vita della “novella Medea”, segnata sin dalla nascita dall’abbandono nella ruota degli esposti, e ricostruendone la personalità fragile e disturbata.
Il primo atto dell’orribile dramma di Casoria si apre difatti sul Cortile della Santa Casa dell’Annunziata dove, secondo consuetudine, nel giorno dell’Annunciazione di Maria venivano radunate le figlie della Madonna che si dovevano esporre al pubblico per la scelta di una sposa.
È il 1792, e tra esse c’è anche Coletta, ormai divenuta “una leggiadra brunetta che avea certi occhioni nerissimi e fulgidi con sopracciglia crespe e ritrose”.
La ragazza, dopo aver inizialmente rifiutato con disprezzo il matrimonio, di fatto forzato, con un vecchio scapolo, accetta infine di sposarlo spinta dalla promessa di una dote personale avanzata da una benefica e misteriosa dama, tale signora Molisi, che mostra compartecipazione alle sue vicende e forse una fin troppo eccessiva compassione per l’errore della madre che l’abbandonò.
La vicenda narrata assume le forme di una parabola discendente, annunciata sin dalle prime battute: insistente, nelle descrizioni della donna di “una bellezza, diremmo infernale”, l’accenno a una ferinità che già prefigura l’istinto omicida.
Mastriani avvolge il personaggio in un’aura di eccezionalità (seppur negativa), creando un tono alto, da “tragedia” nella narrazione dei momenti di maggiore tensione, in cui può dunque aprirsi a costruzioni più ricercate e letterarie.
Contribuiscono alla drammatizzazione la tendenza all’enfasi, con una sovrabbondanza di esclamazioni e interrogazioni che mirano a coinvolgere il lettore, favorendone l’identificazione emotiva.
Nelle battute di dialogo Coletta può alternare lamentazione e invettiva, talvolta violenta e aggressiva; l’elegia è invece nei rari momenti descrittivi di una natura che assiste impotente al precipitare degli eventi (… e la luna di marzo, la luna di Pasqua, risplendeva limpida nel cielo). Lontano tuttavia dalla letterarietà dei romanzi di prima fase, Mastriani si apre a una lingua ancorata al parlato, di cui riproduce le forme marcate della sintassi nei dialoghi di Coletta, di tono ben diverso da quelli di personaggi di rango più elevato: tendenza opposta a quella espressa, a esempio, in un romanzo come Il bettoliere, testo non di impianto tragico, in cui prevale piuttosto la ricostruzione del quadro dell’ambiente in cui si svolgono l’indagine e il processo sul crimine commesso.
La degradazione anche linguistica di Coletta, è evidente nelle minacce rivolte al novello sposo, nella tragicomica sera degli sponsali, e durante l’interrogatorio presso il giudice di polizia del suo quartiere, dove è convocata dopo l’aggressione al marito (“Siete pregata di moderare i termini dinanzi ai magistrati”). Ma alla dama cui aveva sdegnosamente rimarcata la propria diversità anche linguistica (io non sono una dama come voi né so parlare il vostro linguaggio) Coletta si rivolgerà poi con ben altro tono, nelle battute finali che prefigurano la tragedia (Mia benefattrice – rispose Coletta – è possibile che il mio cuore s’inganni; ma checché avvenga di me, io ricorderò sempre con tenerezza la vostra materna affezione. Lasciate, mia dolce signora, che io vi baci la mano) e che toccano drammaticamente l’apice nel momento della agnizione (Quella donna è certamente la madre mia!).
Lo scrittore intreccia i suoi fili narrativi non rinunciando a piccoli quadri d’ambiente, che sono anche un pretesto per una sorniona critica alla Crusca (formavano un’orchestra di tofe, caccavelle, triccaballacche ed altri strumenti di questa fatta, di cui ci duole che la Crusca non abbia registrato i nome); una certa attenzione è riservata alla realtà quotidiana; una realtà fatta anche di gustose pietanze.
Tuttavia l’interesse è tutto sulla matricida: Mastriani segue la premeditazione del delitto e prova a immaginare i pensieri della donna in un monologo interiore in cui il registro si alza drammaticamente.
Intanto si prepara lenta ma inesorabile la tragedia, preannunciata e percepibile nella quiete innaturale che precede la tempesta.
La scoperta del tradimento innesca la follia omicida di Coletta, ormai degradata allo stato ferino; i momento che precedono la tragedia sono narrati con sequenze di endecasillabi (la donna sedé sul trònco d’un fàggio/abbattuto da recènte uragàno), inversioni sintattiche con posposizione del soggetto e inserimento di settenari, con ardite metafore letterarie (Bevve in copia la vita / dai materni calami / la pargoletta, e quand’ebbe pienamente soddisfatto al bisogno di natura si addormentò nelle braccia della madre).
Mastriani riporta le exclamationes e le parole deliranti della donna/belva durante l’infanticidio, gesto scandito ancora una volta dagli endecasillabi e dalla ricercata anteposizione del participio (E sollevata con àmbo le mani / la morente vittima per i piedini,/ la sbattè col capo violentemente/contro la terra).
La violenza brutale sancisce la regressione definitiva di Coletta allo stato animalesco: La iena fremette allora in tutto il corpo e mise un urlo di belva.
Coletta non mostra alcuna titubanza o pentimento neppure dopo il ferimento mortale della rivale e neppure quando è condotta al giudicato di polizia di Casoria per i primi accertamenti presso il giudice-commissario, a cui descrive le modalità del delitto (Le ho annodato al collo una pezzuola bianca, e ho stretto forte); la premeditazione è confessata a voce alta e ferma.
Il breve interrogatorio riportato da Mastriani è dunque l’epilogo della tragedia, in cui si staglia la figura fiera della novella Medea, impassibile e imperturbabile, che va incontro al suo destino di morte (Con la testa alta, con lo sguardo procace, con passo fermo salì sul patibolo volgendo intorno a sé gli occhi terribili).
“Tre rulli di tamburo si fecero udire”: poi, il silenzio della fine, ancora una volta scandita da un endecasillabo: Poi la mannaia si alzò, e ricadde.
Nelle quinte resta il re Ferdinando, un padre ignaro della tragedia di cui è parte in causa e che al teatro dei Fiorentini, con la moglie Maria Carolina d’Austria, distrattamente ascolta le richieste di grazia mosse dalla sua antica amante, la signora Cesarina Molisi, per Coletta; e Cesarina non sopravviverà alla morte della figlia (e della nipotina).
Il romanzo-tragedia si conclude dunque con la morte di una intera generazione di donne, tre donne, in definitiva, sole.
Il grido di belva di Coletta allora è grido di vendetta di una donna abbandonata e di una madre sola, un grido inascoltato che non ha trovato giustizia e che per questo è sfociato in tragedia, per questo Mastriani, a sipario chiuso, può ammonire:
Valga il triste dramma che abbiamo narrato a fare accorti i giovani sulle funeste conseguenze delle loro passioni e del colpevole abbandono in cui lascino le vittime della loro seduzione.
Se nella Medea Mastriani inizia a mostrare attenzione verso il meccanismo giudiziario, tale interesse diviene un’istanza pressante in Ciccio il Pizzaiuolo ovvero Il bettoliere di Borgo Loreto.
Qui allo scrittore preme mostrare anche e soprattutto le falle di un sistema imperfetto, che può senza scampo mandare a morte un innocente: tale sarà il destino del bettoliere Ciccio, accusato ingiustamente di un crimine infamante.
Nessun investigatore in questo romanzo, a differenza del Processo Cordier, ma soltanto l’autorità giudiziaria: che, difatti, sbaglia. Il focus difatti, più che sull’inchiesta, è sul meccanismo diabolico e imperfetto, quasi kafkiano, del sistema giudiziario e sulle dinamiche perverse che rendono inesorabilmente un innocente un mostro, ancor prima della pronuncia di una sentenza: lasciando sostanzialmente sullo sfondo la vittima (e creandone di fatto una nuova).
Il romanzo, molto indugiando sul dato folkloristico e d’ambiente di una Napoli in cui, sullo scorcio del 1837, imperversa il colera, narra, dopo un lungo antefatto (la contesa tra due popolane per il bel pizzaiolo, con tanto di stregoneccio), il terribile stupro e barbaro assassinio di un bambino, Fafele o il ricciutiello, siccome il chiamavano. Dell’assassinio sarà accusato e condannato lo stesso incolpevole bettoliere sulla base di semplici indizi e circostanze, di un fatale errore e di una falsa testimonianza, quella del capo urbano Aniello Bue, un camorrista desideroso di vendetta nei confronti dell’imputato, reo di non aver pagato “la camorra” su la pasta e i maccheroni.
Di scorcio la dolorosa storia del padre naturale di Fafele, Tore, che non aveva potuto mantenere la promessa di sposarne la madre – infermatasi e morta durante la sua lontananza dopo aver dato in affidamento il figlio alla casa dell’Annunziata – e che solo al processo dichiarerà una peraltro già intuita da tutti durante le sue frequentazioni della locanda di Ciccio, dove viveva il bimbo che era stato preso in custodia, dopo peripezie varie, dalla seconda moglie del bettoliere.
Ancora una volta dunque Mastriani trasforma la cronaca nera e giudiziaria nel complesso intreccio del romanzo d’appendice.
Il romanzo si compone di venti capitoli di cui i primi undici svolgono il lungo antefatto preparatorio fino alla sparizione del bambino e alla scoperta del delitto, dichiarato con certezza nel dodicesimo.
Dopo gli iniziali sospetti della polizia nei confronti di Tore, il ritrovamento ancora in vita di Fafele, che prima di spirare pronuncerà il nome Ciccio, fa inevitabilmente convergere le indagini sul pizzaiolo: individuato come reo di un doppio misfatto, se ne dispone l’arresto immediato, nonostante le professioni di innocenza.
Il processo, che durò circa quindici giorni, “fu fatto prestamente contro il consueto” e nella prima udienza la pubblica opinione aveva già condannato nel capo l’imputato.
Il linguaggio tecnico giuridico è dunque ampiamente presente: Ciccio… depose; Tra le testimonianze a discarico; la dichiaratoria; “l’Istruttoria si era impadronita di un altro non lieve argomento di accusa contro l’imputato”; le così dette generalità; fu spiccato un rapporto al commessario del quartiere per dargli contezza del fatto.
In questo romanzo, i cui protagonisti sono, a differenza del Processo, tutti di estrazione popolare, il lessico appare fortemente marcato sia nei dialoghi (E la Madonna del Carmine mi farà la grazia di veder scolare la principale”; faccia de mpiso! assassino! Che festa avimmo a fà quanno sen terremo li sante messe), sia nelle descrizioni di ambienti, sia nella denominazione di giochi, usi, modi di dire (di cui talvolta lo scrittore avverte la necessità do glossare il significato); ampio il ricorso ai soprannomi e l’indugio sul lessico gastronomico.
Non manca, infine, il lessico gergale, anzi è ricco quello relativo all’onore offeso per una donna: non è sopportabile, infatti, “che altri rivolga alla sua donna la più innocente parolina o la più insignificante occhiatina”.
In questi casi entrano in campo le dichiarazioni, le tirate e le punte. “In caso di tradimento e di infedeltà dalla parte della donna, lo sposo tradito regala una buona rasoiata alla faccia dell’infida per sfregiarla per tutta la vita” o per diverbi tra giocatori d’azzardo, dove “le sfarziglie e le squarcine aggiustavano le partite”.
Molto interessante infine il riferimento al gergo dei servi, che ci permette di far riemergere un lessico sommerso: “voi parlate del pevezzullo che la pascogna ha cresciuto?”.
Il presidente fu costretto di domandare la significazione delle parole…; e apprese che pevezzullo nel gergo dei servi significa ragazzo e pascogna vuol dire padrona”.
Ma come si diceva, il processo a carico del bettoliere offre soprattutto a Mastriani la possibilità di denunciare quelli che già allora erano considerati gli aspetti maggiormente problematici della fase istruttoria e del ruolo e dei poteri del giudice istruttore, come l’abuso della carcerazione preventiva e i forti rischi di compromissione della imparzialità della decisione finale da parte del Collegio giudicante ove questi fosse integrato, nella sua composizione, proprio da parte del giudice istruttore.
Tali problematiche sono ben esposte da Mastriani nel corso del romanzo e negli stessi termini presenti nei manuali di diritto e procedura penale del tempo.
E qui ci si condonino alcune osservazione, che ci sembrano debbano calzare opportunissime.
Primamente, ei ci pare che molto impedimento alla ricerca del vero sia l’autorità, troppo sconfinata, dai giudici istruttori. Basta un semplice sospetto in loro sulla reità di un individuo per che fabbrichino addosso a questo un processo ricamato di circostanze più o meno poetiche.
Il giudice istruttore ha facoltà di gittare in prigione un libero cittadino, imputando a costui un delitto, del quale egli non ha che un sospetto.
E, quando lo ha gittato in prigione, lo interroga a quattr’occhi, e pone in opera, per così dire, tutto il machiavellismo poliziesco per fare che l’arrestato confessi un reato che non ha mai commesso.
Insomma:
Il giudice istruttore ha interesse di trovare il delitto; e questo interesse gli fa velo alla ragione, il suo amor proprio è messo in giuoco; gli parrà una sconfitta morale il riconoscere la innocenza dello accusato, che egli avrà tenuto in carcere preventivo per un buono spazietto di tempo.
Concludendo,… è nella natura della giurisdizione penale che il presidente d’una Gran Corte criminale o delle Assise, il regio procuratore e il pubblico ministero e i giudici sieno sfavorevolmente impressionati contro l’accusato; e questa sfavorevole prevenzione annebbia la serenità del giudizio.
Tutti vogliono per forza trovar reo l’accusato, mentre invece tutti questi magistrati dovrebbero fare il possibile per trovarlo innocente.
Dunque, per quanto “il reo si ebbe un ottimo avvocato, giovane allora ed oggi onore del foro napoletano” Ciccio è condannato alla pena capitale col terzo grado di pubblico esempio.
Provvidenzialmente scampato alla morte per afforcamento e condotto in una chiesa vicina, il pizzaiolo morirà ugualmente, forse finito – così allude lo scrittore – per mano della stessa polizia.
Il socialista e cristiano Mastriani non può esimersi dal riformulare, con un’autocitazione, la medesima denuncia contro “questa suprema usurpazione del diritto di Dio che si addimanda pena di morte” già espressa in I vermi e dal tuonare contro l’irreparabilità dell’errore giudiziario. Ma il vero omicida non potrà scampare alla giustizia di Dio, come già il Daniele in Il mio cadavere.
Vinto dal rimorso per i crimini commessi, il giovane soldato dei dragoni Francesco, ch’era acquartierato ai Granili, infermerà due anni dopo la morte di Ciccio e in punto di morte confesserà il suo crimine per riabilitare la memoria del povero pizzaiolo.
Moriranno di morte violenta o improvvisa il camorrista Aniello Bue e quanti “avevano esagerato i suoi torti al cospetto dei giudici”, così come i falsi testimoni “corrotti o intimiditi” che “si ebbero anch’essi lo scappellotto del cielo”.
Di là dell’intento cronachistico, Mastriani ancora una volta non dimentica la sua principale vocazione educativa, criticando i limiti di una legge che sulla terra vorrebbe erigersi come emanazione di quella divina. Ma, come egli conclude a chiusura del romanzo, la impunità per le malvage opere non è per nissuno su questa terra. Presto o tardi si paga il fio del male che si fa.
NADIA CIAMPAGLIA