S. Carlo – È qualche tempo che una stella infausta presiede alle sorti di questo teatro, a cui non è rimasto altro che la gloria de’suoi passati splendori. Noi non siamo per sistema laudatores temporis acti; ma in certe cose come si fa a non ricordarsi?… Dopo lunga aspettativa, la sera del 3 di questo mese il nostro massimo teatro si riaprì con un’opera nuova, il Trovatore. Se sapessimo chi ebbe la felice ispirazione di regalare al pubblico questa opera nuova, vorremmo fargli i nostri congratulamenti: la scelta non poteva essere migliore! Sono ormai tredici anni che questo Trovatore ci sta felicitando, per non dire, ci sta levando l’umido; sono tredici anni che i suoi motivi ci assediano dappertutto, in istrada, ne’salotti, in campagna. A Napoli, per circa dieci anni, ci fu una specie d’idrofobia trovatoriesca. Le suonatine a quattro mani e le suonate di forza, le variazioni, i concerti, le cavatine, i duetti, i terzetti che si cantavano nelle private riunioni, tutto era roba del Trovatore. Se Verdi avesse scritto questo spartito non con altro scopo che quello di romperci le scatole, non avrebbe potuto riuscire meglio nel suo intento. Da tredici anni a questa parte, ogni cantante di provincia mette ne’patti della sua scrittura quello di esordire col Trovatore. In qualunque paesello dove voi capitate per caso, siete sicuro che, se ci è una baracca qualunque che rappresenti un teatro, il cartellone porterà stampato a lettere di scatola la malaugurata parola Trovatore. Insomma, è una maniera novella di persecuzione, di cui Dante, se avesse a’tempi nostri scritto l’Inferno, si sarebbe valuto con gran profitto delle anime. O Trovatore, noi ti malediciamo usque in genitalibus, come dice la Curia romana quando maledice a qualcheduno: che tu possa sparire dalla faccia della terra, e non trovare neppure un casotto che ti alberghi, neppure un cane… Ma che dico! un cane! Gli è appunto in questa famiglia di mammiferi che tu trovi accoglienza e buon viso.
Ma voi credete, ingenuo lettore, che, a malgrado delle vostre e delle nostre maledizioni, il Trovatore finirà d’infistolirci? Oibò. Siate certissimo che se si riaprirà qualche altro teatro di musica in Napoli, e sia pure il Teatro del Popolo o Donna Peppa trasformati in teatri di musica, il Trovatore farà gli onori di casa. E, se non sarà il Trovatore, sarà qualcuno de’suoi fratelli Simon Boccanera, Ernani o Rigoletto.
Per buona ventura, il Trovatore naufragò la sera del 3; altrimenti ce lo saremmo goduto per un’altra decinella di sere, e forse per l’intera stagione.
Del naufragio si salvarono le signore Palmieri e Tati, e il baritono sig. Pandolfini.
Aspettiamo con grande ansietà la riproduzione d’una vera gemma musicale, che per lo spazio di ventitré anni gl’impresari che si sono succeduti nel sacrificare S. Carlo, non pensarono mai di rimettere in iscena; forse ci pensarono; ma che volete! Si poteva uscire dagli eterni Rigoletto, Ernani, Trovatore e Simon Boccanera?
La gemma, di cui parliamo, è la Fidanzata Corsa del Pacini, data la prima volta su le scene di S. Carlo nell’autunno del 1843, dopo i favolosi successi dalla Saffo dello stesso autore e della Vestale del m.° Mercadante.
La Fidanzata Corsa fu cantata in quel tempo da sommi artisti, come un Coletti, un Basadonna, un Fraschini; e fu giudicata un capolavoro.
Per quanto piacere risentiremo questa bella musica! Possa l’esecuzione rispondere al merito dell’opera! Essa va in iscena stasera domenica, salvo altri accidenti straordinari.
Diremo il nostro umile parere su i nuovi artisti allorché gli avremo sentiti in altra opera.
Che cosa diremo del nuovo ballo Elena? Non par vero che nell’anno 1866 si veggano ancora di simili bambolate su le scene di S. Carlo.
Ci permettano i gentili nostri lettori che ci fermiamo alquanto sul subbietto della Coreografia, nel quale ci piace di esporre alcune nostre particolari opinioni.
Noi non entriamo a discutere se il tempo della coreografia è passato; ma una cosa è certissima, ed è che i balli alla Tiganò, alla Gioja, alla Taglioni sono morti come muore quaggiù ogni cosa che ha fatto il suo tempo. Mutano i pubblici spettacoli a seconda dei tempi, de’popoli, de’costumi. Una volta gli uomini si divertivano a vedere sugli anfiteatri il loro simile divorato dalle bestie feroci; ridevano ed applaudivano quando i Mercurii, per assicurarsi che un gladiatore fosse morto davvero o non fingesse, gli conficcavano nelle aperte ferite le loro bacchette di rame infuocate; ridevano ed applaudivano più forte quando i Plutoni con le loro mazze spaccavano il cranio dello stesso gladiatore che si era finto morto per non essere più costretto a combattere. Vergini pudiche ed innocenti assistevano alla disperata agonia degli schiavi, le cui membra si dibattevano sotto i denti del tigre, dell’orso o del leone. Più tardi gli uomini si sollazzarono alla lotta de’tornei. Nel secolo decimonono gli uomini si divertono a veder muovere le braccia e le gambe ad una quarantina di fantocci d’ambo i sessi. Chi sa quale sarà il divertimento caratteristico del secolo venturo!
Hilvarding creò la coreografia: di un vero passatempo egli fece un’arte rappresentativa che giunse a commuovere gli astanti fino alle lagrime. Ma la coreografia, per la impotenza de’suoi mezzi, è rimasta un’arte plastica intesa a dilettare i sensi. Senza il soccorso della meccanica e della chimica, essa non potrebbe aver vita su i teatri presenti. Qualche coreografo di genio ha cercato d’introdurre la storia o il romanzo nella pantomima. Il tentativo ha talvolta ottenuto buoni risultati, quando si è trattato di storia popolare o di romanzo conosciutissimo; ma dove i mimi sono stati obbligati a far comprendere l’azione a furia di pugni e di calci, la faccenda è stata un po’seria; gli spettatori si sono seccati di non capir nulla, e non hanno fatto più attenzione che a’be’garretti delle danzatrici.
Bisogna che i coreografi si persuadano che il loro trionfo è assicurato se sapranno lusingar la vista degli spettatori durante l’intero spettacolo. L’azione, o il dramma–mimico, è il pretesto del ballo; quindi, quanto più questa azione sarà di così facile apprendimento che gli spettatori non dovranno lambiccarsi il cervello per indovinarla, come si farebbe di un logogrifo o una sciarada, tanto più sarà divertevole.
È indubitato che la coreografia si trova oggi nelle più difficili condizioni, imperciocchè il tempo delle fate, delle fantasmagorie, de’genii, de’subbietti mitologici è al tutto finito, e però i coreografi si trovano privi delle loro più grandi risorse meccaniche. La faccenda de’genii e delle fate era un cosa comodissima per le sparizioni, pei voli, e per le trasformazioni a vista.
Quei semplicioni di padri nostri rimanevano con tanta di bocca aperta quando vedevano i miracoli dello scenico meccanismo. Tutte le divinità dell’Olimpo, non escluso lo zoppo Vulcano, facevano fortuna allora sul teatro. i Satiri, i Fauni, le Sirene, le Naiadi, le Napee, le Driadi e le Amadriadi, le Baccanti, le Eumenidi, le Parche, i Sogni, le Amazzoni, i Pigmei, i Giganti, i Centauri ebbero il loro regno sulle scene: ma oggi questi signori farebbero ridere; e Giove stesso, se si presentasse al pubblico, sarebbe solennemente fischiato con tutti i suoi fulmini a tric-trac. La generazione attuale non crede più al diavolo, e lo trova eminentemente ridicolo anche quando si presenta sotto le graziose forme della Boschetti o della Ferraris. Trent’anni fa il diavolo faceva fortuna sulle nostre scene, tanto che il governo napolitano, temendo che i figli di D. Placido si familiarizzassero troppo con messer lo demonio, gli proibì di cacciare le corna sulle scene e lo rimandò tutto mortificato a casa calda, e gli dette per successore i Silfi ed i Folletti, gente stupida creata da quella sciocca fantasia dell’abate Royer; i quali non avevano neppure la decima parte dello spirito di Lucifero e compagni. D’altra parte, l’abate Royer non credeva né a Dio né al diavolo; giacchè cassava immancabilmente queste parole in tutti i suoi libri teatrali che si mandavano alla censura. E quando, in qualche produzione gli si mandava la compagnia francese Simonnot, egli si abbatteva nella parola jèsuite, ci tirava un bel tratto di penna, e ci sostituiva di suo pugno il qualificativo fripon.
Ma per tornare alla coreografia, è certo, che se essa non si avvia a rappresentare i fatti più sensibili della storia, corre il rischio di essere cancellata per sempre dal novero delle arti rappresentative. I balli attuali debbono rappresentare soggetti storici nazionali. I tornei, le battaglie, le rivoluzioni sono i soggetti che oggi devono far fortuna su i teatri, ed assicurare alla coreografia un altro periodo di esistenza.
La danza è il compimento naturale della coreografia; essa è pel pubblico il maggiore allettamento. Il buon successo d’una azione coreografica dipende in gran parte da’ballabili, nei quali può veramente spiegarsi molto brio, molto gusto, molta novità. Figuratevi che se il pubblico sopporta pazientemente il dramma a pugni eseguito dai mimi, gli è perché aspetta il ballabile ed il passo a due.
La danza ebbe i suoi caratteri particolari, secondo i tempi, le circostanze, i costumi ed il grado di civiltà de’popoli. Essa è non pure l’espressione più sensibile della gioia, ma traduce sovente delicati e gentili affetti dell’anima, siccome eziandio passioni impetuose e guerresche. La danza pirrica ebbe sua vita tra belligere genti, ed educò la gioventù a guerreschi sentimenti. Ballano le odalische nel serraglio d’un pascià; e quella danza è intesa ad eccitare i morti sensi del despota infemminato. Danzavano i Cureti e i Curibanti una danza ebbro festante per onorare il dio Bacco. Danzavano ne’templi d’Iside e di Osiride gli egizii sacerdoti; e la loro danza esprimeva il passaggio degli astri o i misteri della vita futura. Ballano i popolani di Napoli la tarantella, e questa maniera di danza è tutta una storia d’amore. La nostra civiltà ha dato alla danza un posto d’onore tra le arti, e ha detto a’suoi cultori: Noi vi stimeremo e vi colmeremo d’oro se arriverete a toccare la perfezione: vi disprezzeremo e vi tratteremo come oggetti di trastullo, se rimarrete a mezz’aria, ossia nella mediocrità. Onde, non ci è via di mezzo; o una Essler, una Cerrito, una Taglioni, una Berretta, una Boschetti, o… ritiratevi, se avete un’ombra di umana dignità.
Che cosa è una corifea? È un corpicino di donna cui l’anima, il cuore, i sensi, tutto è negato. Dal momento che una fanciulla diventa una corifea, cessa di appartenere alla sua individualità per formare parte di un tutto che si chiama corpo danzante, gran mostro a cento braccia e a cento gambe. La corifea sulla ribalta è l’illusione, la poesia, il prestigio, la vita dei veli, dell’aria, de’fiori e de’suoni; dietro le quinte è la più meschina creatura che Dio abbia messo sulla terra o meglio su le tavole.
. Fiorentini – Ecco un teatro che non è mai venuto meno all’aspettazione del pubblico napolitano. Un impresario, che è in pari tempo uno dei più felici commediografi e de’più valenti e benemeriti artisti della scena italiana, dirige da molti anni con raro senno ed abilità e sorti di questo teatro, le cui tavole sono state e son calcate da’primari artisti di prosa che vanti l’Italia. Ogni anno, gran copia di nuove produzioni, tra originali italiane e tradotte, alla scelta delle quali presiede un gusto intelligente, vengono messe in iscena, il più con ottima riuscita.
Allorché, per effetto della funesta epidemia, che nello scorso anno 1865 ed in questo anno 1866 ha travagliato la città nostra, gli animi giustamente addolorati de’buoni napolitani rifuggivano da ogni pubblico divertimento, il solo Teatro de’Fiorentini non interrompeva il corso delle sue rappresentazioni per non mancare agli obblighi del suo appalto e per ispargere poche ore di obblio su la calamità, per cui tanto lutto cadea su la nostra città, pel consueto sì viva, sì animata, sì allegra.
Già una trentina circa di nuove produzioni si sono date nel corso di questo anno teatrale, di cui la maggior parte si ebbero lieta riuscita, la mercé pure della valentia degli artisti come il Salvini, la Cazzola, l’Alberti, la Patti, il Majone, il Bassi.
Siamo dolentissimi che per l’anno venturo perderemo la coppia Salvini – Cazzola, non facile ad essere surrogata. Di artisti come il Salvini e la Cazzola non ci è abbondanza, per mala ventura.
. Degli altri teatri della nostra città parleremo ne’numeri successivi, e specialmente del Teatro Fenice, in cui veggiamo specialmente riprodotta la musica buffa, che è un vero bisogno del nostro paese.
FRANCESCO MASTRIANI