Vi sono alcuni errori o pregiudizi che passano inosservati allorché vengono accompagnati e sorretti dall’autorità di un gran nome, e massimamente quando s’incontrano ad ogni passo, sì che lo spirito umano vi si avvezza e gli adotta quasi senza volere. Tra questi errori è a porsi in primo luogo lo stranissimo abuso che si fa della parola Destino in pressoché tutte le scritture de’moderni e in tutte le poesie degli antichi. Che gli autori pagani li ficcassero in tutto, non è da farne le maraviglie, però che il destino entrava nell’elenco innumerevole de’loro numi, anzi vi occupava il primo posto: egli teneva la sommità dell’Olimpo sotto il nome di fatum; avea sotto ai suoi piedi la terra e nelle mani l’urna in cui erano riposte le sorti degli uomini: divinità implacabile e sorda alle preci, il fato riduceva ad un mero giuoco di lotteria la povera umana genia; e per esso le grandi vicende che agitano i popoli della terra non erano altra cosa che i termini di una scienza esatta. Epperò è naturale e scusabile appo gli antichi un errore di tal fatta, che era annesso alle favole e alle stravaganze della loro religione; né deve sorprenderci se in ogni luogo c’imbattiamo nel loro dio immobile e freddo, che tiene le fila di que’bambocci che si muovono sotto a’suoi piedi e che vengono addimandati uomini. Se non che, arreca alquanta maraviglia il vedere spessissime volte ne’versi di Omero, di Virgilio, di Sofocle e d’Euripide moltiplicarsi questa deità ad un numero indeterminato per modo che il Sic fata simun di Virgilio c’imbroglia non poco. Imperocchè non sappiam comprendere come si accordassero fra loro i destini a far felice o infelice un uomo. A chi spettava allora di estrarre le palline del lotto? Le estraevano forse tutti assieme? E com’era ciò possibile? Ecco quello che rende in sommo grado ridevole la posizione rispettiva de’signori destini del gentilesimo; e non sappiamo come que’profondi barbassori dell’antichità non rompessero a ridere ogni qual volta mettevano sulle spalle de’fati tutte le bricconerie che facevano fare a’loro eroi o tutte le sventure che lor faceano soffrire.
Ed in verità, esser dove a cosa comodissima per la razza de’birbanti una credenza che toglieva loro la responsabilità delle loro colpe, addossandola interamente a’destini. Tutta quella moralissima novella di Edipo, di Tieste e di Argo, e tante altre storielle edificanti che ci han trasmesso i poeti e i tragici greci e latini sono tutti avvenimenti che non sarebbero accaduti, se non fossero stati decretati dal fatum o da’fati; i quali poteano veramente risparmiarsi il fastidio di far nascere tutti quegli scandalosi pasticci che ci vengono narrati in versi altisonanti. E che cosa diventa, di grazia, la virtù della moglie d’Ulisse, non meno che tutte le altre virtù che si ammirano ne’personaggi dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide? Il merito di queste virtù si dee tutto al fato; né sappiam comprendere che razza di officio si fosse quello di Minosse e degli altri giudici della umane azioni, quando costoro sapeano essere gli uomini altrettanti strumenti ciechi e irresponsabili della volontà de’destini! Tutto quel coro di virtù che fregiavano gli scalini dell’Olimpo che altro non servivano che a formar pompa e corteggio intorno ai numi del prim’ordine; i quali erano sottoposti essi pure agl’inesorabili decreti di quella deità che schiacciava col suo peso di piombo tutto il meccanismo del mondo morale.
La gran luce della religione cristiana dissipava questi ridicoli errori che l’islamismo ereditò, e ricomponeva il nobile e maestoso edificio della libertà delle umane azioni, restituendo all’uomo la sua dignità unitamente alla responsabilità degli atti del suo libero arbitrio. L’Intelligenza e la Coscienza ripresero quel posto autorevole assegnato loro nella più alta creazione; e la parola destino non fu ritenuta nelle lingue cristiane che nella sola accezione paradossale datale dagli antichi: essa divenne parola vuota di senso e onninamente barbara. Di raro l’adoprarono i buoni scrittori dell’italiana favella, o, se il fecero, ciò fu per dar colore alle pagane favole.
Ma lo stesso non può dirsi della letteratura moderna. Il malvezzo d’introdurre il destino in tutte le scapataggini umane diventò alla moda tra i poeti del nostro secolo, e massime tra gli scrittori francesi, sempre i primi a propalare storte e sconce idee, cui, per non so quale FATALITÈ (ci sia soltanto in questo caso conceduto di usare questa parola), gl’Italiani si affrettano sempre ad abbracciare come altrettanti fiori e gioielli. Ed il più curioso è che i foggiatori della lingua francese, non contenti di avere adottato il destin e la fatalitè, dando a queste parole più o meno gli attributi del sublime e dolcissimo domma cristiano della Divina Provvidenza, vollero eziandio registrare la parola destinèes in plurale, dandoci una significazione più ristretta, quasi che il destin francese tenesse in mano la somma delle umane faccende, e le destinèes si occupassero esclusivamente delle sorti di un uomo in particolare; o, per meglio dire, ci fossero tante destinèes quanti ci sono gli uomini al mondo.
E, venendo a’fatti nostri, che diremo de’nostri poeti melodrammatici, i quali ficcano il destino o il fato in ogni verso, e sempre che la rima in ino o in ato dimanda una parola. E deve trovarla più comoda, più elastica, più maneggiabile! Se il destino non servisse ad altro, dovrebbe tenersi in pregio solamente per questo, che offre tanta comodità di pensieri e di rime ai librettisti. Quel libro di ferro è un vero gioiello vi si possono scrivere tante cose! Quel caro destino dà le spiegazioni di tanti misteri!
Faremo alcune brevi osservazioni. E dapprima ne sembra che ogni qualvolta da’poeti si adopra la parola destino in quella significazione che ci diedero gli antichi, molto perde il concetto non pure in morale, ma eziandio in arte; perocchè il pensiero d’una mano di ferro che costringe le sorti degli uomini e che tiene questi sottoposti ad un’arbitraria volontà è un pensiero scoraggiante, umiliante, e ripugna alla dignità ed alla elevatezza dell’uomo, che riceve dal cielo per guide supreme delle sue azioni la ragione e la coscienza, per le quali tanto egli s’innalza su tutte le create cose. La Gerusalemme liberata, il Paradiso perduto ed altri poemi cristiani han questo di superiore ai poemi greci e latini che giammai l’assurda idea del destino non si affaccia in quelli attraverso le limpide regioni del cielo. Quei personaggi non si agitano sotto la pressione crudele di un dio dispotico e bizzarro; ma nobili e generose aspirazioni muovono a grandi imprese quegli eroi, ne’cui petti parla solenne la voce di Dio, sommo, giusto e clemente.
Il domma divino della Provvidenza è fecondo d’infinite bellezze artistiche meglio che la stolta idea del destino. Epperò tutte quelle opere che si appoggiano a quel domma sublime ne ricevono un riverbero commoventissimo che le rende sovrammodo ricolme di vita e di morale. Per converso, là dove spunta quel nume implacabile che ha nelle mani l’urna delle umani sorti e sotto ai piedi la terra, il lettore rimane freddo al racconto di ogni avvenimento, per quanto si voglia straordinario. La bellezza del verso, l’elevatezza del genio possono rendere più o meno importante un lavoro e degno di essere tramandato ai posteri; ma solamente il domma cristiano dà un suggello immortale ai prodotti delle arti intese a svolgere i più cari sentimenti e le tendenze del cuore.
Tra i libri che l’uso ha posto tra le mani dei giovanetti dobbiamo notare il Telemaco, gioiello di stile, se vuolsi, ma poco atto a formare il cuore; però che, oltre allo scopo particolare che si propose il suo autore, quello cioè di rendere istrutto un principe nell’arte di regnare, puossi un tal libro addimandare più propriamente un elegante trattato di politica estraneo alla intelligenza ed ai bisogni dei fanciulli. Oltracciò, l’idea del destino sovente vi predomina assieme a tutte quelle bizzarrie del paganesimo, le quali a nulla giovar possono per l’educazione della mente e del cuore nelle presenti condizioni della nostra civiltà.
FRANCESCO MASTRIANI