SCENE CARNEVALESCHE

UN GUANTO

I.

   Battistino si era vestito secondo l’ultima figurina del moniteur de la mode, calzone nero, che egli avea conservato da due anni che avea portato il lutto di suo zio, gilet bianco di piquet non ancora pagato, giamberga color fumo di Londra con bottoni brillanti prestatagli da un suo amico. Egli aveva inoltre una picco1a gala di merletto alla camicia; e le bottaglie inverniciate.

   Erano venti quattr’ore quando Battistino terminò di acconciarsi per festa, cui era stato invitato per cantare un duetto con la padrona di casa la Marchesa del P… giovine e brillante vedova. Che cosa fare fino a due o tre ore di notte? Andrà a trovare l’amico Nicola? Questi è un letterato, e ci è pericolo di divertirsi a sentirlo leggere qualche romanzo in erba, o qualche dramma in utero. Andrà al caffè di Gennarino? Battistino per una circostanza facile ad accadere a’nostri giovani bellimbusti, si trovava senza neanche un grano. Andrà a passeggiar per Toledo? si sporcheranno gli stivali. Andrà a far l’amore? Sì, questo gli conviene, questo è il pabolo di tutte le ore che dividono nella vita dei giovani le ore della occupazione da quelle dei divertimenti; e poi l’amore si adatta con tutte le acconciature; col tutte le scarselle, ancora con le vuote. Andiamo dunque da Norina, dice il giovane, e s’incammina verso la casa della bella pestando appena la terra con le punte acute dei luminosi stivali, Norina è un gioiello in veste d’indiana, fresca come una giornata dì settembre, allegra e brillante come un turacciolo di champagne.

   «Buona sera, bellina, dì un poco, e codesta cara salute?».

   Battistino facea questa spensierata dimanda alla fanciulla, gettandole in faccia un vortice di fumo Americano.

   «Vi porti il diavolo col vostro sigaro, Battistino, mi avete soffocata».

   «Bella mia, non sai che sarebbe un peccato di leso bon-ton se io lasciassi il sigaro parlando con una dama».

   «Peste sia del vostro bon-ton che insegna ad uccider le signore con questi mostri di sigari». 

   «Mostri! Tu scherzi, il sigaro è la più bella di tutte le umane scoverte. Il tempo fa passar l’amore, l’amore fa passare il tempo, ed il sigaro fa passar l’uno e l’altro».

   «Ciò vuol dire che il fumo spegne le fiamme».

   «Le fiammelle, cara mia, non già i falò come quello che io sento per te».

   « Ah ah ah… che grazioso!!».

   «Norina, che ora è?».

   «Potete andarvene, la Marchesa vi aspetta… A proposito, stasera farete conoscenza con mio fratello».

   «Tuo fratello! verrà dalla marchesa?».

   «Sì, certo».

   «E mi conosce?».

   «Non mi pare».

   «Né io tampoco conosco lui».

   «È facile riconoscerlo, giovine d’un venticinque anni faccia bianca e gentile, basette scure, occhi di femmine».

   «Belli come i tuoi».

   «Grazie del complimento».

   Battistino le baciò la mano che la bella gli stese da una finestra e si allontanò dal pianerottolo della scala dov’era di piantone. Non era scorso ancora un quarto d’ora che il fischio di Battistino si fece di bel nuovo sentire sotto la finestra di Norina.

   «Che volete, perché siete tornato?».

   «Anima cara, se sapessi che disgrazia!».

   «Che cosa è accaduto? È morta la Marchesa?».

   «Il cielo scansi; non ho il coraggio di dirtelo».

   «Via mo, come siete modesto».

   «Norina del mio cuore, non ho denari».

   «Puh… che vergogna, va alla festa di una marchesa senza denaro in tasca… Del resto, non importa, non giocherete».

   «E chi ti ha detto che voglio giocare?».

   «E perché dunque vi serve il denaro?».

   «Mi serve… per… che so io, possono darsi circostanze impreviste».

   «Quanto avete in tasca?».

   «Neppure un quattrino né in tasca né altrove».

   «Ah ah ah… che cavaliere! che Rothschild!».

   «Non prenderti giuoco di me, Norina, sono disperato».

   «Ma finalmente perché vi serve questo denaro?».

   «Tu non sai… non mi era accorto che una cosa mancava alla mia toletta… una cosa indispensabile».

   «Il denaro forse?».

   «Un paio di guanti, mia cara; come si fa senza guanti?».

   «Si dice che questa è l’ultima moda».

   «Non ischerzar, Norina, per amor del cielo; pensaci tu».

   «Ma io non sono il vostro cassiere, o il vostro usuraio che è lo stesso».

   «Norina, dammi un paio di guanti bianchi…».

   «Sono io forse guantaia?».

   «Norina, se non mi dai i guanti, mi butto da questo finestrone».

   «Puh!… che vergogna, un suicidio per 16 grani!».

   «Vedi, bella mia, fruga nei tuoi cassettoni».

   «Ma la mia mano è dieci volte più piccola della vostra».

   «Non importa accorceremo la mano e allungheremo i guanti».

   Norina scomparve per poco, e tornò poscia con un paio di guanti bianchi, gentili, profumati, spirando l’ambra e il patchouli, fatte per due manine di fata».

   «Eccovi i guanti, signor cavaliere della miseria».

   «Grazie, grazie, cuor mio, da qua, son deliziosi, va bene… addio… a proposito, domani te li restituirò… ho dimenticato di baciarti la mano… non importa addio».

II.

   I saloni della Marchesa rigurgitavano di gente; si vedevano fresche e leggiadre acconciature, languidi visetti spiranti abbandono e piacere: gli uomini erano vestiti di nero, le donne di bianco, uso stranissimo che fa rassembrare una sala da ballo ad una funebre cerimonia. Si era alla prim’ora della conversazione, a quell’ora di Bebelle, di maldicenza, e d’analisi, a quell’ora in cui si trema di entrare nella sala principale, dappoichè dal modo di presentarsi d’un individuo dipende la sua gloria di quella serata. Si discorrea sperperatamente; si eran formati  diversi clubs, e parecchi Touts; le dame se la divertivano co’loro ventagli, ad eccezion di qualcuna, che con gli occhi tenea la più cara conversazione  col suo innamorato. Battistino entrò nella sala con in mano il cappello e il bois de fer (egli conoscea le maniere del bel mondo); si appoggiò con una scostumata disinvoltura sulla spalliera della sedia d’una dama quasi toccandole le spalle e con una cera superiore protettrice. Il poverino, per quanti sforzi avesse fatto, non avea potuto venir a capo di ficcarsi que’maledetti guanti così piccini che minacciavano di crepare ad ogni tentativo; stavasene però con una mano nella tasca, di dietro della giamberga, e con l’altra dentro il cappello. Un fragoroso preludio d’istrumenti, e un movimento confuso nella sala annunciarono che andavasi a disporre il valzer tedesco, con cui si suole ora dar principio  ad una festa. Il valzer tedesco, dice tra se Battistino, io ne vado pazzo; ed ecco che si curva all’orecchio della signora che gli stava seduta dinanzi, e le dice: signora, io vi ritengo (nuova foggia d’invito). Tosto le coppie spiccano sdrucciolevoli sul rosso pavimento, e Battistino andava anch’egli a slanciarsi nel cerchio girevole, quando si accorse che non avea i guanti alle mani. Dovete sapere che il pover uomo andandosene da Norina, avea più volte tentato di ficcare le sue dieci dita in quelle profumate prigioni, ma sempre invano, perché que’maledetti guanti erano stretti come il cuore d’un usuraio; egli le teneva perciò nelle mani, soddisfacendo in qualche modo alle convenienze.

   Battistino si trovava al colmo della disperazione per non poter venir a capo di situarsi  alle mani quelle pellicine; il valzer intanto era cominciato, la dama (e che dama! una carnagione di raso bianco, occhi di fuoco, denti adorabili) avea passato il suo braccio alla spalla del cavaliere, il quale facea tutti gli sforzi possibili, e sudava per vergogna e per impazienza.

   «Pare che i vostri guanti siano un po’stretti» gli disse la dama con un sogghigno infernale.

   «Signora – mormorò il povero Battistino – sono veramente mortificato che…».

   «Non fa niente, lasciateli».

   «Ma io non oso presentarvi la mano così…».

   «Che importa!».

   E la dama gli abbandonò la destra con una grazia ed un abbandono da far perdere il cervello al galante; quella mano era piccola, profilata, con cinque dita d’avorio, ed altrettante unghie di rose. La coppia di perdè nel giro vorticoso.

   Intanto nel calore dell’azione di Battistino per cacciare le dita ne’guanti, non i era avveduto che da una di quelle pellicine capretto era scappato fuori un pezzettino di carta inglese, un biglietto amoroso posto in quel guanto da un anonimo innamorato, e non avvertito dalla bella Norina.

   Un giovine serio, grave, freddo, tutto nero da capo a piede salvo la cravatta che era di una battista carroyeè, avea veduto cascar quella cosetta bianca, l’avea raccolta, e leggendone il contenuto, le sue ciglia si erano aggrottate, ed avea fissato con occhi d’ira il povero Battistino che di nulla potea mai sospettare.

   Finito il valzer questo signore si accostò a Battistino che stava tutto trafelato, e gli disse quasi all’orecchio:

   «Signore, voi siete un imbecille».

   Battistino credè che quell’insulto gli venisse fatto perché avea ballato senza guanti, e guardò con una cera indemoniata il freddo giovine:

   «Vi dimando ragione di un tale insulto, mio signore».

   «Va bene, non facciamo scandalo… scegliete la spada o la pistola?».

   «Ma io non comprendo…».

   «Zitto, ci siamo intesi… scegliete la spada… molto bene…».

   «Ma, mio Signore, mi spiegherete…».

   «Non occorre… domani… alle dieci ci vedremo coi secondi al sito…».

   E si curvò maggiormente all’orecchio dell’avversario per dirgli il luogo dell’appuntamento; lo salutò poscia con un inchino di capo, e si mischiò nella folla de’ballanti.

III.

   La mattina seguente Battistino che non avea potuto chiuder occhio in tutta la notte, si alzò per tempo, e si pose a meditare sullo straordinario avvenimento che gli era accaduto. Che pensare? Che credere? perché quell’insulto? Perché quella sfida? Egli era imbrogliato, confuso; malediceva la festa ed i guanti.

   Benché fosse certo che questo era un errore, un equivoco, non però vedeva in ciò mezzo alcuno di sfuggire al suo cattivo destino.

   Alle dieci il povero diavolo si recò col suo secondo al sito convenuto, dove trovò il misterioso avversario che passeggiava tranquillamente col suo patrino, bel giovine uffiziale degl’Usseri.

   «Ci siamo Signori».

   «Permettete che io sappia…».

   «È inutile».

   «Ma io voglio sapere perché ci battiamo…».

   «È un duello all’ultimo sangue, signori secondi».

   «Ma io intendo conoscere il motivo…».

   «Signore, noi mancheremmo a tutte le convenienze se pronunziassimo una sola parola capace di compromettere un terzo».

   «Ma questo terzo…».

   «In guardia, Signore, il tempo stringe».

   «Ma io non voglio battermi senza ragione».

   «Senza ragione?… e questo biglietto!».

   «Quale biglietto?».

   «Silenzio, non aggiungete una parola dippiù… in guardia».

   Le due spade si erano incrociate, quando il secondo del giovine misterioso, l’uffiziale degli Usseri cacciò la sua sciabola in mezzo alle due spade, e disse:

   «Un momento, Ferdinando, dammi quel biglietto…».

   «Per che farne?».

   «Voglio vederlo».

   «Mio caro, ti servirei se questo non compromettesse una donzella onesta».

   «Voglio vederlo, ti dico, esso forse mi appartiene».

   «Come!».

   E Ferdinando (questo era il nome del giovine incognito) gli consegnò la lettera.

   L’uffiziale la lesse, guardò poscia biecamente Battistino, e voltosi a Ferdinando, gli disse col maggior sangue freddo:

   «Ferdinando, questo biglietto l’ho scritto io per un capriccio a tua sorella; tu ne sarai giustamente offeso, ed io sono pronto a darti ogni soddisfazione; ma innanzi che io mi batto con te, ho un debito a saldar con l’Amico presente (indicò Battistino), il quale mi farà il favore di dirmi come questa mia lettera si trovava nelle sue mani».

   «Questo è un enigma, o Signori; io giuro sul mio onore di non avere mai toccato quel biglietto, né sapere che cosa si vuole da me».

   «Come dunque ieri sera scappò da un vostro guanto?» esclamò Ferdinando.

   «Dal mio guanto?».

   Battistino si fe’rosso come un cocomero, e per paura di perder la vita, fermò di metter giù spiattellatamente il fatto. I tre uditori scoppiarono dalla risa.

   «Ferdinando – disse l’uffiziale – accettate di avermi come cognato?».

   Ferdinando gli tese la mano come ad un amico che egli grandemente amava. L’uffiziale si volse poscia all’attonito Battistino, e gli disse con aria marziale:

   «Ora, mio signore, se volete battervi per la vostra bella, eccomi pronto a soddisfarvi».

   «Grazie tante – si affrettò a dire il giovine – vi cedo volentieri tutte le Norine del mondo, e d’ora in poi vi giuro che non metterò mai più le mani ne’guanti delle signore, senza mettervi prima gli occhi».

                                 FRANCESCO MASTRIANI