Chi si interessi di storia della letteratura italiana, che rimane una delle più feconde e monumentali del continente europeo e del pianeta stesso non può restare indifferente all’enorme contributo offertole, nell’ambito del verso come della prosa, da poeti e scrittori eccellenti che, illustrandone la già prestigiosa tradizione classica e medievale, la accampano tra le voci più rappresentative della sapienza umana: non c’è infatti stagione delle lettere e delle arti in cui l’Italia non abbia espresso personalità autorevoli in sistemi di pensiero, in elaborazioni teoriche e in tendenze del gusto più svariati; anche in quelli non delineatisi entro i confini della Nazione.
Rivolgendosi, infatti, a suggestioni e sollecitazioni altrui, la tradizione autoctona si è arricchita di fermenti, di intuizioni e di esperienze effettivamente allogeni, non di meno riconoscendosene tributaria: essa, che in passato aveva fornito strumenti, idee, disciplina, paradigmi ecc. a genti meno evolute e che da poco esordivano nell’attività intellettuale, mutuando valori, ideali, tematiche e novità.
Ma poi, se appena si circoscrive il discorso alle studio della letteratura nostrana, ci si avvede di un dato curioso e per certi aspetti sconcertante: che si celebrano spesso, cioè, le virtù di poeti e di scrittori, che lungi dal formulare un’originale visione dell’esistenza o dall’indicare scopi e strumenti della cultura o ancora dall’indicarne la destinazione pedagogica, esauriscono la propria creatività nell’esercizio esangue ed esornativo della versificazione, meritando, tuttavia, la citazione nei comuni manuali di storia letteraria e nella pubblicazione scolastica.
Per non dire poi di certi scrittori contemporanei o di odierni cantautori di successo, i cui testi, sovente criptici o ermetici, sottopongono l’intelligenza esegetica del lettore a vere e proprie acrobazie mentali, fatto salvo il caso, peraltro, che l’autore stesso del brano… non dimentichi il significato dei versi da lui medesimo composti!
Non si intende, invece, il motivo per cui la copiosa e versatile produzione letteraria di uno scrittore come il partenopeo Francesco Mastriani venga sistematicamente obliterata, quasi bandita, dalla manualistica contemporanea e dalla didattica corrente: a una rigogliosa attività editoriale, documentata, fortunatamente, dall’informazione digitale, risponde infatti una reticenza ostinata nei confronti di questa eclettica personalità della cultura nazionale e regionale che ha operato in un momento decisivo della storia d’Italia come quello del passaggio dal Regno Borbonico all’esperienza unitaria. E pensare che fra gli anni 60 e 70 opere come La cieca di Sorrento hanno meritato l’onore della rappresentazione teatrale e della proiezione cinematografica!
L’aspetto sorprendente di questo sconfinato tirocinio letterario non è tanto lo spessore quantitativo – che di per sé già significa tanto – bensì, piuttosto, quello qualitativo: scegliere una tematica, optare per un genere, uniformare la narrazione a corrispondenti canoni estetici, indirizzarla a un pubblico piuttosto che a un altro, modularne lo stile, valutarne l’interesse, verificarlo nei risultati, renderlo consentaneo ecc. sono attività accessibili solo ad autori di livello, alla loro genuina sensibilità umana e artistica, che li guidi nella produzione scritturale.
Ascoltare gli altri, capirne le esigenze, testimoniare i tempi, documentare una forma mentis, confrontarla con altre, individuarne punti di forza, indicarne le fragilità, insomma compiere introspezioni puntuali nell’universo antropologico contemporaneo, recarsi in istituti di cultura per acquisire conoscenze, vagliarne le fonti non è cosa da poco: soprattutto in un’epoca dominata dal romanzo storico di Alessandro Manzoni.
Mastriani non scrive a contatto ma segue l’ispirazione del momento, contingente, unico, irripetibile. E questi aggettivi concorrono alla nascita dell’opera d’arte che non si ripete mai, avendo sempre cose nuove da dire.
Così era in passato.
Oggi presunti scrittori conseguono la fama di intellettuali e di artisti, vengono invitati a talk show televisivi post-prandiali, dove sproloquiano e discutono di argomenti vari e spesso superiori al loro ingegno conoscitivo e al loro vigore interpretativo, lavorando a tematiche sollecitate dalle mode contemporanee e formulando ipotesi, a dire loro, rivoluzionarie in cui di certo non credono ma sufficienti a saziare protagonismi narcisistici; ed il pubblico, semianalfabeta, superficiale, umorale, allergico alla riflessione per inveterata ignoranza e generazionale pigrizia, applaude divertito e quasi incoraggiato da fandonie conformistiche e scontate.
I persuasori occulti del pensiero unico e del politically correct (con cui si relega alla cassazione mnestica la libera e dissonante innocenza della mente) non debbono fare grandi sforzi.
Mastriani, invece, ha sempre qualcosa da dire ma, soprattutto da pensare per un pubblico che sente come suo, che parla la sua stessa lingua e il suo medesimo dialetto e profonde il suo ingegno sempre fecondo per comprenderne e ascoltarne le voci: sol semper alius et idem è l’universo poetico dell’Autore, che plasma la sapienza degli antichi alla rappresentazione del moderno contemporaneo. E con risultati che altrove meriterebbero ben altra gloria artistica e ben altra visibilità intellettuale.
Naturale che ci si domandi allora come si sia potuto passare sotto traccia una produzione tanto vasta e di romanzi e di scritti di così vario genere. Come spiegare la reticenza puntuale di finissimi critici letterari italiani come Francesco De Sanctis che non lo citò affatto nella sua critica letteraria e Benedetto Croce, che si limitò a sollecitare nei giovani studiosi italiani l’interesse, peraltro disatteso, per l’autore partenopeo?
Come rendere conto della sistematica preterizione, da parte di accademici prestigiosi e di manuali scolastici, di una penna così feconda, così originale e così versatile, se, per esempio, Mario Ricciardi dedica al Nostro due o tre righe appena in una sua pur valida pubblicazione? Si tratterrà, in qualche caso, di risentimenti personali? Da una problematicità tassonomica rispetto a scritti originali di un ingegno versatile? Di mancanza di patrocinio ideologico? Di diffidenza editoriale verso prodotti economicamente garanti? O di cos’altro ancora?
Qualunque sia la risposta, la vasta congerie di opere mastrianee non può sfuggire all’occhio avveduto del lettore educato o alla sensibilità dello studioso libero o infine all’indagine del ricercatore puro, per i quali ignorare tanta risorsa di ingegno significherebbe quasi entrare in chiesa senza vederne l’altare o intraprendere un viaggio senza conoscerne il tragitto.
Deve valere anche per lui il detto Nemo profeta in patria?
E a vantaggio di chi?
Di chi magari, scrive pagine sospinto da logiche di profitto e urgenze editoriali?
E a che servirebbero opere scritte sotto pressioni del genere?
E a chi, in fin dei conti?
Forse un rigurgito di coscienza farebbe bene a tanti “addetti ai lavori”, che, già rei di induzione di oblio, hanno privato i lettori dei frutti sapidi di un magistero etico-culturale assolutamente autentico.
Qualche iniziativa di riconoscimento, anzi, andrebbe pur adottata titolo collettivo, nella persona del Sindaco di Napoli che dovrebbe intestargli molto più di un vicoletto solatio (come quello situato, per chi sale, lungo il lato destro di via Bernardo Tanucci o inaugurare un Centro Studi in suo onore, affinchè non ne vada smarrita la memoria. Anche a titolo individuale bisognerebbe attivarsi, sensibilizzandocisi e responsabilizzandocisi al rispetto delle testimonianze materiali della storia nazionale (templi, musei, scavi ecc.) piuttosto che, da insipidi e superficiali turisti, commuoversi, come in esteriore e mondano pellegrinaggio, alla vista di rosse lignee cabine telefoniche inglesi o alle riverniciate strisce pedonali londinesi su cui avevano posto il piede i canterini liverpoolesi degli anni ’60: i Beatles.
WALTER IORIO