Il titolo parla chiaro «Francesco Mastriani, un escluso» (Napoli, Tullio Pironti, 2013). L’ultimo saggio di Anna Geltrude Pessina vuole rendere giustizia ad un autore napoletano, spiegando le ragioni del perché e del per come la critica militante, contrariamente al pubblico numerosissimo dei lettori, abbia emarginato ed escluso Francesco Mastriani dal panorama letterario nazionale.
In questo agile volumetto, che viene presentato domani alle 18 nella Libreria Loffredo in via Kerbaker al Vomero, oltre che dalla lettrice Daniela De Giorgio, da Francesco D’Episcopo e da chi scrive, l’autrice palesa l’intenzione di colmare un vuoto e di recuperare da una vera e propria damnatio memoriae, attenuata recentemente da alcuni studi della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli, lo spirito e la lettera di un fecondissimo scrittore, che a torto o ragione è stato definito come autore di romanzi “d’appendice” e collocato nella letteratura cosiddetta regionalistica e popolare.
Sin dalla premessa l’autrice, pur prendendo le distanze dell’affermazione del Mastriani “il verismo l’ho inventato io” e ribadendo che lo scrittore non sembra essere in possesso dei requisiti peculiari della narrativa verista, definisce lo scrittore come “osservatore triste e malinconico” della Napoli dei delitti, delle violenze, della prostituzione, tipiche di una umanità sofferente e traviata, riconoscendogli la naturale paternità del feuilleton, prototipo e antesignano delle attuali telenovelas e delle fiction, surrogati di evasione tutti a lieto fine.
Dopo un approfondito prologo bibliografico, che sottolinea la formazione culturale, gli esordi giornalistici, l’opera si snoda tra gli echi di critica estrapolati da testate locali e nazionali dell’epoca quali il Corriere di Napoli, Il Piccolo, La Capitale, Il Secolo, La Tribuna Illustrata, a cui segue un elenco prezioso ed accuratissimo dell’intera produzione letteraria del Mastriani, di cui purtroppo manca una bibliografia completa, precedentemente raccolta a Firenze e andata perduta durante l’alluvione del 1966.
La Pessina rivela al lettore la cifra distintiva dell’autore, che in buona parte delle sue opere descrive l’ambiente sordido dei vicoli, in cui ombre fugaci di malviventi escono da tuguri e si aggirano nella notte “in un inferno di mercimonio, percosse, bestemmie, grida strazianti, sevizie carnali”. È questa una scenografia truculenta e sanguigna, cara ad un intellettuale lontanissimo dall’assumere l’atteggiamento protestatario e antiborghese degli Scapigliati milanesi, ma più vicino magari al secondo romanticismo mellifluo e patetico.
Con una singolare eleganza di scrittura, connotata da ricche citazioni dotte, il saggio mette in luce i pregi e i limiti di quello che Domenico Rea definisce “l’avvocato dei poveri e delle cause perdute” e sottolinea, a detta dell’autrice, uno pseudo pauperismo patologico e sentimentale che la stessa Matilde Serao, in polemica con Carlo Nazzaro, considera molto distante dal Verismo.
Mastriani viene dalla Pessina definito come un “socialista di stampo evangelico” che, pur esasperando la frattura tra oppressi e oppressori, tra vincitori e vinti, anela alla giustizia e alla fede, scadendo tuttavia nel gretto provincialismo e nella pura letteratura d’evasione.
Il pamphlet si chiude con brillante postfazione di D’Episcopo, in cui si riconosce allo scrittore “prima e oltre ogni semplicistico verismo” l’autenticità di un verace raccontatore” e l’appartenenza schietta al mondo popolare napoletano.
PASQUALE MALVA
Pubblicato sul quotidiano «Roma» di Napoli, il 12 giugno 2013.