Torna uno dei romanzi storici di Mastriani, scrittore popolare snobbato dalla critica
Rimane ancora tanto da (ri)scoprire di Francesco Mastriani, lo scrittore napoletano più prolifico di tutti i tempi, ricordato come autore di romanzi popolari, a detta dei detrattori più commerciali più che di qualità. Di lui Croce diceva che «era letto da tutti, all’infuori della gente letterata».
Non sappiamo se Mastriani si offendesse per simili giudizi ricorrenti già ai suoi tempi, in ogni modo si cimentò – per dimostrarsi anche autore impegnato – pure con il romanzo storico. Ne scrisse sette in pochi anni, da Giovanni d’Austria (1871) a Messalina (1877), ma il più riuscito fu Nerone in Napoli, scritto nel 1875, e da allora, come gli altri dello stesso genere, mai più ristampato.
Nessuno di questi riscosse il successo di solito riservato ai suoi romanzi più popolari, e così Mastriani abbandonò l’argomento; da allora i suoi romanzi storici sono caduti in una specie di oblio.
Eppure oggi, a distanza di centoquaranta anni dalla prima ed unica edizione ufficiale, torna in libreria Nerone in Napoli (D’Amico, pagg. 172, euro 12), a cura di Nunzia Smaldone. La trama è un classico del triangolo amoroso, anche se siamo nel I secolo. Lei è Licinia Gabulo, affascinante aristocratica ma soprattutto ex concubina dell’imperatore Nerone, innamorata di un valoroso centurione, Valerio. Questi però è invaghito della schiava di Licinia, Candida. Sullo sfondo, i primi martiri cristiani, con il Nerone rappresentato da Mastriani che assurge a simbolo della perdizione, responsabile di crimini scellerati e crudeli, definito «mostro», «bestia», il vero «Anticristo». Un individuo capace di ingoiare in una bettola di Napoli «centonovantanove ostriche di Lucrino. La duecentesima non volle mangiarla per paura che gli danneggiasse la voce».
A un Nerone simile si ispirerà, una ventina d’anni dopo, anche Henryk Sienkiewicz con il suo Quo vadis? che nella trama contiene più di una somiglianza con il testo di Mastriani.
Al di là della vicenda amorosa e dello sfondo storico del primo cristianesimo, a colpire è la ricostruzione puntuale e suggestiva che fa Mastriani di quella Napoli di quel periodo dove tutti hanno ereditato dai greci il culto del bello e si sono talmente sfrenati nell’immaginare l’esistenza di nuove divinità pagane che «camminando in città è più facile imbattersi ad ogni passo in un dio che in un uomo». Ma la divinità maggiore «la luce universale, benefica, fecondatrice degli uomini e delle piante, anima del mondo. Napoli viveva di poetica immaginazione, amava le feste, il canto, i miti di Esiodo e d’Omero, le egloghe di Virgilio, i versi di Lucullo».
A pochi passi da un tempio dedicato a Cupido, eretto nella zona di Forcella, ne sorgeva uno dedicato a Priapo, il cui amuleto ostentavano al collo le vergini a passeggio tra la folla. Non mancavano i postriboli, quello più frequentato era detto «la pietra della pazienza» e si trovava negli odierni Quartieri Spagnoli. Ovviamente molte scene sono ambientate nell’allora regione degli alessandrini, tra via Mezzocannone e piazza Nilo. Proprio in prossimità della statua c’era – ma Napoli ne era piena – l’abitazione di una maga, interpellata dai più ricchi aristocratici della città, tra cui anche Licinia.
Merita di essere sottolineata anche una scena particolarmente significativa, sia perché da citare a dimostrazione della reale esibizione di Nerone nel teatro napoletano, sia perché simbolica di un certo modo di rappresentare i napoletani già di allora. Dunque dopo otto ore di esibizione Nerone ancora tiene le guardie ai cancelli per impedire che il teatro si svuoti. Solo uno spettatore morto di colpo è portato via e trasportato nei «vomitori», luoghi in cui si lasciava esposto il cadavere in attesa che fosse riconosciuto dai parenti. Però quel morto non fu più ritrovato, il suo era stato un espediente per sottrarsi al supplizio dello spettacolo.
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UGO CUNDARI