Compiutasi l’Unità d’Italia, il neonato governo nazionale si trovò a fronteggiare diverse emergenze tra cui il dilagare del brigantaggio nelle aree meridionali del Paese. Le cause e le peculiarità di tale fenomeno sono state abbondantemente indagate da numerosi studiosi che, seppur condizionati da particolari orientamenti ideologici, ne hanno messo in evidenza la straordinaria «complessità». Il quadro storico del secondo Ottocento appare, in effetti, attraversato da molteplici tensioni sociali e politiche che suscitarono sentimenti di insofferenza nei confronti del nuovo assetto istituzionale, stimolando l’azione violenta di uomini e donne che si resero protagonisti di un capitolo importante della storia nazionale. Tali figure hanno ispirato la fantasia di vari scrittori che, con diversi esiti artistici, hanno alimentato la cosiddetta “letteratura brigantesca”. Come osserva Sebastiano Martelli, gli autori hanno «veicolato immagini differenziate dell’umanità e dell’epos brigantesco. [1] A seconda del modello culturale di riferimento, infatti, nelle singole opere il mondo dei briganti risulta ora degradato ora eroicizzato; il personaggio del brigante talvolta appare come un essere spregevole in cui si condensa il male sociale, talaltra come un modello positivo di «identificazione in cui il disagio e la rabbia storica» [2] trovano espressione.
Francesco Mastriani, attento osservatore della realtà del suo tempo, nel 1886 si inserisce in questo prolifico filone letterario, scrivendo un romanzo incentrato sulla figura di Cosimo Giordano (1839-1888), celebre brigante che nel periodo postunitario seminò il terrore nelle terre del Mezzogiorno. L’opera apparve in puntate sulle pagine del «Roma», come gran parte della produzione narrativa dello scrittore partenopeo. Si ricorda che già Pasquale Villani qualche anno prima aveva pubblicato un romanzo dedicato allo stesso personaggio, Cosimo Giordano, ovvero I saccheggiatori di Cerreto nel 1860 . [3] Ma se in questo lavoro l’autore si limitava a ricordare solo alcuni episodi della vita adulta di Cosimo, Mastriani ricostruisce l’intera biografia del personaggio, ripercorrendone le peripezie dall’infanzia alla condanna ai lavori forzati. Nella rielaborazione romanzesca, il nostro scrittore arricchisce i dati trasmessi dalla cronaca mescolandoli ad elementi romanzeschi, funzionale a rendere particolarmente avvincente la vita di questo capo-banda. Conformemente ai canoni del romanzo storico, egli inserisce all’interno della cornice storica la vicenda d’amore tra due personaggi frutto dell’invenzione: Ernesto, luogotenente della guardia nazionale di Pontelandolfo, e Pasqualina, un’affascinante brigantessa legata alla banda del Giordano. Notiamo che la prima parte della narrazione è quasi interamente occupata dei casi della coppia che dovrà affrontare una serie di ostacoli prima di giungere al matrimonio. L’elemento sentimentale, utile ad attrarre un vasto pubblico d’appendice, affamato di forti emozioni e di colpi di scena, si intreccia alle vicende del protagonista, la cui figura compare solo all’altezza del VII capitolo. Discostandosi dallo stereotipo del bandito dall’aspetto sgradevole e feroce, lo scrittore introduce il personaggio principale sottolineandole la grazia e l’eleganza innate nonché l’intelligenza arguta e il carattere austero. Attraverso una lunga digressione, la voce narrante informa che Cosimo, nato a Cerreto Sannita nel 1839 da un «povero campagnolo» (Generoso) e da una giovane messinese (Concetta Isaia), trascorse la prima giovinezza «facendo primamente il porcaio […], e poscia il pecoraio». Poco più che adolescente, uccise un uomo che dinanzi ai suoi occhi ammazzò il padre a causa di un debito non pagato. La Corte Criminale di Napoli lo assolse, ritenendo che l’uccisione fu provocata da «legittimo dolore di figlio e dall’istantanea brama di vendicare il genitore». Nel 1857 entrò a far parte dell’esercito borbonico. Si distinse nella battaglia del Volturno ma la sua carriera militare fu macchiata da un’accusa di furto. Disciolto l’esercito delle Due Sicilie, ritornò nel paese natale. Tentò più volte di prendere servizio nell’esercito italiano, ma non fu mai arruolato a causa dei suoi trascorsi borbonici. Per timore di essere perseguitato si diede alla macchia e cominciò la sua vita di brigante ponendosi a capo di una delle bande più numerose e temute del tempo. Omicidi, ricatti e rapimenti ordinati da Cosimo e da altri noti banditi vengono rievocati dal narratore per introdurre lentamente il lettore nel microcosmo brigantesco, svelare le gerarchie e le consuetudini che regolavano la vita dei fuorilegge. Con intento quasi saggistico, attraverso la biografia del Giordano, Mastriani analizza il fenomeno del brigantaggio, indagandone l’origine, l’evoluzione e le peculiarità. Occorre dire che, in quanto sostenitore della soluzione unitaria, nelle pagine del romanzo egli condanna fermamente il banditismo, reputandolo un grave pericolo per l’ordine costituito. Tuttavia, questa opinione non sembra avergli impedito di osservare il fenomeno con sguardo estremamente lucido, capace di far luce su alcune delle ragioni storico-sociali che lo hanno favorito. In diversi passaggi del racconto, il narratore osserva che i profondi mutamenti apportati dal nuovo assetto politico «nelle pubbliche e private cose» e il persistere di una non equa ripartizione degli «utili» tra le diverse classi sociali generarono, nelle provincie meridionali, un profondo malcontento che sfociò in sentimenti di forte avversione nei confronti del governo piemontese. Il brigantaggio, «protesta armata e terribile contro le secolari oppressure», si fece interprete di tali sentimenti adottando la forza come «legge al di sopra del diritto» [4] e divenendo, al contempo, strumento al servizio del progetto di restaurazione della casa borbonica. Analizzando poi la composizione sociale delle bande, l’autore spiega che esse accolsero tra i sostenitori non solo contadini ma anche artigiani, operai e proprietari terrieri. Egli dipinge un quadro storico nel quale «l’intero mondo tradizionale meridionale», fatta eccezione per le sue componenti più moderne, sembra dare «una sua qualificante e sostanziale partecipazione al fenomeno […] del brigantaggio, inteso come reazione di rigetto della società meridionale nei confronti» della nuova realtà storica che «si era affacciata sulla scena sociale del Meridione con le armate garibaldine e piemontesi». Non mancano, inoltre, riflessioni amare sul ruolo del clero che, «con le armi efficaci del confessionale e del pulpito», alimentò l’odio verso il governo nazionale. Particolarmente interessanti, a tal proposito, sono le seguenti parole tratte dal I capitolo del romanzo:
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«Le dinastie cadute reclutano nella ignoranza e nella superstizione le braccia su le quali sperano di ricostruire il loro potere. La campagna e le montagne sono il teatro di questi guerrieri [i briganti] de’ re spodestati. […] Roma, soggetta allora al dominio papale, divenne il centro della cospirazione a danno del neonato Regno d’Italia. Il Vaticano benediva i briganti che partivano per queste nostre meridionali provincie per arrecarci la guerra civile, gl’incendii e il saccheggio».
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La violenza brigantesca esplode nei tentativi di rivolta di Pontelandolfo e Casaduni (capitolo XI), vero nucleo drammatico del romanzo, in cui assistiamo a concitate scene di massa. Protagonista di tali episodi è la folla, all’interno della quale si distinguono due fazioni: i briganti, supportati dai cittadini, e l’esercito italiano. È interessante notare che, nella rappresentazione dei due opposti schieramenti, l’autore attribuisce ai briganti una fisionomia ferina, quasi demoniaca, tesa evidentemente a suscitare nel lettore sentimenti di paura e di sdegno: i banditi vengono definiti «belve», «cannibali», turbe «inferocite», «orge di vandali». Dichiarando di aver attinto le notizie dall’Atto di Accusa della Corte di Assise di Benevento, la voce narrante elenca i reati commessi dai ribelli guidati da Cosimo: essi calpestarono la «gloriosa bandiera tricolore», incendiarono gli archivi del municipio e saccheggiarono le case dei notabili. Particolare enfasi riceve il raccapricciante assassinio di circa quarantacinque soldati, i cui cadaveri vennero «barbaramente mutilati» dagli uomini del brigante Angelo Pica. Assai diversa è la rappresentazione dei difensori del governo, protagonisti di gesta eroiche e cariche di umanità. A differenza degli antagonisti, questi ultimi vengono definiti «valorosi», «bravi», «generosi», «eroici». Tuttavia, l’autore non dimentica che anche i patrioti, non di rado, seppero agire con violenza e crudeltà. Non è un caso che proprio Cosimo, rivolgendosi al luogotenente di Pontelandolfo, esprima giudizi alquanto severi sulla condotta dei «liberali», tanto da far pensare che abbia intrapreso la via dell’illegalità, mosso da sentimenti di vendetta:
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«E voi altri che vi chiamate liberali, e le camicie rosse del Filibustiere non mi oltraggiarono vilmente a Benevento, solo perché ero stato soldato del Borbone? […] non mi schernirono e batterono i rossi, abusando de’vantaggi che loro dava la loro posizione? Noialtri siamo chiamati briganti, perché pigliamo a difendere il debole contro il forte! E voi altri, non fucilaste il mio povero fratello Errico, solo perché ci recava del pane per isfamarci?».
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Attraverso la voce del Giordano, dunque, lo scrittore non si limita solo ad osservare e a giudicare la materia dall’alto. Il fenomeno del brigantaggio è visto anche dall’interno, attraverso il punto di vista di uno dei suoi principali attori. Pur scrivendo in un periodo non lontano dagli eventi narrati, Mastriani conserva un atteggiamento critico nei confronti del suo tempo e non teme di sottolineare anche gli aspetti meno truci del carattere del protagonista. Questi, infatti, non appare come una figura cristallizzata nel ruolo del criminale, emblema del male assoluto, ma presenta una personalità alquanto sfumata nella quale è possibile cogliere addirittura una certa predisposizione alla generosità e alla compassione. In più luoghi dell’intreccio, il narratore osserva che il brigante mostrò pietà nei confronti del nemico, rispettò le donne e fu un padre affettuoso. Il suo animo, incline per natura al bene, fu traviato dalle circostanze, dai torti subiti, dalla mancanza di un’istruzione adeguata. Assai utili a comprendere il modo in cui lo scrittore si è rapportato alla figura storica che lo ha ispirato sono le parole inserite nella chiusura del romanzo, poco dopo la condanna del personaggio ai lavori forzati:
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«Questo sciagurato malfattore non era forse nato co’ feroci istinti del brigante: non era sanguinario; e, se la sua mano si lordò di sangue umano vi fu indotto dalle fatali circostanze della vita. Era bensì avido di danari: e gli piaceva vivere comodo e agiato: aveva istinti signorili. Benché analfabeta, la sua mente non era quella di un cretino; e più volte die’ lampi della sua intelligenza superiore al suo stato. Accennammo come i sentimenti generosi non gli fossero estranei. […] La società lo ha giudicato e condannato; lo ha respinto dal suo seno; ed ha cancellato il nome di lui da’ registri dello Stato Civile. La espiazione riabiliterà l’anima sua? Dio lo voglia!».
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Pur deplorando la condotta del bandito, pertanto, l’autore tenta di penetrarne l’animo cogliendone le molteplici sfaccettature. La complessità della figura storica diviene riflesso della complessità del brigantaggio che, pur essendo un fenomeno deprecabile, non è da amputare alla crudeltà innata di alcuni uomini ma alle condizioni storico-politiche che lo hanno determinato: le ingiustizie sociali, la miseria e l’ignoranza di cui hanno approfittato i potenti per perseguire i propri interessi. Di qui l’intento didascalico del romanzo che, infine, sembra individuare nell’ «alfabetizzazione» e nell’ «umanitarismo da parte dei governi» l’unica soluzione «per risolvere la piaga» [5]. È questo, probabilmente, il messaggio che l’autore ha voluto indirizzare ai suoi lettori, offrendo loro una lucida analisi della realtà a lui vicina nonché un racconto avvincente e ricco di spunti di riflessione su una questione che non riguardò solo l’Italia meridionale ma l’intera nazione.
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CHIARA COPPIN
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[1] S. Martelli, Letteratura e brigantaggi modelli culturali e memorie storiche, in «Archivio storico per le Provincie Napoletane» 101 (1983),cit., pp 411-412.
[2] M. Lombardi Satriani, Diritto egemone e diritto popolare, Edizioni Quale cultura, Vibo Valentia, 1975, p.18
[3] P. Villani, Cosimo Giordano, ovvero I Saccheggiatori di Cerreto nel 1860, Pasquale Villani, Napoli 1863 e Luigi Chiurazzi, Napoli 1864.
[4] Si veda il capitolo I.
[5] R. Nigro. Giustiziateli sul campo, cit., p.225.
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CHIARA COPPIN si è addottorata presso il Dipartimento di studi Letterari, Linguistici e Comparati dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” con una tesi sul romanzo storico dell’Ottocento in Campania. Ha pubblicato studi critici sul dramma sacro, sulla fortuna del personaggio di Dante in teatro, sulla fruizione del mito di Medea nella letteratura contemporanea, sulla narrativa di F. Mastriani, L. Compagnone e P. Masino. Per le Edizioni Sinestesie ha curato il volume C. Del Balzo, La battaglia di Legnano (Avellino, 2017).