Apparso per la prima volta nel 1866, il romanzo I figli del lusso è composto da quattro parti contenenti complessivamente trentadue capitoli a cui si aggiungono una prefazione e un riepilogo dell’autore. L’opera si pone come seguito dei Vermi (1863-1864), nota romanzo della cosiddetta “trilogia socialista” con cui Mastriani[1] ha condotto un’attenta analisi delle piaghe sociali della Napoli postunitaria.[2] Con il titolo I vermi lo scrittore alludeva a tutti quegli individui che, cedendo al vizio per accrescere le proprie ricchezze o sfuggire all’indigenza, si dedicavano a pratiche disoneste ed immorali. L’ozio, la miseria e l’ignoranza, secondo il romanziere, erano all’origine di una serie di fenomeni lesivi del bene comune in quanto una vita indolente e scioperata alimentava la cosiddetta “camorra elegante” la povertà induceva alla prostituzione e a una serie di «falsi mestieri», mentre la mancanza d’istruzione era responsabile di gravi ingiustizie e soprusi.[3] Nei Figli del lusso Mastriani sceglie di illustrare con particolare attenzione gli effetti nocivi che la ricchezza produce nell’organizzazione sociale. Il lusso al pari della miseria, è per lui una «piaga» che genera i suoi vermi ossia persone che, dedite alle mollezze di una vita agiata, si crogiolano nel fango della corruzione morale. Si leggano le parole con cui, presentando il romanzo, l’autore sottolinea immediatamente la pericolosità di un’ esistenza sfarzosa:
Mostro divoratore il LUSSO divora l’onore quando non ha più sostanze da divorare: esso ingoia ogni anno ne’suoi baratri di velluto e di seta migliaia di vittime: sul suo altare, dove fumano incensi inebbrianti, vengono sacrificati i più virtuosi e nobili istinti, le aspirazioni più pure, i più cari affetti del cuore. Dove regna il LUSSO, ivi la società è corrotta, inerte e schiava. Roma e Sparta caddero sotto il gioco del più avvilente dispotismo, allorché si abbandonarono alle mollezze asiatiche ed al lusso.[4]
Con tono corrosivo Mastriani osserva che rispetto alla miseria sulla quale grava costantemente lo sguardo vigile delle autorità preposte all’ordine pubblico, i1 lusso è lasciato libero di arrecare suoi danni, in quanto «né le questure, nè i codici penali, nè le Corti di Assise sembrano per lui create», Su di esso però, pesa una condanna divina che tuona già nell’epigrafe biblica anteposta al romanzo: «Noli attendere ad possessiones iniquas, et ne dixeris. Est mihi sufficiens véia: enim proderit in tempore vindictae et obductionis»[5]
Dopo aver esposto il tema del libro, Mastriani ci presenta il protagonista, una sorta di anti-eroe non privo di tratti autobiografici. Il suo nome è Ippolito Foschi, un giovane onesto ed intelligente, animato da aspirazioni letterarie e gran lavoratore costretto, in seguito alla morte del padre, ad affrontare gravi difficoltà economiche. II genitore, Giacomo Foschi, non gli aveva lasciato un’eredità materiale ma soltanto un testamento di virtù morali, convinto che queste lo avrebbero supportato nelle avversità consentendogli di mantenere una condotta retta. Il narratore, infatti, individua nell’eredità un grave pericolo per l’integrità morale, dal momento che l’abbondante disponibilità di beni (spesso accumulati con mezzi disonesti). sottraendo gli individui ad ogni forma di bisogno, finisce con l’assopire le coscienze, far sprecare talenti ed alimentare dannose passioni. In più, la logica materialistica dell’eredità, distinguendo i membri del genere umano in “figli del lusso” e “figli della miseria”, è all’origine di una società iniqua nella quale pochi individui privano i più del necessario alla sopravvivenza con lo scopo di accaparrarsi il superfluo: una società in cui gli uomini eliminano la «d» dalla parola «Dio» per adorare soltanto il proprio «lo».[6] “Figlio della miseria”,[7] Ippolito, nei primi capitoli del romanzo, fa fronte ad una serie di disavventure. Dopo la dipartita del padre, infatti, egli perde anche il lavoro di commesso presso la “Melchiade Werth e Compagni”, una ditta svizzera impegnata nel commercio di oggetti preziosi. Il licenziamento avviene a seguito di un prestito chiesto al titolare della compagnia per pagare le cure della madre malata la quale, nonostante gli sforzi del ragazzo, muore lasciandogli l’onere di mantenere la sorella Rachele. Quest’ultima, ingenua e sensibile fanciulla, cede facilmente alle lusinghe di un seduttore scellerato nell’ illusione di riuscire a mutare la propria condizione di miseria e solitudine. Pur vivendo momenti di profondo sconforto, il protagonista affronta queste prove con dignità e solida fede: temprato alla «scuola della sventura”[8] egli intraprende un percorso che lo condurrà alla compensazione dei mali subiti grazie alla propria virtù e all’intervento di una donna dalla personalità complessa ed originale, Frasquita. Di origine catalana, questa possiede una bellezza perturbante nonché un’intelligenza non comune. La povertà patita da bambina e l’inganno di un uomo ricco e vile le avevano fatto conoscere l’orrore dell’ingiustizia sociale e la potenza del «senso» in un mondo materialista. Tali esperienze avevano maturato in lei un acceso desiderio di vendetta e le avevano insegnato a servirsi della propria avvenenza per «schiacciare i figli del lusso» e stabilire un principio di equità in una società «assurda, ipocrita e mostruosa».Per suo tramite, il destino di Ippolito si intreccia a quello di Marcello Werth, figlio del titolare della ditta Werth, Melchiade. Avvalendosi delle sue arti seduttive, la donna convince Marcello a cederle tutta la sua eredità spiegandogli che con tale richiesta ella non intendeva condannarlo ma salvarlo offrendogli la possibilità di condurre una vita “sana” «al di fuori del superfluo». Ascoltiamo le parole con cui Frasquita espone le ragioni profonde che muovono il suo agire:
Voi siete un giovine nato con buoni sentimenti, con una certa rettitudine di cuore e con propensione al bene; ma queste belle doti van perdute ogni giorno di più nel baratro de’ vizi scavato dall’ozio e dalla ricchezza. Ogni giorno di più voi diventerete cinico all’altrui sventura, beffardo su i mali altrui, impassibile e spietato, ipocrita, falso, immorale. Ogni giorno di più si aumenteranno i vostri vizi e le vostre ignobili passioni; voi diventerete, come gli altri, giocatore, libertino, donnaiuolo, bestemmiatore; e, quel che è peggio, voi camminerete nel mondo col petto in fuori e col capo alto estimandovi qualche cosa, e non sarete che un vilissimo verme pericoloso, per non dire velenoso alla società, nel cui grembo vivete. E quando l’EREDITÀ verrà a rifornire i vostri esausti forzieri, essa porrà il colmo a tutte le nefandezze della vostra natura. sì che la vostra anima dovrà vergognare ad ogni istante di ritrovarsi albergatrice del vostro corpo. Or bene. Marcello, io vi salvo da tanta ignominia, salvandovi dalla immoralissima EREDITÀ. Sapendo che a morte di vostro padre voi non erediterete un centesimo, da domani voi comincerete ad esercitarvi ed a studiare per qualche professione, arte o mestiero, sì che a poco a poco verrete a contrarre l’utile e salutare consuetudine del lavoro, che nobilita, santifica e letifica l’uomo. La boria naturale a’ricchi sarà in voi ammaccata; e voi diverrete umile, affabile e servizievole. Il sentimento della carità si svilupperà in voi secondo che vi si sviluppa il germe della giustizia. Il pericolo di diventar povero da un momento all’altro vi farà sobrio, prudente e risparmiatore del denaro […][9]
Marcello, grazie alla catalana, intraprende un itinerario virtuoso di cui beneficia anche Ippolito, dal momento che Frasquita, gli donerà le sostanze dell’eredità Werth supportandolo nella ripresa economica e nella riparazione delle ingiustizie patite. Le strade del “figlio del lusso” e del “figlio della miseria” vengono così ad incrociarsi giungendo, nel corso della vicenda, ad una sorta di ribaltamento delle condizioni di partenza.
Nel seguire le peripezie di Ippolito, Mastriani ci fa esplorare le ragioni profonde del male che si manifesta nell’avarizia, nell’ illegalità e nella lussuria. Con l’acume e profondità che contraddistinguono la sua scrittura, egli ci introduce nei meandri oscuri del cuore umano per mostrarci l’origine della libidine di possesso ed il suo potere. Ecco allora che la biografia dell’avido Melchiade Werth diviene occasione per interrogarsi su chi sia davvero il ricco che la gente comune ammira e rispetta; per comprendere che il cammino che agli occhi del mondo conduce al successo è il più delle volte una strada segnata da «vergognose transazioni» con la propria coscienza, da «delitti impuniti dalle leggi comuni, ma enumerati uno per uno nel libro della Giustizia Divina», da «frodi eleganti» e «furti commessi colle mani ricoperte da guanti paglini», da «estorsioni esercitate all’ombra di una rispettabile carica».[10] Gradatamente il narratore ci guida nei luoghi in cui un’intera categoria di individui vive nel lusso e nell’oro dedicandosi ad attività illecite che gettano veleno nella società. Attraverso la storia di un certo Signor Bertrando, ad esempio, egli ci offre una descrizione minuziosa del gioco d’ azzardo, dell’ambiente in cui e praticato e degli ambigui personaggi che vi si dedicano truffando il prossimo sino a condurlo alla rovina. In queste pagine l’autore rimanda esplicitamente ad alcuni passi dei Vermi per immergere il lettore nell’atmosfera cupa di una città notturna in cui opera indisturbata la “camorra elegante”, una sorta di “setta” costituita da uomini distinti che gestiscono affari disonesti nella Napoli “bene”. È in questo losco contesto che il lettore fa la conoscenza di un altro personaggio emblematico della perdizione alla quale conducono «scomposte passioni»: il baroncino Arturo, tipica figura di seduttore senza scrupoli, responsabile del traviamento della sorella di Ippolito. Campione di libertinismo,[11] costui assedia la fanciulla inesperta non solo per gusto della trasgressione ma anche per vincere una banale scommessa fatta con gli amici. Servendosi delle sue «infernali arti», il ribaldo sollecita nell’animo della giovane Rachele il desiderio d’amore e la volontà di «gustare i piaceri del lusso»; la convince alla fuga e poco dopo l’abbandona al disonore di una vita da mantenuta. Ad integrare il quadro di una società umana governata dalla logica del denaro e dell’ utile, Mastriani dedica un interessante capitolo alla descrizione delle condizioni delle lettere a Napoli.[12] Seguendo il povero Ippolito nelle pratiche per la pubblicazione di un libro di poesie, egli sottolinea il valore della penna quale «strumento potentissimo di civiltà», ma con parole accorate definisce il mestiere dello scrittore come un «purgatorio dell’intelligenza». II «letterato onesto», osserva, non ha speranza di fare fortuna in un mondo governato «dalla impostura»;. Egli è destinato alla sofferenza, stritolato da editori senza scrupoli che sfruttano il suo talento per ricavarne guadagni.
Come spesso accade nella narrativa mastrianesca, la trama è accompagnata da ampie digressioni su argomenti che denotano la suggestione di diversi filoni letterari frequentati dallo scrittore, in particolare quello del romanzo gotico.[13] Significativa a tal riguardo è la presenza di alcune scene cruente inserite nella prima parte del libro per raccontare il burrascoso passato di Frasquita rievocandone delitti efferati, violenze e addirittura episodi di cannibalismo messi in atto da una creatura dalla fisionomia mostruosa. Nei primi capitoli trovano spazio anche i temi dello spiritismo del magnetismo con cui l’autore introduce i motivi del soprannaturale e dell’ ignoto nonché notazioni di carattere scientifico[14] che vedono esplicitamente chiamata in causa dottrina di Mesmer. [15]
Visioni, apparizioni, sospetti di morti apparenti e figure di “medici/stregoni”[16] compaiono nelle pagine di questo romanzo secondo una consuetudine osservata anche in altri luoghi della produzione di Mastriani. Qui come altrove, il ricorso ad elementi dal sapore inquietante è finalizzato ad alimentare la tensione e la curiosità del lettore con il quale il narratore intrattiene un rapporto costante. Lo scrittore, infatti, mostra un’ attenzione particolare per il suo pubblico a cui suole indirizzare appelli affettuosi per richiamare l’attenzione, segnalare il passaggio da un nucleo tematico a un altro, invitarlo alla riflessione, fornirgli spiegazioni oppure utili ammaestramenti. Particolarmente interessante, a questo proposito, è una lunga citazione estrapolata dagli scritti di Paolo Segneri[17] con cui il narratore, avvertendo il destinatario che scopo del libro non è solo il diletto ma anche l’insegnamento, riflette lungamente sulla necessità di dedicarsi con animo puro all’elemosina strumento indispensabile per contrastare, un’iniqua distribuzione della ricchezza tra gli uomini. Il racconto, in effetti, è animato da un evidente intento didascalico, testimoniato anche dalle aggiunte di note esplicative che corredano il testo con lo scopo di chiarificare il significato di termini, fornire la traduzione di espressioni in lingua straniera o antica, illustrare le consuetudini di popoli lontani ma anche esprimere commenti e indicare riferimenti bibliografici. Degne di rilievo sono le diverse menzioni di brani letterari, biblici, scientifici e storici[18] che testimoniano la varietà degli interessi dello scrittore nonché un vivo gusto cronachistico che contribuisce a contestualizzare gli eventi narrati. È opportuno ricordare a questo riguardo l’inserimento di un lungo brano attinto dalla Storia del colera nella città di Napoli, di Gennaro Maldacca, [19] di cui Mastriani si serve per ripercorrere il dilagare del morbo in Europa e soffermarsi sulle sue conseguenze nella città partenopea durante il 1865. Secondo strategie ampiamente collaudate in letteratura per la narrazione delle epidemie, l’autore sottolinea il carattere inaspettato del contagio, il suo progressivo aggravamento che provoca un crescendo di preoccupazione e caos, la diffusione di notizie incerte, l’adozione di provvedimenti governativi per arginare i decessi, i tentativi della scienza medica per fornire risposte e rimedi. [20] Tuttavia, alle molteplici e discutibili teorie dei sedicenti esperti, il narratore contrappone una lettura in chiave cristiana del terribile flagello che va oltre la rievocazione storica: «Il colera», afferma, «è la collera di Dio manifestata nelle forme misteriose di un disordine della umana organizzazione, per lo quale s’incontra la morte». Di conseguenza, «Noi portiamo opinione che il colera è figlio del lusso». [21] Una simile interpretazione fa sì che la malattia intervenga nella vicenda narrata come uno strumento di punizione e premio operante secondo un principio di equilibrio e giustizia superiore. Nei capitoli finali del romanzo, infatti, il colera colpisce i viziosi e tra questi Arturo il quale, abbandonato da tutti i suoi amici, viene ricoverato in un ospedale colerico. Qui, giunto in punto di morte, l’uomo viene assistito soltanto da Ippolito la cui generosità matura in lui un mutamento interiore che sfocia nel pentimento e nella richiesta dei conforti della fede. Mentre il colera miete le sue vittime, il protagonista non fugge, non cerca riparo, ma si impegna alacremente per soccorrere i bisognosi beneficiandoli del denaro di cui la provvidenza gli aveva fatto dono e spingendo i suoi nemici al ravvedimento. Egli, pertanto, viene a configurarsi come vero campione di carità, virtù suprema che infine trionfa sull’avarizia e sulla brama di ricchezze. La storia di Ippolito giunge così ad un appagante ed esemplare lieto fine nel quale non solo il personaggio si vede sollevato dall’iniziale condizione di povertà ma contrae anche un felice matrimonio con una generosa e colta signora, Paolina Moncalieri. Tuttavia, il romanzo non termina con immagini festose ma con la morte di Frasquita a Gerusalemme. Nelle ultime pagine del libro, Mastriani conduce il lettore in Terra Santa dove la donna si reca in pellegrinaggio per rendere a Dio un’anima purificata dai peccati commessi. Personaggio di rilievo nello sviluppo della trama, lo scrittore affida a questa figura il compito di chiudere la narrazione con un messaggio di giustizia e di penitenza.
Con I figli del lusso, dunque, Mastriani offre un’ulteriore testimonianza dell’impegno civile ed etico che accompagna la sua narrativa. La profondità delle riflessioni morali, la ricchezza dei riferimenti culturali a sostegno dei ragionamenti esposti e la capacità di penetrare le ragioni del cuore umano caratterizzano una produzione estremamente vasta al cui fondo è possibile apprezzare una granitica fede nella possibilità della letteratura incidere sulla realtà per modificarla migliorandola. L’indagine critica condotta a partire dagli effetti dell’eredità sul bene collettivo permette di cogliere, attraverso la narrazione, i meccanismi di una società ottocentesca sempre più dominata dalla legge dell’utile a discapito dei valori della solidarietà e qui un chiaro monito per l’avvenire che però non esclude la speranza nella capacità dell’uomo di operare per il bene nè la fiducia in una gestione oculata dei beni. Emblematiche a tal proposito sono infine le parole scritte da Frasquita in una lettera di commiato: «Tempo verrà» in cui lo Stato saprà amministrare la ricchezza secondo giustizia e sarà in grado di provvedere adeguatamente «a’ bisogni di tutt’i figli».[22]
Chiara Coppin
[1] Sull’autore si vedano i seguenti studi: GINA ALGRANATI, Un romanziere popolare a Napoli. Francesco Mastriani, Napoli, Morano, 1914; ANTONIO PALERMO, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura italiana a Napoli fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1974; ANTONIO DI FILIPPO, Lo scacco e la ragione. Gruppi intellettuali, giornali e romanzi nella Napoli dell’800, Lecce, Milella, 1987; TONIMASO SCAPPATICCI, Il romanzo d’appendice e la critica. Francesco Mastriani, Cassino, Editrice Garigliano, 1990; ID., Tra orrore gotico e impegno sociale. la narrativa di Francesco Mastriani, Cassino, Editrice Garigliano, 1992; QUINTO MARINI, I misteri d’Italia, Pisa, ETS, 1993, FRANCESCO GUARDIANI, Le forme del romanzo di Francesco Guardiani, «Critica letteraria» XXXV, 134, 2007, pp. 95-113; LOREDANA PALMA, Un pubblico non napoletano per Mastriani Note biobibliografiche su alcuni periodici di cui preunitaria, «Esperienze letterarie» XXVIII, 2, 2003, pp. 89-92; CRISTIANA ANNA ADDESSO, EMILIO MASTRIANI, ROSARIO MASTRIANI, Che somma sventura è nascere a Napoli: bio-bibliografia di Francesco Mastriani, Aracne, Roma, 2012.
[2] La”trilogia” è costituita dalle seguenti opere: I vermi: studi storici sulle classi pericolose in Napoli (1863-1864), Le Ombre (1868) e I misteri di Napoli (1869- 1870).
[3] CLARA BORRELLI, La Napoli tragica di Francesco Mastriani e altri studi da Bruno a Viviani, L’Orientale Editrice, Napoli 2013, p. 165.
[4] Prefazione di Francesco Mastriani.
[5] Liber Ecclesiastici – Cap. V v. I.
[6] Parte prima, capitolo I.
[7] Parlando delle origini del protagonista, il narratore ci informa che «Ippolito Foschi nacque in Napoli da Giacomo Foschi, ingegnere, e da Maria Castaldi napolitana. Entrambi questi coniugi erano onestissimi, epperò poveri, perciocché le ricchezze fuggono dall’onestà come da un acerrimo e sempiterno rimprovero». Giacomo aveva avuto modo di guadagnare considerevoli somme durante la sua vita ma era morto povero e, come si è detto, reputò opportuno non lasciare ricchezze ai suoi figli (Parte prima, capitolo I)
[8] Raccontando le difficoltà affrontate da Ippolito, il narratore afferma: «Iddio non abbandona giammai le creature che vuol provare nella scuola della sventura». Sembra possibile cogliere in queste parole una pallida eco della ” provvida sventura” di manzoniana memoria.
[9] Parte prima. capitolo VI.
[10] Parte prima, capitolo VIII.
[11] Su questa tipologia di personaggio si veda ANGELO RAFFAELE PUPINO Manzoni. Religione e romanzo, Salerno Editrice, Roma 2005.
[12] Parte terza, capitolo II.
[13]Si veda a tale proposito il volume di PATRIZIA BOTTONI, Il romanzo gotico di Francesco Mastriani, Cesati, Firenze 2015.
[14] Sul rapporto tra Mastriani e il magnetismo animale è utile menzionare lo studio di RIENZO PELLEGRINI, Romanzo D’appendice e Scienza medica: Francesco Mastriani e Carolina Invernizio, in Vittore Branca (a cura di), Letteratura e scienza nella storia della cultura italiana, Palermo, Manfredi, 1978, pp. 760-778.
[15] Parte prima, capitolo VII. Franz Anton Mesmer (Moos, 23 maggio 1734- Meersburg, 5 marzo 1815), medico tedesco e teorico del magnetismo animale
[16] Su tali figure si veda lo studio di PADOVANI GISELLA, Lo scrittore e il negromante: storia, scienza e magia in un romanzo di Francesco Mastriani, in «Le Forme e la storia», n. s. V, 1993.
[17]Oratore sacro (Nettuno 1624 – Roma 1694), gesuita.
[18] Troviamo riferimenti a Rousseau, Metastasio, Monti, Tasso, Vico (Parte terza, capitolo II), citazioni del V canto dell’Inferno della Divina Commedia di Dante (Parte terza. capitolo VII).
[19] Gennaro Maldacca, Storia del colera nella città di Napoli, Tipografia del Guttemberg, Napoli 1839.
[20] Si ricorda che Mastriani ha scritto un romanzo che ha come sfondo un’ attenta ricostruzione delle due ondate che colpirono la città di Napoli nel 1836 e nel 1837: L’orfana del colera, D’Amico Editore, Nocera Superiore. 2022
[21]Parte quarta, capitolo III.
[22] Parte quarta, capitolo IV.
Nota di stampa
Il romanzo «I figli del lusso» fu stampato per la prima volta dall’editore Luigi Gargiulo di Napoli nel 1866. In seguito fu riedito da Giosuè Rondinella nel 1878 e da Gennaro Salvati (probabilmente dopo il 1890).
Venne anche pubblicato a puntate due volte: sull’ «Omnibus» dal 9 aprile al 5 settembre del 1872; e sul «Roma» dal 20 novembre al 5 febbraio del 1891, sotto il titolo «Oro e fango. Storia infernale».
Tra l’edizione di Gargiulo (1866) e quella del «Roma» (1890-1891) ci sono diverse differenze.
Alcuni lemmi sono modificati (p. es. farmacia → farmacopea); c’è qualche aggiunta (oggi è il Caffè della Croce di Savoja) e soprattutto varie soppressioni: la tragica storia di Federico B…, giovane suicida, vittima del giuoco d’ azzardo; il capitolo Le limosine de’ricchi; una nota a pie’di pagina in cui è descritta la storia della tribù indiana degli Arias nel capitolo El diablo; il riferimento al libro sulle apparizioni «Le tableau de la mort» (1760) di Louis-Antoine Caraccioli nel capitolo Maddalena; una parte del capitolo Il superfluo con un discorso del gesuita Paolo Segneri (1624-1694); la lunga citazione dell’opera di Gennaro Maldacca «Storia del colera nella città di Napoli».
Il presente lavoro riproduce integralmente l’edizione di Luigi Gargiulo di Napoli, del 1866.
ROSARIO MASTRIANI