L’intreccio del romanzo si svolge in prevalenza a Napoli dal 1813 al 1817, quando regnava Gioacchino Murat, il cosiddetto “re usurpatore”: La vecchia nobiltà napolitana si asteneva per non immischiarsi coi novelli signori della corte del re usurpatore [1].
Murat fu re di Napoli dal 1 agosto 1808 al 22 maggio 1815. Venne giustiziato il 13 ottobre 1815 a Pizzo Calabro, per cui è interessante il riferimento storico di quel periodo del regno, e che Mastriani considerava positivo per il popolo napoletano: Il prode Gioacchino Murat, re magnifico e cavaliere, il cui breve regno era stato apportatore di non poca floridezza a queste nostre province [2]. Accanto al fornello artificiale si vedeva una guastadella che potea contenere un buon tre caraffe di vino, il quale, grazie al buon governo di re Gioacchino, si vendea per due grani e mezzo la caraffa ed era ottimo e senz’alterazioni [3].
Ma oltre al popolino, Murat, che dai borboniani era soprannominato re di coppe [4], faceva divertire anche le classi più agiate In quell’anno1813 nel vico Freddo a Chiaia ci era Il Giardino di Tivoli. Era questo un pubblico divertimento per le classi agiata create dal re Gioacchino Murat a somiglianza del Giardino d’Inverno a Parigi [5].
Ma si vedevano in Napoli, quelli che oggi vengono definiti col nome di casinò: Nel Palazzo Barbaja a Toledo le più colossali fortune naufragarono nel Rosso e Nero e Rollina (roulette). Con tutto ciò, il giuoco pubblico che il governo del Murat permetteva era sempre meno dannoso del Lotto; quello ruinava il ricco; questo affama il secondo [6].
Probabilmente la trama del romanzo prende spunto da un episodio di cronaca realmente accaduto: Gli ottuagenari napolitani ricordano il fatto della donna dei due mariti [7].
Uno dei protagonisti del romanzo, Francesco Benasser, sembrerebbe davvero esistito: Sembra che egli trovasse modo di giovarsi del patrocinio di re Gioacchino, appo il quale fece forse valere i suoi natali nell’isola in cui era nato Napoleone Bonaparte, cognato del Murat. […] Dalle ricerche storiche da noi fatte su questa infelice spedizione abbiamo motivo di credere che tra i pochi Corsi che seguirono le ex-re di Napoli e che iniquamente il tradirono nello sbarco a Pizzo ci fosse il nostro Francesco Benasser. Se ciò fosse vero, costui avrebbe pagato con nera ingratitudine i benefici del Murat [8].
Il suicidio di Carmine avviene per miseria, fu vittima dello strozzinaggio, per cui una delle tematiche del romanzo riguarda proprio tal soggetto. Carmine si suicida per debiti. Vittima dell’usura. A quell’epoca per gli inadempienti, cioè coloro che non riuscivano a pagare i debiti, c’era l’arresto personale: Vi avverto che se non pagate puntualmente alla scadenza, faccio vendere anche i vostri letti; e valendomi dell’articolo 1131 del nostro Codice Civile, vi mando a mie spese a prendere un po’d’aria fresca nelle carceri di Montesanto [9].
Per gli inadempienti c’era tuttavia un espediente umiliantissimo a cui si appellavano i debitori per sfuggire alla personale cattura: la Colonna della Vicaria, che era una mezza colonna che si trovava innanzi all’ingresso di Castelcapuano, e il cedo-bonis».
L’espediente viene spiegato da Mastriani nel seguente semplice e pulito modo: Non volendo adunque farmi mettere in prigione io dissi all’usciere: voglio fare Zita-Bona (come il volgo addimandava il Cedo-Bonis) sulla Colonna della Vicaria. Ed eccomi pronto a fare, con riverenza del popolo, la irriverenza… Ciò detto, sciolse la correggia nera che gli tenea ristretta ai fianchi la serra dei calzoni, ed espose sulla mezza colonna, alla vista degli astanti, quella parte del corpo che la decenza vuol coperto[10].
Sottoponendosi al Cedo-Bonis, per effetto legale il debitore si scioglieva da qualsivoglia obbligazione avesse contatta. Il governo del re francese proibì questa barbara costumanza.
Ma Carmine a quest’espediente umiliante, preferisce togliersi la vita, per cui altro tema del racconto è il suicidio al quale è dedicato un intero capitolo: ci si consentano alcune osservazioni su questa funesta aberrazione dello spirito o di questa fatale conseguenza delle leggi che regolano il consorzio civile, il SUICIDIO . [11]
Ciò vuol dire senza parafrasi che la cresciuta civiltà aumenta i casi di disperazione; ed una civiltà che spinge un gran numero d’infelici a squarciare il proprio organismo per togliersi dalle spirali del dolore, è una civiltà ibrida, derisoria, una barbarie inverniciata, raffazzonata, infronzita con mille rattoppi e impiastricciata di lucida e puzzolente vernice. […] Crediamo che la principale ragione per cui il numero dei suicidii è cresciuto ai tempi nostri si è l’affievolamento o la mancanza di fede religiosa […]. Avvi certe ore in cui l’ignoto della morte è meno orribile dell’ignoto della vita. Sotto l’aspetto psicologico il suicidio è negazione di Dio; sotto l’aspetto fisiologico è follia; sotto l’aspetto morale è codardia; ma sotto l’aspetto sociale i FATALE NECESSITÀ. [12]
Uno dei protagonisti del romanzo è Carmine Esposito. E il cognome di questo personaggio è un altro tema del romanzo. E non è solo in questo lavoro che Mastriani parla di questo marchio, che nel diciottesimo secolo, a Napoli, veniva dato ai figli della madonna, ovvero a quei neonati che venivano abbandonati dai genitori e gettati nella Ruota dell’Annunziata. E qui raccolti a questi figli illegittimi, a questi bastardelli veniva dato il cognome Esposito, da esposto: Nell’anno 1813 Carmine aveva 35 anni. Quali erano stati i suoi genitori? Va te li pesca. Il suo cognome, deplorabile marchio che l’ospizio dei trovatelli ponea su la fronte delli sventurati, accusava i suoi misteriosi natali. Carmine Esposito era dunque un figlio della Madonna. […] Forse più che la vergogna e il disonore, la miseria de’genitori lo aveva gittato nella Ruota dell’Annunziata [13].
ROSARIO MASTRIANI
[1] Francesco Mastriani, Il Suicida, cap. IV. «Il giardino di Tivoli».
[2] Ivi, cap. XVIII. «La vedova».
[3] Ivi, cap- XI. «Le salcicce del portinaio».
[4] Ivi, cap. VI. «Dolorosa epopea».
[5] Ivi, cap. IV. «Il giardino di Tivoli».
[6][6] Ibidem.
[7][7] Ivi, «Conclusione».
[8] Ivi, cap. XIX. «Francesco Benasser».
[9] Ivi, cap. VIII. «Lo strozzino svizzero».
[10] Ivi. cap. IX. «Cedo-Bonis».
[11] Ivi. cap.XIV. «Il suicidio».
[12] Ibidem.
[13] Ivi, cap.III. «Carmine e la sua famiglia».