Un vasto subbietto imprendo a trattare: descrivere lo interno della città di Napoli nelle ore in cui la maggior parte de’suoi abitanti paga il notturno tributo alla natura, rinfrancando nel sonno le forze esauste dalle fatiche o da’divertimenti del giorno.
Quando la solenne campana di S. Martino distende su tutta la capitale i suoi lunghi rintocchi che annunziano esser giunta la notte a mezzo il suo corso, non crediate che tutti gli uomini e tutte le cose riposino in questa Napoli vispa e fosforescente, che, a somiglianza delle donne nervose, mai non si abbandona a lunghi sonni. In està sovrammodo Napoli non dorme affatto: le notti per questa infingarda regina del Tirreno sono ore di tripudio, di ebbrezza, d’incanto e di poesia.
Se voi leggete i vecchi romanzi, le cronache de’mezzi tempi, vi formate presso a poco un’idea di quel che era la notte pe’nostri buoni antenati: la si può compendiare in due parole; tenebre e delitti. Infatti, se si considera che in quei tempi per le strade non vi erano fanali, si comprenderà di leggieri che gli animali immondi e gli uomini di anima nera far doveano delle pubbliche vie il teatro delle turpitudini e nequizie. I ladri, gli assassini, gl’impudichi e le streghe uscivano al tocco di mezzanotte per le infernali loro opere. Strisciando come rettili lungo le mura, essi benedicevano il favor delle tenebre ed avrebbero voluto anco sottrarsi al fulgido occhio delle stelle, che per essi era minaccioso e terribile al pari dell’occhio di Dio. Mezzanotte era l’ora de’nefandi ritrovi, de’diabolici convegni delle maliarde, della posta scellerata dell’assassino, dell’agguato insidioso del ladro; era insomma l’ora maledetta, l’ora de’misteri, l’ora più segnata nel libro della giustizia di Dio.
Ma mutano i tempi e con essi i costumi. Uscite in Napoli a mezzanotte nel mese di luglio o di agosto, ed anche in tempo di carnevale, mettetevi nella via di Toledo, e farete le più grandi meraviglie nel veder tanta gente andare e venire come se fosse appunto la prima ora di notte. Altro che streghe e assassini! Tutto al più, sono streghe e assassini di altro genere, streghe in crinolina e in reticella che vi lanciano certe occhiate da farvi impazzare almeno per quella notte, assassini in guanti color paglino che tutto al più si rubano tra loro il… sonno. Forse in altra nostra più lunga monografia parleremo della vita della sera, della vita interna, della vita del gran mondo che gl’Inglesi domandano high life (alta vita). Per ora ci limiteremo a toccare il quadro di Napoli in mezzo alla strada. Cominceremo dalla state.
Dilettosissime sono le notti estive in questa nostra deliziosa Partenope. Vogliono i viaggiatori che sulle rive del Bosforo e nel greco Arcipelago bellissime sien del pari le notti di està. Noi non siamo stati né in Turchia né in Grecia, e non possiamo però stabilir paragoni; ma egli è indubitabile che sotto questo cielo incantato, quando una bianchissima luna spande su i colli e sulla marina i suoi veli di odalisca, quando milioni di stelle sembrano affacciarsi nel firmamento a bella posta per guardar le bellezze di questa Napoli addormentata su i fiori, quando le aure del cielo hanno le carezze più lusinghiere, le colline i profumi più eletti e le onde del mare i mormorii più armoniosi; quando tutto ciò si riunisce per formare il più bel vezzo della creazione, noi crediamo che il vedi Napoli e poi muori non sia già una figura rettorica.
Andate a Posillipo, a Frisio, e ditemi se ci è qualche cosa al mondo che possa superare in bellezza una notte di està a Napoli. Ci è paese nel mondo che abbia i nostri vermicelli col sugo di pomidoro o colle arselle, e massime quando sovra un piatto fumigante di queste auree fila cade uno sguardo invidioso della pallida regina delle notti? Non ci è che Napoli che abbia potuto inventare la sua luna, la sua marina e i suoi vermicelli al sughillo.
Nelle ore dopo mezzanotte di està escono i suonatori di violino e le suonatrici di chitarra che traggono a S. Lucia, a Posillipo, a Frisio per allietare co’canti co’suoni le già allegre brigate ivi riunite a darsi bel tempo e a gavazzare in giocondissime cene. Talvolta si vede qualcuna di queste cantatrici accompagnate dal suo suonatore gir vagando pe’ caffè, dove dà nelle ore avanzate della notte accademie più o men lucrose; ma egli è a Frisio, a Posillipo, ed anco a Foria presso Antonio delle tavolelle, che vedesi qualcuna di queste piccole compagnie ambulanti, composte per lo più da un vecchio che suona il violino, da uno più giovane che pizzica la chitarra (istrumento delle cene e degli amori) e d’una giovanetta che canta le canzoni popolari ed eziandio qualche pezzo teatrale. Alcune volte vi si mischia il flauto; altre volte è il mandolino che fa da primo e che sposa le sue strimpellate alla voce stonata d’un baritono da cànova.
La chitarra è lo strumento notturno per eccellenza, lo strumento delle serenate, de’concerti all’aria aperta, delle dichiarazioni in tuono minore. Quando mezzanotte fa tacer nelle case la voce dell’importuno pianoforte, la chitarra assume nelle strade il suo impero usurpato da quell’anfibio istrumento. Celebre è la canzone del felice notte sì Sarvatò [1], che pel consueto pon termine alle feste cantinesche de’nostri popolani.
Non vogliamo qui parlar delle serenate: in parecchi articoli di questa opera se n’è fatta menzione. Ciò nondimeno vogliamo dire che questo nostro secolo di piombo ha ucciso le serenate, come ha ucciso ogni onesto e grazioso divertimento. Il secolo scorso era il secolo delle serenate. Gli Spagnuoli aveano introdotto appo noi questa gentil costumanza.
Un animal notturno che esce pure allo scoccar di mezzanotte è il raccoglitore di mozziconi di sigari [2]. Vedetelo sbucare a Toledo da’vicoli circostanti: ha in mano la sua piccola lanterna; la sua faccia è cupa e tenebrosa, e la guardatura di gatto selvaggio.
Dopo mezzanotte, di està e d’inverno, voi non incontrate per le strade di Napoli che le specie seguenti:
A mezzanotte – Passeggieri d’ambo i sessi che si ritirano dalle feste, da’teatri, da’tavolini di mediatore; il mozzonaro col suo lanternino; l’accenditore colla sua scaletta; gli ubriaconi per sistema; i cocchieri colle loro cittadine.
All’una dopo mezzanotte – Passeggieri d’ambo i sessi (in più picciol numero) che si ritirano dalle feste di ballo, da’tavolini di primiera; qualche innamorato extra moenia; cocchieri e carrozzelle; qualche vagabondo di sinistro aspetto; le ballerine di S. Carlo; il caffettiere ambulante, il quale per lo più esce a’rintocchi di mezzanotte, e recasi dapprima a visitare tutt’i posti di guardia, offrendo la sua merce a quelli che han da passare in veglia la notte.
Alle due dopo mezzanotte – Passeggieri come sopra sempre in numero decrescente; qualche carro di fieno o di paglia che attraversa maestosamente la diserta via di Toledo, per la quale vedesi a quando a quando qualche carrozzella che si ritira, e il cui cavallo stanco si mostra ribelle alle frustate del suo implacabile padrone; qualche giocatore disperato; qualche garzone di caffè; gli zampognari (novembre e dicembre).
Alle tre ‒ (d’inverno): assenza completa di esseri umani, tranne qualche accattone dormiente sotto le stelle: a quest’ora non incontrerete che qualche maiale, qualche gatto o cane: a quest’ora l’incontro di un uomo non è sempre di ventura; (d’està): qualche brigata di ritorno da una festa; qualche figlio d’Adamo che non ha un letto su cui riposarsi; l’acquavitaro [3] che incomincia a dar la voce.
Alle quattro (d’inverno, poiché di està è giorno chiaro): qualche caffè che si apre.
Alle cinque (sempre d’inverno) comincia la giornata de’lavoratori, de’caffettieri e di alcune specie di venditori ambulanti. Assenza completa dell’aristocrazie e del ceto medio.
Durante il carnevale e nelle notti di festino a S. Carlo, veggonsi in quasi tutte le ore notturne arlecchini e bautte a crocchi od anche soli che vanno o vengono da S. Carlo o da altre feste private.
Alle sei – Comincia la vita, il movimento, il rumore; le botteghe si aprono, i lanternini girano, la luce de’fanali impallidisce; si sentono svariate voci in istrada, tra le quali predominano quelle dell’acquavitaro, del caffettiere ambulante già menzionato, della venditrice di baloge. Di questi il caffettiere ambulante è il miglior levatore, il più assiduo, il più universalmente sparso in tutt’i dodici quartieri della capitale. Egli si reca appresso la sua piccola bottega con tutt’i focolari che debbono tener calda la sua merce. Eccolo, ve ne presentiamo la immagine [4]. Il caffettiere ambulante non vende pel consueto che a tocchetto (un grano di caffè), e non rare volte ha dato l’esempio di vendere a minima (un tornese di caffè somministrato in un bicchiere da rosolio). La solita è un lusso di smercio al quale non è avvezzo. Né crediate che la merce del nostro caffettiere ambulante sia dispregevole. Egli non adopera né l’orzo né le fave né la liquirizia, tutto al più, allunga il caffè coll’acqua, e ciò per rispetto ch’egli ha per la suscettibilità nervosa del secolo. La classe lavoratrice è tutta in piedi e in istrada. A quest’ora s’incontrano pure parecchie persone civili, e sono gli studenti di legge e di medicina che traggono da’loro maestri; i mercadanti di seconda sfera, che si recano alle loro botteghe o vanno a pigliarsi la loro solita al caffè; gli uscieri, gli agenti di polizia, e da ultimo qualche creatura di genere femminile.
L’alba fa la spia attraverso le imposte delle finestre.
Sorgon dal letto gli uomini di buona volontà; vi giacciono ancora per molte ore i neghittosi, i ricchi, i dissoluti e tutti quelli che non meriterebbero di mangiare, perché non sudano a lavorare.
FRANCESCO MASTRIANI
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[1] Felice notte Salvatore.
[2] Vedi figura 1
[3] Vedi figura 2
[4] Vedi figura 3
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Figura 1
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Figura 2
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Figura 3