MISCELA DI ALTA CLASSE E BASSA GENTE IN FIOR D’ARANCIO LA CANTATRICE DI MERGELLINA

   Quando dall’ottobre 1887 al febbraio 1888, l’ormai settantenne Francesco Mastriani pubblica, nelle appendici del «Roma» Fior d Arancio La cantatrice di Mergellina, la prima e la seconda stagione romantica, esaurito il loro ruolo, cedono il passo al decadentismo, dopo essere passate per le esperienze del Positivismo, con le filiazioni del Naturalismo in Francia e del Verismo in Italia.

   Trattasi di un quadro socio-storico-letterario complesso e articolato con propaggini che rendono quanto mai improbabile blindare in decodifiche matematiche la data di inizio e di fine di una corrente, perché i fermenti del rinnovamento pulsano nei prodromi e sopravvivono stancamente negli epigoni, snaturati delle peculiarità precipue e sostanziali.

   Mastriani (1819-1891), che cavalca quasi tutta la parabola dell’Ottocento, sembra non avvedersi dei cambiamenti ab imis di uno dei secoli più dibattuti del nostro panorama letterario, fagocitato com’è dall’amore per la scrittura e dalle esigenze della famiglia, indigente e funestata da lutti frequenti: le sue storie, lette da tutta Napoli, «all’infuori della gente letterata»[1], che lo snobba, non gli tirano «quattro paghe per il lesso» [2]. Ne consegue che, anche se calato nelle problematiche del suo tempo, don Ciccio le vive con un certo distacco: l’innata riservatezza, l’integrità del carattere, alieno da ogni sorta di compromissione; il temporeggiare con gli accidenti del quotidiano lo estraniano dalle polemiche, sovente, sterili e faziose dei contemporanei: divergono dal suo stile di vita e dalla sua forma mentis, educata al culto dei valori tradizionali. In breve, Mastriani, a rivisitare Leonardo, e colui che non si volta se a stelle è fiso. La sua stella? Scrivere romanzi che gli vengono ispirati dalla osservazione delle classi sociali nella loro eterogeneità, smentendo la tesi di una critica obsoleta, che si ostina a etichettarlo mero appendicista degli umili. Niente di più falso e di più fallace. Figlio del proprio secolo, il Nostro padroneggia un sapere eclettico e poliedrico, che gli consente di monitorare la precarietà degli emarginati e la vanità dell’aristocrazia, arroccata su apparenze, convenzionalismi, falsa virtù, falso buonismo e galantuomismo. Un’aristocrazia che, quando Mastriani attende alla stesura di Fior d’Arancio La Cantatrice di Mergellina, sta vivendo una crisi di identità: incressata di passato, sembra rinnegare i mutamenti in essere, che sollecitano l’ascesa della borghesia, le svolte del progresso, le trasformazioni in costante evoluzione. Le basi ataviche, scrigno del potere e dell’albagia, traballano: la volontà di non flettersi alle circostanze e così pressante da riparare in una nuova egemonia: quella mondana, in cui soffoca le amare delusioni. Sono aspetti e suggestioni della seconda generazione romantica che Mastriani sebbene, più volte, tacciato di appartenenza al basso Romanticismo, senza esserne esponente e senza condividerne le istanze, non demonizza, perché non ledono nè transitano nei suoi prodotti letterari al pari dei temi dell’idealismo, scaduti nella ricerca del patetico, in stati d’animo e atteggiamenti nostalgici. Infatti, nell’ordito dei feuilleton mastrianei non si intercettano situazioni o personaggi che potrebbero rimandare a sdolcinature o a travisamenti sentimentaloidi.

    I nobili di alto lignaggio indagati dallo scrittore, epigoni ancien règime, svalutati, con la caduta dei Borbone, di potere egemonico, temono che l’espansione della classe sociale emergente possa minare o quanto meno incrinare al loro interno le stratificazioni plurisecolari. Preoccupazioni legittime: non interessano don Ciccio che, leggendo dietro la facciata delle false immagini di bene e di galantuomismo, vi scopre ignavia, egotismo, artata mistificazione dell’amore, vanto del libertino navigato: passata l’infatuazione per una qualunque fanciulla del popolo o del ceto abbiente, al momento di defilarsi, si affranca da ogni scrupolo con un congruo risarcimento pecuniario, archetipo di quel Domenico Soriano, che crede di liquidare Filumena con la «solita carte ‘e ciento lire» [3].

   Se Fior d’Arancio La cantatrice di Mergellina fosse solo e unicamente raffigurazione di un’ aristocrazia conformista, fanatica dei prischi allori del casato, falsamente costumata e palesemente perbenista, si potrebbe discettare su un probabile accostamento di Mastriani alle rivendicazioni dello stanco romanticismo. Ma, don Ciccio non inciampa nella trappola dell’edulcorazione e della fiacchezza della volontà, mescola ad arte la materia narrativa di alto profilo con quella di basso profilo, ponendo indiscriminatamente accanto ai nobili blasonati, la cantatrice e gobbetto, forgiando e inserendo nell’ossatura del feuilleton una campionatura, sia pure distonica, di alta e bassa gente.  Incuranti della sferza degli esegeti parassiti, spigolando e sfogliando, come fior da fiore, le pagine del romanzo in predicato, una “donzella” di alto rango potrebbe essere scambiata o confusa per una creatura sfuggita alla codificazione del patetismo vieto. Niente di più azzardato. Con l’energia che ci contraddistingue, ci affrettiamo a smentire questa erronea interpretazione, perche Cesira, tale è il nome della giovane, per quanto di «spirito vivacissimo», di «immaginazione esaltata», di «indole appassionata»,[4] non manifesta alcuna caratteristica né della prima nè della seconda generazione romantica. L’alone di malinconia in cui volontariamente si imbozzola e la dispettosa autoesclusione dalla vita mondana sono, in realtà, studiati espedienti per estorcere al genitore il consenso di convolare a nozze con il suo squattrinato maestro di pianoforte. Sono capricci di una giovanetta viziata, dissonanti dalla disperazione cocente e dal sentimentalismo trito.

   Al vaglio di una predisposizione naturale tendente alla frivolezza, a nessun critico verrebbe in mente di comparare Cesira a Catherine di Cime tempestose, consumata da un amore tarlo del cervello e spasimo del cuore; macerazione dell’animo e della carne; un amore urente, accentuato da uno stato di nevrastenia, che l’accompagnerà sull’orlo della pazzia.

    Né Cesira è Edmenegarda, a tiro di una legge morale che condanna passioni travolgenti e turbinose e, con esse, la sposa che ne è stata succuba, infrangendo la sacralità de1 vincolo matrimoniale. Una donna, Edmenegarda, debole, fragile: stempera l’autocommiserazione nel vittimismo, che è sfogo e confessione, voluttà di pianto lenificante, proclive a defluire in sentimentalismo sterile e slavato.

   Cesira non è eroina romantica. La sua non è malattia devastante, non è senso di vendetta e di autodistruzione, ma orgoglio ferito che, senza destabilizzarla, la motiva ad agire, superando  condizionamenti della disparità di genere.

   Dopo l’arresto di Olivo Baruzzi per bigamia, parte da Marsiglia, loro nido d’amore, e si rifugia in Sant’Anastasia, paesello agricolo alle falde del Vesuvio.

   Là, dà alla luce una bambina di meravigliosa bellezza, che bacia, benedice prima di chiudere la sua partita con la vita e prima di affidarla, più per obbligo delle costrizioni di casta, cui ha cercato di ribellarsi con la fuga d’amore, che per disamore materno, alla levatrice con l’incarico di deporla nella ruota dell’ospizio dei trovatelli a Napoli.

   Il sipario tristemente cala sull’avventura umana e terrena di Cesira: col suo silenzio ha tutelato l’onore della famiglia non profanata da uno scandalo, che avrebbe offuscato la parvenza dell’antico onore. Noi, pensosi, in religioso silenzio ci allontaniamo dal suo letto di morte, rispettosi della sua decisione estrema e andiamo a interessarci di un’altra giovane, la cui vicenda di amore e morte affine a quella della sventurata figlia del principe di San Mattia.

   Se Cesira per la realizzazione del suo sogno d’amore sfoggia un’indole capricciosa, intollerante, infantile, Fior d’arancio, sua omologa o comprimaria in una storia parallela, è una giovane di umili natali, adultizzata nell’ospizio della Nunziata e in seguito nel Serraglio. Lì incontra Tobia il gobbetto col quale stringe fraterna amicizia tanto che entrambi, mal tollerando quel lazzaretto di sofferenze fisiche e morali, decidono di traslocare e di procurarsi da vivere come cantori di strada, fiduciosi della voce sublime di Fior d’arancio e degli accordi musicali che il gobbetto sa ricavare dal suo mandolino. Formano un duo di musicisti bene assortiti, che commuovono gli avventori dei ristoranti di Frisia, Posillipo, Mergellina, quando intonano la canzone della Trovatella, musicata da Tobia e pregna di riferimenti autobiografici in «figlia del peccato… Sulla terra fui dannata / sempre sola a lagrimare»,[5] in cui Fior d’arancio reperisce se stessa e la sua avversa sorte. 

   II vissuto dei due scorre senza scosse e turbamenti fino a quando la cantatrice, figura scultorea… «portamento signorile, occhi scuri e malinconici», [6] non si imbatte nel conte di Villamare, folgorato dalla bellezza della giovane e lei da lui.

   Non serve un monitoraggio comparativistico per arguire che stiamo per assistere a una storia analoga a quella di Cesira: stesse modalità, stessa conclusione, stesso dolore e prostrazione, che conduce l’innamorata delusa alla tomba per stress del cuore.

   Dominata da un sentimento totalizzante, Fior d’arancio non riesce a recepire che alcun collante o aggregazione affettiva possa sussistere tra un patrizio e una trovatella. Indubbiamente fortunata rispetto alle altre abbandonate nella “buca” e alla stessa Ginevra del Ranieri, le cui terrificanti calamità sono già impresse nel «laido e sozzo sorriso delle nutrici»;[7] proseguono con il crescendo aberrante della violenza subita da un prete triviale e licenzioso; con il suicidio dell’amante, la fuga a Roma con un pittore che la tradisce con una principessa russa e che, infine, con un calcio la catapulta nel Tevere.

   Iatture su iatture spingono Ginevra a darsi al romitaggio e alla penitenza, isolandosi in una grotta della campagna romana, per poi, accusata di complicità con un ladro, morire di consunzione nel monastero di San Giacomo.

   «Incunabolo del romanzo sociale in Italia»,[8] Ginevra o l’orfana della Nunziata disturba il governo borbonico e la chiesa: nella persona di «un prete cortese»[9] sentenzia che è «bene bruciare il libro, ma assai meglio… sarebbe bruciare l’autore».[10]

   Fior d’Arancio La cantatrice di Mergellina si muove su uno scenario meno impietoso e efferato. I due cantori non sono additati col sospetto di essere esponenti di quel quarto stato che allerta destra storica e aristocrazia per lo spettro del pericolo rosso ventilato rimarca, Mastriani nella Prefazione de I Misteri di Napoli, da quei romanzieri (Sue,Vidoq, Zola) «che si dettero a scavare nelle fogne della società per mettere in evidenza tutto ciò che nei diversi centri di civili popolazioni è di laido e nefando».[11]

   No! Fior d’arancio non è Ginevra, ma non è neanche Rituccia Damiani de Le Ombre ne Justine di De Sade.

   Orfana dei genitori, per una sequela di avverse congiunture, Justine cade nelle tresche di vari libertini, che abusano di lei. Sebbene una sconfessata ebbrezza di sofferenze la spinga nelle mani dei carnefici, rifiuta di secondare i loro programmi criminali per conservare, almeno, la incontaminatezza dello spirito.

   Nella specificità della trattazione se, servendoci di una lente prismatica, volessimo intravvedere qualche addentellato con la narrativa libertina francese dovremo scovarla nella dissimulazione dell’ipocrisia, della falsità, del perbenismo di facciata che induce il principe di San Mattia a non rivelare a Evaristo di Villamare e a Fior d’arancio, ospitata nel palazzo alla Riviera di Chiaia, la sua vera identità e il loro stretto rapporto di parentela. Sì, l’anziano principe si avvicina al letto della nipote agonizzante, le parla sommessamente, «ma quel parve che Maria comprendesse perfettamente queste parole»[12] alimenta dubbi e perplessità. Con la presunta rivelazione di verità fatta in extremis, ancora una volta, il buon none dei Tusciani è immune da pettegolezzi. L’onore della famiglia, nella rosa degli ascendenti e discendenti, rimane immacolato il che preme maggiormente ai nobili aristocratici, la cui saldezza poggia sempre più su piedi di argilla.

                                                 ANNA GERTRUDE PESSINA

Pubblicato sulla periodico «Riscontri. Rivista di cultura e di attualità», Gennaio-Aprile 2024

 

[1] B. CROCE, La Letteratura della Nuova Italia, Bari. Laterza, 1973, vol. IV, p. 30.

[2] G. CARDUCCI, Davanti San Guido, Rime Nuove, a cura di M. Pazzaglia, Bologna, Zanichelli, 1979. voll. III. p. 586, v. 71.

[3] E. DE FILIPPO, Filumena Marturano, Torino, Einaudi, 1979, atto secondo, p. 50.

[4] F.MASTRIANI,  Fior d’arancio La cantatrice di Mergellina, Napoli, Guida editori, 2022, p. 170.

[5] Ivi, p. 11.

[6] Ivi, p. 9.

[7] R. REIM, Ginevra o le sventurate del feuilleton, in A. RANIERI, Ginevra o l’orfana della Nunziata, Roma, Lucarini, 1986, p. 12.

[8] Ivi, p. 11.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] F.MASTRIANI, I Misteri di Napoli,  a cura di Giuliano Innamorati, Prefazione dell’autore, Firenze, Vallecchi, p. 32.

[12]Idem, Fior d’Arancio La cantatrice di Mergellina, cit., pp. 370-371.