Sul romanziere più prolifico della letteratura meridionale tra Otto e Novecento (cento e otto romanzi, migliaia di articoli) uno studio che dopo parecchi anni rompe l’isolamento e fornisce preziosi materiali per ulteriori approfondimenti.
«Questo povero vecchio che si è spento ieri, oscuramente, carico di anni e di dolori, affranto da un duro e incessante lavoro che gli lesinava il pane, tormentato da una invincibile miseria, non soccorso dalla fredda speculazione giornalistica che lo ha tanto sfruttato, soccorso dalla segreta pietà di poche anime buone, questo martire della penna era, veramente, tra i più forti ed efficaci nostri romanzieri. […] Egli non ha avuto riposo che nell’ultimo sonno: e noi pensiamo a lui, pieni di un profondo rammarico, perché la sua sorte fu troppo amara, poiché la penna finisce per essere, per tutti quanti, una croce». [1]
Questo scriveva Matilde Serao a gennaio del 1891, poche ore dopo che il «povero vecchio» Francesco Mastriani, s’era spento, solo e abbandonato da tutti, in uno squallido appartamentino della Napoli dei vicoli da lui tante volte descritta nei romanzi d’appendice, nelle migliaia di articoli pubblicati in oltre mezzo secolo di intensa attività nella quale prosa narrativa e prosa giornalistica s’erano mescolate, sovrapposte, incrociate diventando l’unica fonte di magri guadagni, trasformandolo in «martire della penna» come aveva efficacemente sintetizzato la Serao, allora poco più che trentenne ma anch’essa incamminata nella strada del martirologio.
Sono 108 i romanzi lasciati dal Mastriani: da Sotto altro cielo, del 1848, a Una passione fatale del 1891, rimasto incompiuto, [2] un susseguirsi incessante di storie, tragiche, macabre, lugubri, drammatiche, di situazioni allucinanti in ambienti di miseria, di personaggi che sembravano inventati ma che brulicavano nel ventre della città, i vermi volendo usare un’espressione dello scrittore stesso. Con i romanzi, migliaia di articoli, dal bozzetto alla novella, dai ritratti di personaggi del proprio tempo alle descrizioni paesaggistiche, un universo nel quale il Mastriani riusciva a penetrare efficacemente. Scrisse su giornali importanti e su giornaletti di poco conto, per chiunque gli garantisse, soprattutto negli ultimi anni di vita, un modesto peculio.
Non era né un autodidatta né uno sprovveduto; ebbe come compagno di studi Pasquale Stanislao Mancini, imparò da solo francese, inglese, spagnolo, tedesco e greco, si dedicò con impegno al diritto romano perché pensava di intraprendere la carriera di avvocato ma poi cominciò a scrivere e fu la letteratura popolare ad attirarlo e ad avvincerlo completamente: lesse i romanzi gotici inglesi che avevano ispirato Antonio Ranieri per Ginevra o l’orfana della Nunziata, le opere di Anna Radcliffe (maggiore esponente del cosiddetto romanzo nero o terristico), di George Sand, di Victor Hugo e di quell’Eugene Sue che fin dal 1832 con La Salamandra aveva anticipato il tipo di narrativa divenuto popolare, non soltanto in Francia, all’ uscita de I misteri di Parigi (1842-1845), furono queste le radici della dilagante narrativa del Mastriani riversata ne La cieca di Sorrento, ne Il mio cadavere, in Federico Lennois, ne La comare di Borgo Loreto, ne Il Conte di Castelmoresco e via via in tutti gli altri romanzi pubblicati sui giornali e poi stampati da editori improvvisati in edizioni di nessun pregio ma alla portata di tutte le tasche. Così come è stato detto che negli anni del secondo dopoguerra i fumetti aiutarono molti a leggere e funzionarono anche da deterrente nella lotta all’analfabetismo, è probabile che i romanzi di Francesco Mastriani abbiano aiutato, alla loro uscita, ad avvicinarsi alla lettura, ad apprenderla e di fronte ad un simile contributo ci sarebbe poco da sottilizzare su possibili e improbabili preziosismi linguistici e stilistici di questo fecondo scrittore descritto dall’aneddotica come tipo «segaligno e squattrinato» ma soprattutto che andava in giro con un piccolo calamaio nel taschino del panciotto, pronto a fermarsi al tavolino di un caffè, sul marmo di una tipografia, per inventare in tutta fretta una nuova puntata di un feuilleton.
Nel «pianeta Mastriani», fatto di migliaia di pagine di romanzi e di decine di migliaia di colonne di giornali di quotidiani e di periodici, in quasi cento anni pochi si sono avventurati e tra i pochi non sono mancati i sussiegosi come Benedetto Croce il quale ha liquidato Francesco Mastriani con qualche pagina nel pur pregevole saggio su La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 nel quale tra l’altro definì il romanziere, non senza toni sottilmente ironici (l’ironia si aggiungeva al sussiego), «filosofo, educatore, consigliere e vindice del popolino e dei piccolo borghesi di Napoli». Aveva fatto meglio qualche straniero, George Hérelle ad esempio, definendo il Mastriani un romancier socialiste (il saggio del letterato e traduttore francese, sulla «Revue de Paris», è del 1894) mentre in Italia bisognerà attendere gli anni dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci per leggere giudizi sul Mastriani (affiancati al Guerrazzi e agli altri pochi «scrittori paesani popolari», secondo una definizione dello stesso Gramsci), accanto ai quali vanno messi quelli del Russo che ne I narratori definì il romanziere napoletano, superiore a Sue, a Gaborian, a Ponson du Terrail.
Studioso attento e critico scrupoloso del Mastriani è, da tempo, Antonio Palermo, il quale pur avendo collocato il romanziere nel «vestibolo della letteratura» e pur avendolo definito «bonario, casalingo e indigente appendicista» gli ha dato una collocazione nei suoi (di Palermo) contributi, continui ed essenziali, a una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento; restano valide le notazioni di Palermo e il suo Da Mastriani a Viviani (recentemente ripubblicato da Liguori) diventa un punto di riferimento irrinunciabile, anche se le conclusioni sono che pur essendoci nel Mastriani «opere sostenute da un impegno di scrittura e d’invenzione come Il barcaiuolo d’Amalfi e La Medusa di Porta Medina [3] egli non riesce né a entrare nella letteratura né a restarne proficuamente fuori.
Al panorama critico sollecitato dalla narrativa e dal giornalismo del Mastriani, ci sarebbe poco da aggiungere (verrebbe spontaneo scrivere: «il resto è paccottiglia») o tutt’al più bisognerebbe spendere qualche frase ancora per un intervento proveniente dall’estero, quello di Marise Jeuland-Meynoud con il suo poderoso ma utile La ville de Naples apres l’annexion, se non arrivasse ora il pregevole contributo di uno studioso salernitano, il professor Antonio Di Filippo, il quale con passione e costanza (entrambe degne di cause migliori), s’è addentrato nel «pianeta Mastriani» e senza spaventarsi per le difficoltà che vi incontrava non solo al suo interno ma anche nei suoi dintorni (leggi biblioteche inaccessibili, giornali introvabili ed altre delizie del genere) ha percorso sentieri e strade principali, anzi proprio nei sentieri è stato più abile, arrivando là dove altri non erano arrivati, cioè a un censimento pressoché completo dell’opera giornalistica di Francesco Mastriani e una genesi attendibile e precisa dei suoi romanzi, persino con le opportune e necessarie concordanze tra materia giornalistica e materia narrativa. Il volume di Di Filippo, intitolato Lo scacco e la ragione. Gruppi intellettuali, giornali e romanzi nella Napoli dell’800. Mastriani (234 pagine, editore Milella) non è nato casualmente e la sua gestazione può risalire a una decina d’anni, tenendo presente che l’autore già nel 1982 aveva dato comunicazione dei suoi studi mastrianei in un convegno sulla letteratura meridionale; come tale diventa strumento di consultazione e, al tempo stesso, una breccia attraverso la quale altri «esploratori» potranno passare. Ora non solo sappiamo che l’autore de I vermi e dei Misteri di Napoli scrisse nelle pagine di testate autorevoli quali «L’Omnibus» il «Roma» il «Lume a gas» «Il Pungolo» «L’Occhialetto» il «Giornale di Napoli» o in quelle meno autorevoli di testate effimere come il «Salvator Rosa» «La Formica» «La Rondinella» «Il Sibilo» «Il lumino» «La toletta», ma che qualcuno quei giornali li è andati a sfogliare e quagli articoli ha letto e giudicato. Di Filippo elenca cronologicamente, fornisce titoli, percorrendo un tragitto lungo 53 anni, che comincia nel 1838 (il Mastriani aveva 19 anni) con i primi due articoli apparsi sul «Salvator Rosa» e prosegue , con un crescendo impressionante, negli anni seguenti (un esempio: nel solo 1847 il Mastriani pubblicò 93 articoli) fino al 1891, anno della scomparsa, durante il quale il romanziere aveva pubblicato il romanzo n. 106 I delitti dell’eredità (sul «Roma in 52 puntate), il romanzo n. 107 La nonna (sul «Roma» in 26 puntate) e aveva in corso il romanzo n. 108 Una passione fatale (di cui apparvero sul «Roma», 40 puntate).[4]
Il libro di Antonio Di Filippo ha il merito di fornire il primo, vero studio sistematico su Francesco Mastriani, e bisogna esser grati allo studioso salernitano per aver riaperto il discorso sul romanziere-giornalista, protagonista di un singolare destino: per cinquant’anni ignorato o trascurato da una critica che intingeva le penne negli inchiostri dell’aristocraticismo culturale e per altri cinquant’anni vittima di una editoria-pirata che, libera da qualsiasi vincolo di diritto d’autore, ha tartassato le sue opere riproducendole in edizioni scorrette, realizzate pedestremente, talvolta persino «censurate» ignobilmente. Il «povero Mastriani» (povero in tutti i sensi) ci ha lasciato mille e mille pagine, buone e cattive, noi avremmo dovuto selezionarle, decifrarle, collocarle. Non averlo ancora fatto è colpa grave.
GIANNI INFUSINO
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[1] MATILDE SERAO, su un articolo scritto sul giornale Il Corriere di Napoli, dell’8 gennaio 1891.
[2] Una passione fatale, non è stato l’ultimo romanzo di Francesco Mastriani; intanto non è da considerare incompiuto in quanto venne pubblicato per intero, sulle appendici del Roma, in 54 dispense, dal 31 maggio al 26 luglio 1891. Non può essere considerato l’ultimo romanzo scritto da Francesco Mastriani in quanto è un altro titolo dato al romanzo La maledetta, che venne pubblicato nel 1883, a Napoli, dall’editore Gennaro Salvati (nota di Rosario Mastriani).
[3] La Medea di Porta Medina e non La Medusa di Porta Medina (nota di Rosario Mastriani).
[4] Torno a ripetere che di Una passione fatale (altro titolo La maledetta) fu completata la pubblicazione sul Roma. L’appendice n.41 del 12 luglio, passa dalla prima alla quarta pagina del giornale (nota di Rosario Mastriani).
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GIANNI INFUSINO, recentemente scomparso, è stato scrittore e giornalista de «Il Mattino». Tra i suoi lavori: Alessandro Dumas giornalista a Napoli (1972); I Mosconi di Matilde Serao (1974). Ha curato due edizioni (1973 e 1983) de Il ventre di Napoli della Serao e una riedizione de La miseria in Napoli di Jessie White Mario (1976). Ha fondato e diretto per sei anni la rivista culturale «Quarto Potere».