Lo scrittore firmò più di cento romanzi ma oggi è ingiustamente dimenticato.
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Francesco Mastriani, in vita, dal 1848, anno della sua prima pubblicazione, al 1891, anno della sua morte, ha pubblicato più di cento romanzi, un numero davvero assurdo ed esagerato.
Matilde Serao, in un articolo apparso il 7 gennaio del 1891 sul Corriere di Napoli, all’indomani della morte, sosteneva che la qualità che più faceva amare Mastriani dal suo pubblico fosse l’emozione «che tanti artisti, di lui cento volte migliori, non possiedono». Mastriani, dunque, ha scritto moltissimo, forse perché così desiderava e sicuramente per salvarsi dalla povertà, senza riuscirci, con «l’intima straziante pena di chi deve guadagnare, ogni giorno, quelle tre o quattro lire che gli davano», continuava la Serao in quello stesso articolo. Infatti, forse vittima di una jettatura lunga tutta un’esistenza e più, eventualità alla quale Mastriani credeva ciecamente, cambiò trenta case, fino all’ultima, quella dove morì, al numero 29 di Penninata San Gennaro dei poveri, e inoltre lavorò come guida per i turisti che giungevano a Napoli.
Il punto, che sfugge ad ogni logica, e che mi offende, moltissimo, è questo: come è possibile che di Mastriani, oggi, nonostante tutto, nonostante la povertà, nonostante la sua grande fama all’epoca, non sia rimasto nulla? Com’è possibile che uno scrittore tanto singolare, che si pone alla base della letteratura italiana, tra i suoi pilastri, venga di fatto non trattato, non ricordato, non menzionato? Perché se venissero pubblicati oggi i suoi romanzi, penso, io, suo lettore del 2021, e non centosettanta anni fa, come Il mio cadavere, dato alle stampe nel 1851, quei romanzi, senza cambiar nulla, nemmeno una virgola, sarebbero anche oggi assolutamente rilevanti.
Certo è che Francesco Mastriani, oggi, non solo è fuori dai libri di scuola, ma anche dalle librerie.
Poche e in modo disordinato, senza alcuna progettualità, sono le sue opere che vengono ancora ripubblicate, e Il mio cadavere, ad esempio, un noir magico dove la vittima e il carnefice sono la bontà umana, e che inchioda il lettore al suo destino di voltar sempre pagina, è uscito non troppo tempo fa in un’edizione che ne modifica e attualizza la prosa; quindi, un vero e proprio affronto! Ovviamente, nemmeno «curare» la lingua di Mastriani è servito per fargli luce e tutto questo è assurdo.
Perché già il solo Il mio cadavere, ripubblicato, davvero, per l’ultima volta nel 1976, dall’Attività Bibliografica Editoriale di Napoli, e scritto nel 1851, cioè ventiquattro anni dopo la prima edizione de I promessi sposi, e quarantatré anni prima de I Viceré, quindici anni prima di Delitto e castigo, di cui sembra il padre, e otto anni dopo Un canto di Natale di Dickens, basterebbe a far considerare Francesco Mastriani un grandissimo romanziere. Perché Il mio cadavere, che comincia dalla casa dello stradiere Giacomo Fritzhein, napoletano ma di origini svizzere, situata «a ridosso del Real Albergo de’ Poveri e di S. Maria degli angeli alle Croci», e cioè vicinissimo a dove oggi c’è Vico Francesco Mastriani, la strada intitolatagli, è un romanzo bellissimo, facile da leggere, nonostante gli anni trascorsi, e difficile da scrivere, rinunciando ai dialettismi e dotando tutti i protagonisti della vicenda di un’evoluzione brusca e rischiosa.
Il mio cadavere è un romanzo corale, autenticamente sociale, edificante, con una trama fittissima e con l’azione che si sposta, in un attimo, da Napoli per arrivare in Spagna, in Germania, in America e a Cuba, e ha un protagonista, sì, in Daniele Fritzhein, figlio trovatello dello stradiere, ma a guardarlo dall’ultima pagina non si è più certi di questo. Infatti, in un numero elevato di personaggi, elevato è il numero di quelli che Mastriani caratterizza fino agli anfratti della loro persona, e di cui disegna una traiettoria, quasi mai dritta.
Daniele Fritzhein, dunque, o Daniele de’ Rimini, come preferisce farsi chiamare per nascondere al mondo della «Napoli bene» le sue poverissime origini, ha un enorme talento per la musica e una rendita misteriosa, che accetta e non dice nulla. Daniele vive con i figli dello stradiere, cresce con loro e tra questi c’è Lucia, che ama totalmente Daniele, il quale «non le corrispose per amore, ma per compiacenza di sé medesimo, per talento di tiranneggiare una creatura a lui sottoposta, per desiderio di dominio», mentre, invece, ama Emma, figlia del Duca di Gonzalvo. Daniele crede che l’ostacolo alla loro unione sia la ricchezza che non possiede e allora decide di diventare ricco, ad ogni costo, anche quello di vegliare un cadavere, in cambio dell’eredità, per nove mesi, il tempo necessario per esser certi di scongiurare la morte apparente di cui il Baronetto Edmondo Isacco Brighton, Conte di Sierra Blonda, personaggio incredibile, ha paura. Daniele insegue la ricchezza e quella cosa che non conosce e che crede ne derivi necessariamente dalla ricchezza che non possiede: la felicità, non sapendo che la felicità è «l’ombra dell’uomo sulla terra; essa è sempre indietro o innanzi a lui!».
E questa è meno di un decimo della trama che compone, in realtà, Il mio cadavere, romanzo che parla di vicende rocambolesche, ma che come tutti i veri romanzi parla solo e soltanto della natura umana, di cosa sono fatte le persone e chi materia sono composti i loro sogni.
Mi rendo conto che davanti a chi vorrebbe leggere questo romanzo sembra spiegarsi uno di quei sentieri di campagna che fanno mille giri e poi non portano a nulla, ma così non è. Dove non arrivano l’editoria e le istituzioni arrivano l’amore di chi è questa città e lo è tutti i giorni, qualsiasi cosa significhi e costi. Il mio consiglio è di non ricordarci dei librai e della buona editoria napoletana quando anticipa e poi vince un Nobel, ma di «viverla» sempre, e quindi di entrare in una delle tante piccole librerie che affollano il centro della città, oppure di recarvi a Port’Alba, perché «giù Napoli» c’è molto altro oltre gli spritz, e lì, in queste botteghe che sono il nostro archivio, la nostra memoria collettiva, troverete senz’altro il vostro personale romanzo di Francesco Mastriani. E così, in questo modo, forse, metteremo fine a una jettatura che dura da un’esistenza e più, e riusciremo anche a far giustizia. Perché «la società venera l’ingegno, lo ammira; ma lo lascia perir di fame. L’ignoranza spesso accompagna le ricchezze; gli onori del mondo sono spesso il corredo del vizio, e la virtù si trova anche più sovente sotto i cenci».
Oggi 6 gennaio fanno centotrent’anni che Francesco Mastriani è morto.
ALESSIO FORGIONE