La vasta produzione letteraria di Francesco Mastriani è popolata di personaggi “di ogni tipo ed ogni sorta, di poveri straccioni e di grandi signori”, per dirla con il grande De Andrè, ed attraverso questa sconfinata galleria di umanità emerge il ventre della città partenopea dalle caratteristiche fortemente contrapposte, che ancor oggi sussistono nella nostra multiforme Napoli.
In particolare il mondo femminile ha da sempre avuto nella rappresentazione di Parthenope malcelate ambivalenze e palesi contraddizioni che Mastriani esalta nelle sue innumerevoli narrazioni di donne che questo mondo rappresentano in modo nitido e senza veli.
Francesco Mastriani pubblicò la sua prima poesia a soli sedici anni, nel 1836, ed era dedicata ad una donna: sua madre. Una poesia dolorosissima, perché scritta in occasione della sua morte improvvisa, a soli 60 anni, a causa del colera. Già qui, pur nell’ingenuità di stile di uno scrittore ancora in erba, troviamo alcuni temi riguardanti le figure femminili che lo accompagneranno in tutta la sua produzione letteraria, che fu davvero sterminata: circa novecento lavori tra romanzi, racconti, novelle, poesie, articoli, drammi e commedie. Temi come la virtù, l’amore per la famiglia, la sopportazione degli affanni della vita, sono ricorrenti nei suoi personaggi femminili positivi. Ma anche, e questo è più interessante, in quelli negativi.
Prendiamo ad esempio, le due figure femminili, tra le più famose e popolari: Beatrice, la cieca di Sorrento, e Coletta, la Medea di Porta Medina. La prima è rimasta nell’immaginario collettivo quasi come un simbolo della giovane donna dai sentimenti delicati e limpidi, sfortunata, ma anche ostaggio e vittima della crudeltà e della violenza di un mondo maschile spinto al crimine dalla necessità materiale e dall’avidità. Beatrice è buona, mite, dolce e finisce per ammalarsi e morire perché non riesce a sostenere l’orrore della violenza che alberga nell’animo umano e con cui, senza colpa, viene in contatto. Coletta, al contrario, è dura e determinata, ma non cattiva. Tuttavia finisce per trasformarsi in un demonio scatenato capace del più efferato dei delitti. Il perché Mastriani ce lo mostra chiaramente.
Coletta Esposito è abbandonata neonata e arriva attraverso la ruota dell’Annunziata, come tutti i trovatelli. Là, crescendo, le ragazze erano destinate o a diventare monache o a prendere marito, anzi a essere prese da un marito, secondo un’usanza antica che Mastriani descrive nel dettaglio. Le giovani venivano radunate nel cortile della Casa e presentate al pubblico, cioè agli scapoli che per sfizio o perché avevano fatto il voto di prendersi un’orfana (per espiare qualche grosso peccato, quindi, dato che una cosa del genere era vista come una sorte di fioretto a vita), avevano intenzione di chiederne qualcuna in sposa. Gli scapoli, naturalmente, sceglievano quelle che più gli piacevano, e lo facevano lanciando un fazzoletto alla ragazza. Un mercato di esseri umani, di donne in particolare, come se ne sono visti tanti e come purtroppo ancora si vedono. Avevano scelta le ragazze? Solo apparentemente: se rifiutavano venivano spedite all’Albergo dei Poveri, al serraglio, dove non avrebbero certo trovato un bel vivere.
Coletta non rifiuta e sposa un vecchio usuraio, il tizio che l’ha scelto. Ma lo fa solo per scappare, per sfuggire alla schiavitù, dentro e fuori l’Annunziata. Infatti lo abbandona subito per correre tra le braccia del suo amore, Cipriano Barca, che viene coinvolto dalla passione amorosa totalizzante ed estrema della ragazza. Lui, e l’amore che lei prova, rappresentano l’unica possibilità di dignità per Coletta. L’unica cosa che dimostra che anche lei è un essere umano e può scegliere. Lei, che non è mai stata amata, ha un’inestinguibile fame d’amore, una fame feroce. E quando Cipriano si innamora di una ragazza di buona famiglia e la sposa, Coletta compie il delitto più antico è più esecrabile, quello di Medea: uccide la figlioletta di pochi mesi che aveva avuto da Cipriano e porta il piccolo cadavere sull’altare dove si sta celebrando il matrimonio. Coletta è sola, diversa e destinata all’emarginazione. Anche lei sopporta e subisce, come i personaggi positivi, solo che a un certo punto si ribella.
Non ha le sfaccettature psicologiche e storiche della Medea di Euripide, ciò nondimeno è una grande figura tragica, il cui destino è inscritto nella parabola della donna poverissima e abbandonata, che cerca il proprio riscatto nell’amore. Coletta non può essere madre, perché non avendone avuta una, non conosce letteralmente il senso di questa parola. E non vuole semplicemente uccidere colui che la ha ferita, negandole l’amore che le sembrava di aver finalmente trovato, vuole farlo sanguinare a vita.
Mastriani ne narra la vicenda senza indagare le motivazioni psicologiche, senza indugiare in spiegazioni, come un autentico verista. Coletta rinuncia a un marito, che le garantisce non solo uno status, ma la sopravvivenza, per rincorrere un’illusione d’amore, senza il quale, come tanti personaggi femminili di Mastriani, si ritrova anche completamente priva di mezzi. Quando Coletta uccide la figlia uccide in realtà sé stessa: non vuole vivere più, senza riscatto la vita è niente. Servire, prostituirsi, degradarsi per sopravvivere, questo sarebbe stato il destino suo e della figlia e lei lo rifiuta. Un quadro che ritroviamo nel molto più moderno “Amatissima” di Toni Morrison, Nobel 1993 per la letteratura.
Quale fosse la condizione delle donne povere a Napoli nell’800 (ma solo a Napoli nell’800?) Mastriani lo spiega molto bene nelle sue opere, tanto che possiamo certamente accreditare la sua scrittura del ruolo di denuncia sociale. Ne “I Vermi”, ad esempio, il primo romanzo della cosiddetta “trilogia socialista”, troviamo all’inizio del secondo volume:
“ La mercede del lavoro femminile fu in ogni tempo molto mal proporzionata, esigua, insufficiente alla vita, avvilente, immorale, e diciamo immorale, giacchè è dessa per lo più la principal cagione della caduta della donna. Se l’uomo commette un fallo, s’egli ruba o pitocca la limosina, la società può dirgli: Perché non lavori? Ma ha essa il diritto di rivolgere lo stesso rimprovero alla donna? Quando una donna ha lavorato dodici ore al giorno di està e dieci ore al giorno d’inverno, e non ha guadagnato altro che sette grane e mezzo, di està, e cinque grana, d’inverno, è forse sua colpa s’ella non trova il dippiù bisognevole che nelle illecite transizioni coll’onestà? Guardate quella povera orfanella che, fedele agl’istinti del pudore, curva la schiena su la macchinetta, distrugge il suo stomaco e fiacca i suoi nervi coll’incessante e monotono movimento del braccio: quell’orfanella, dopo aver così faticosamente lavorato per dodici ore, non avrà la sera per ristorar le sue forze che una magra zuppa di tre grana e un grano di pane; mentre gli altri pochi tornesi ella poneli in serbo per comprarsi il corpo d’un cencio, comprato per lo più a pagamento settimanale con grandissime usure.”
Già in questo passo l’autore punta il dito sulla paga “mal proporzionata” delle donne. E se pensiamo che ancora oggi esistono differenze salariali che sembrano irriducibili, o le famose “dimissioni in bianco” che rendono possibile il licenziamento della donna se incinta, sappiamo che Mastriani mette in evidenza uno degli elementi più importanti della disparità di genere, tuttora non risolta. Ma sarà ne “Le Ombre”, il secondo romanzo della trilogia, che Mastriani approfondirà il tema dello sfruttamento femminile attraverso la difficile e sfortunata vita della sua protagonista Marcellina Damiani, nata orfana per le complicanze del parto.
Un’attenta analisi della storia di Marcellina la troviamo nella tesi “Il romanzo gotico di Francesco Mastriani” di Patrizia Bottoni (Toronto, 2012), che nel riportare i fatti narrati mette a nudo il tragico contesto in cui si svolge la vita di questa dolce e pura fanciulla. Marcellina dopo la sua nascita era stata trasferita in un orfanotrofio, [1] al quale si allontana a seguito dell’adozione di Tommaso e Francesca, due poveri artigiani che ben presto l’avviano allo sfruttamento del lavoro minorile. Già la storia di sua madre è stata narrata dall’autore in modo realisticamente drammatico, ma quella di Marcellina si rivela ancora più crudele.
Dopo l’adozione non vi è serenità per Marcellina che cresce in un clima litigioso e violento che culmina nel femminicidio di Francesca ad opera di Tommaso. Venduta ad una vecchia megera lavora al filatoio e viene legata giorni interi alla ruota, sotto il sole, senza cibo né acqua. La perfida padrona vive insieme ad altri individui ripugnanti nella grotta degli Spagari, dove la dolce Marcellina subisce inaudite violenze senza mai perdere il candore e la semplicità che fu anche della madre. così descrive Mastriani la situazione:
“Le tenebrose luride grotte scavate nel monte di Santa Lucia erano dette le Grotte degli Spagari dappoichè gli abitatori o meglio le abitatrici di queste caverne vi esercitavano il mestiero di torcere lo spago dalla canapa. Quelli che non conoscono le condizioni del lavoro donnesco nella nostra città non si possono formare una idea della miseria di certi mestieri. È d’uopo che le infelici spagare lavorino diciotto ore al giorno per arrivare a torcere cinquanta matasse di spago e lucrare quindici grana, dalle quali bisogna detrarre sette grana di spesa in guisa che non restano che otto grana di guadagno per diciotto ore di lavoro.”
Marcellina passa, poi, sotto la custodia di una monaca che la costringe a vestirsi da suora e a torturarsi col cilicio. Stanca delle perverse pratiche della monaca, Marcellina scappa ancora una volta e si ritrova in una casa di malaffare e poi in casa di una spietata baronessa con due figlie.
Mastriani ci offre lo spaccato di una realtà dolorosa, triste e violenta che si contrappone alla bellezza e all’innocenza di Marcellina, che pur avendo trovato ospitalità presso la nobildonna Eleonora Munez, è costretta a scappare e a trovare rifugio in un lavoro procuratelo dalla prostituta Maddalena che vuole sollevarla dalla sorte che toccava alle belle ragazze povere. Tuttavia, nel lavoro cerca la dignità e pensa di aver trovato l’amore. Ma il suo Mariano è un giovane rissoso con il vizio delle donne e del vino; inoltre si trova coinvolto in una vicenda di malaffare legata alla camorra, e si rende protagonista, sebbene per legittima difesa, all’uccisione di un uomo.
Rimasta incinta, Marcellina dà alla luce una bambina, Marietta, costretta a condividere con la mamma la povertà e la fame. Marcellina non riesce a provvedere il cibo per la figlia e medita di darsi alla prostituzione, ma resiste a questo infame pensiero.
Ed ecco che in queste pagine dedicate alle vicende di Marcellina, Mastriani coglie l’occasione per dipingere la condizione dei diseredati della città partenopea di ogni tempo per i quali la giustizia non c’è. Francesco Mastriani pone attenzione al problema dello sfruttamento del lavoro femminile in modo deciso, fotografando la realtà dell’epoca in modo significativamente analitico.
Nel narrare la storia della vita di questa donna e delle umiliazioni che è costretta a subire, possiamo ricostruire quale fosse la condizione femminile nell’800. È importante sottolineare come l’autore faccia emergere che la donna non possa in alcun modo avere una vita autonoma, indipendente o minimamente gratificante da vivere senza alcun sostegno o peggio ancora senza la benevolenza o la generosità di qualcuno.
Questa sensibilità che raramente riscontriamo negli autori suoi contemporanei, ci fa scoprire un altro aspetto di questo multiforme scrittore, felice descrittore della condizione popolare, della miseria mentale e corporale, attento a tutti gli aspetti della società ottocentesca, precursore di generi letterari, soprattutto aperto ad affrontare i problemi ancora oggi non risolti.
“Lavoro e miseria”, sottotitolo de “Le Ombre”, accompagnano la vita di Marcellina, una donna coraggiosa che ha provato in ogni modo a sfidare coraggiosamente un mondo ostile e ingiusto.
La condizione di Marcellina è doppiamente svantaggiata: è diseredata ed è anche donna; ecco perché la sua strada è lastricata di maggiori difficoltà.
Mastriani guarda a lei con ammirazione per la forza con cui non si piega alla sorte e rinasce dalle disgrazie. Non è certo presentata come una eroina, ma come vittima coraggiosa. Tale coraggio alla lunga la premia: dopo altre numerose vicende un contadino la salva dalle acque del fiume Sarno dove era stata spinta da una compagna di filanda per vendetta e viene accolta e curata dal suo salvatore Domenico e dalla moglie Carlotta fino al lieto fine della scarcerazione di Mariano e al ricongiungimento al suo amore con un finale un po’fiabesco e il dono di una benefattrice che le consente di festeggiare le agognate nozze.
Altro personaggio femminile “tipico”, che troviamo in tanti romanzi dell’800, e che Mastriani coniuga alla sua maniera è la ragazza costretta a monacarsi. È il caso di Cecilia, ne “I misteri di Napoli”. Nobile di nascita, sorella e figlia di uomini avari e infami, viene allevata nell’indifferenza, circondata dall’astio, perché “inutile” e, peggio, destinataria dell’eredità materna a meno che non si fosse fatta suora. Questa è la ragione che spinge la sua famiglia a costringerla a prendere i voti. In questo Cecilia è più simile a Geltrude, la monaca di Monza, che a Maria, di “Storia di una capinera” di Verga. Si tratta, cioè, di una famiglia che vuole conservare il suo patrimonio, laddove Maria è destinata al convento dalla povertà.
Nella storia di Cecilia quello che forse è più rilevante è l’evidenza data dalla crudeltà delle altre monache nei confronti della loro simile. Una crudeltà molto ben descritta e spiegata, causata dall’invidia. Quasi che l’essere vittime porti a infierire su quella vittima che riesce a ribellarsi o a trovare un sia pur piccolo spazio di libertà. Tale è la rabbia causata dalla negazione della vita. Come in Coletta, la donna a cui viene regata la vita reagisce con ferocia. Da qui la badessa, le monache guardiane, le carceriere, e la peggiore, la finta amica suor Patrizia che la tradirà e sarà l’artefice della sua morte.
Morte che avviene dopo una “punizione” esemplare e simbolica: Cecilia viene condotta in un sotterraneo completamente buio. Sepolta viva, come sono le suore di clausura nell’immaginario collettivo. Come fu per suor Virginia, il personaggio storico cui Manzoni si ispirò per Geltrude, e per Geltrude, “murate vive” in una cella piccolissima.
L’accento che Mastriani pone sul ruolo negativo di altre donne, a loro volta monache per forza, è significativo e degno di approfondimento. Quante volte si attribuisce l’invidia all’universo femminile come se fosse quasi un dato di genere, che è così per “natura”. Il nostro autore, invece, ne fa un’analisi attuale: l’invidia nasce in chi soffre la privazione del bene e della libertà, per responsabilità sociali.
In definitiva, sia pure nel quadro di una produzione letteraria ottocentesca, in cui l’autore delinea una grande quantità di personaggi femminili fondamentalmente fedeli agli stereotipi dell’epoca, ci troviamo spesso di fronte a dettagli o angolazioni di assoluto interesse anche per le lettrici e i lettori del giorno d’oggi.
Del resto è ne “I misteri di Napoli” che troviamo le seguenti parole:
“Al momento che ebbe veduta la figliuola di Cecatiello, Pilato se ne invaghì. Invaghirsi di qualcuno o di qualcuna significava per Pilato esser preso dal prepotente desiderio di strozzarla. Invaghirsi significava per lui l’odio spinto fino alle proporzioni della follia. A tal modo il gatto s’invaghisce del sorcio, il ragno della mosca, il serpe della colomba.”
Una terribile descrizione di quello che ancora oggi tanti continuano a definire “amore” e che porta alla violenza sulle donne e al femminicidio.
ANNAMARIA FRANZONI / MARA FORTUNA
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[1] Nel presente lavoro, ci sono descritte diverse inesattezze sulla vita di Marcellina Damiani (nota di Rosario Mastriani).