Napoli, 10 Novembre 1866.
La villeggiatura è in agonia. L’està di S. Martino, come vengono domandate nel nostro paese le ultime belle giornate dell’autunno, finisce appunto questa mattina, e noi rivedremo ben presto il fior fiore della roba femminile che Portici, il Vomero, Posillipo e Capodimonte ci rapiscono ogni anno per due o tre mesi. I nostri salotti languiscono. O belle Partenopee, che pigliaste il volo pe’campi, affrettatevi a ritornare da noi; che, se non fosse stato pel colera che ci ha dato qualche commozione, ci saremmo seccati mortalmente in questi due mesi di settembre ed ottobre. Le periodiche vi aspettano, o damine colla coda e col codino; abbandonate ormai gli arcadici amori all’ombra de’platani e de’faggi, sub tegmine faggi, come dice quel Virgilio tanto imprecato dagli scolari; e venite a beare di vostra luce amorosa i vostri antichi e nuovi adoratori.
Quest’anno ci vogliamo proprio divertire a crepapancia. Non avendo serie occupazioni pel capo, vogliamo soltanto pensare a darci bel tempo. Che diascine! Non abbiamo più che soffrire, e ci siamo propriamente ristucchi di sentire ancora parlare di guai. È un vero miracolo che la pelle ci sta ancora incollata su le ossa. E si che oramai vogliamo respirare un tantinello, anco a dispetto della carta bollata che seguita a perseguitarci, e de’padroni di casa che non cessano mai di succhiare il sangue dalle nostre vene.
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Napoli 29 Settembre 1867
Il calore, ch’è stato surrogato improvvisamente da un capriccio d’inverno, e il colèra, due flagelli che ci hanno travagliato ostinatamente, e di cui non saprei a chi dare la mano dritta, come suolsi dire, hanno rotto le gambe alla villeggiatura del così detto autunno, se non è la più grossolana canzonatura il chiamare autunno una estate ferocissima come questa che ci ha consumati fino al midollo delle ossa.
Pare dunque che in questo anno non ci sarà villeggiatura, perché la bella stagione ne farà delle belle, secondo il solito.
Povera villeggiatura! Quante belle promesse non facevi all’allegra gioventù!
Per dirla in istil volgare e prosaico, la villeggiatura sarà pure un rimembranza pel nostro paese, come tante e tante cose, di cui di buon grado od a mala voglia abbiamo dovuto svezzarci.
Signori miei, ditemi che ho gusti barbari; ma io non posso non ridere in veggendo a che si riducono codesti piaceri della villeggiatura, secondo lo spirito della moda. Visite importune da mattina a sera; un paio di stivali stretti al piede per tutta la giornata e per tutta la serata (supplizio inaudito a cui la civiltà ha avvezzo i suoi teneri figliuoli); cader dall’asino cinque o sei volte a gran rischio di rimanerne storpio per tutta la vita; inciampare in qualche amoretto che vi toglierà quel poco di libertà che vi eravate promesso di godere in campagna; essere costretto a sciuparvi gli abiti tra i cardi e gli spineti; essere condannato al martirio delle accademie di flauto, di corno, di violino e violoncello, delle mattinate musicali, delle suonatine, de’canti e di altri somiglianti indicibili vessazioni; aver sempre la borsa in mano per pagare molto care le seccature e i tormenti che vi piovano addosso. Ecco la villeggiatura alla moda.
Per me, se il duro mestiere di zappatore… del cervello mi desse i mezzi e il tempo di villeggiare, me ne andrei nella più selvaggia campagna a trenta miglia in distanza dalla città, dove non ci fosse pericolo di rivedere le solite facce de’così detti amici che Byron chiama ladri del tempo, e di sentire i soliti noiosi discorsi di letteratura, di poesia, di arti e di tutte quelle cose che formano la mia quotidiana tortura. Soprattutto, a due miglia in distanza dalla mia capanna farei piantare di lunghi pali su cui farei scrivere a lettere cubitali: È vietato d’inoltrarsi a’ seccatori di ogni sorta. Una iscrizione somigliante a questa farei porre a più breve distanza per vietare il passaggio ad ogni specie di professore, sia medico, sia avvocato, sia notaio, sia architetto. Io non voglio aver che fare con questa roba, che si attacca alle piaghe a somiglianza di vermini.
Nel mio solitario ricetto non crediate pertanto ch’io volessi vivere come un misantropo, anzi, mio intendimento sarebbe quello di circondarmi di veri uomini, di campagnuoli semplici e dabbene, di far tesoro de’loro discorsi, studiarne le massime, l’esperienza e imparare in ispecialità da loro il modo di vivere il men travagliatamente questa nostra brevissima vita.
Vorrei starmene un mese o due senza veder libri, senza toccar penne, tranne quelle dei vivi tacchini del pollaio, senza essere costretto a gittare sulla carta a brani il mio cervello, senza sentir parlare di Petrarca, di Schlegel, di Fitche e di altri cotali seccatori morti e vivi. Vorrei dimenticar di pensare, se fosse possibile, attenendomi al gran paradosso di Rousseau che l’uomo che pensa è un essere degenerato.
Vorrei vestire così alla buona senza il ridicolo cilindro in testa, senza stivaletti torturanti, senza incomoda cravatta… Un par di brache alla zuava, una giacca di panno grossolano, un paio di stivali comodi e larghi, ed un berretto in testa; ecco il vestito che mi converrebbe. Non porterei meco né soprabiti, né corpetti, né giubbe, né nessuna di queste meschinità che ci colpiscono continuamente gli occhi e c’impiccioliscono lo spirito.
Invece di contemplare tante maschere inette che si aggirano di continuo ne’salotti della città, ammirerei lo stupendo spettacolo del sorgere del sole, delle valli profonde, dei colli ridenti e delle ingenue contadine senza mazzocchi e senza crinolini.
Farei, la mattina, lunghe passeggiate attraverso i campi, in compagnia del mio sigaro. Libero, sciolto, senza impacci, senza pensieri, senza vessazioni, senza piccolezze, senza vanità, senza adulazioni, senza bugie, senza ipocrisia, senza piccole miserie d’ogni maniera, io godrei veramente della mia persona, del mio spirito, dei miei sensi, di tutto il me stesso, che in società è sempre schiavo degli altri. Ritiratomi al casino con una fame divoratrice, mangerei un gran piatto di fagioli con agli, e berrei un bicchiero di vino non imposturato, come tutto ciò che si spaccia nella città.
Dopo il desinare, accesa la mia pipa, torrei meco la matita e un cartoncino, e prenderei vaghezza a ritrarre i siti più pittoreschi che richiamino alla mente pensieri innocenti e cari. Sceglierei di preferenza a ritrarre una valletta in fondo alla quale un asinello ritrovi la libertà della sua schiena, uno stagnetto ombreggiato di canneti e di semprevive con un molino a vicinanza, un presepe dove folleggino le capre sbandate, in progetto ricoperto di pini, ed altre cotali scene semplici e pastorali.
Allo scoccar dell’avemmaria, abbandonerei la mia creta in sulle morbide piume, per esser desto la dimane in sul primo albeggiare.
Questa sarebbe per me la vera villeggiatura, quella che non morrebbe tisica per noia, per fastidii, per seccature. Ma fintanto che la nostra colta società trasporterà ne’campi i politici, i letterati, i poeti, gli economisti, e, soprattutto, il pianoforte e il crinolino, essa maledirà i casini, e si affretterà a tornare in grembo alla città, dove almeno si risparmiano i pranzi a quegli assassini che si domandano amici.
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Napoli 27 Ottobre 1867
Come lor signori sanno, la villeggiatura sta spirando tra li sbadigli, siccome è vivuta. Se togli i villeggianti ostinati, quelli che sono tenaci a celebrare, per loro particolari ragioni, in campagna il giorno di S. Martino, la più parte della crema si apparecchia a tornarsene in città.
Ed eccoci tra breve assaliti dalla solita epidemia che si sviluppa nel nostro paese in sul cominciare di novembre e dura per altri tre mesi all’incirca. Non valgono rimedii di ogni natura a difendercene; bisogna cambiar cielo addirittura, e andarsene molto lungi, o, per dir meglio, ci converrebbe trovarci in alto mare, al 77° grado di latitudine settentrionale (dove salirono i vascelli per la spedizione alla ricerca di John Franklin), per isfuggire alla peste che invade mezza Europa, e più particolarmente questa nostra Napoli.
Gli scienziati son tutti attorno alla quistione di sapere se il male sia contagioso o epidemico. Per me, dico che riunisce ambo queste qualità.
Spero che i miei lettori avranno capito di che male intendo parlare: egli è appunto la STRENNOMANIA, specie d’idrofobia con parossismi annuali, con farnetichi, vaniloqui ed isterirmi.
Dio cansi ogni fedel cristiano dalla strennomania. Se questo male gli si appiccica addosso, è bello e fritto, lui e la sua famiglia, i suoi discendenti per sino alla terza generazione. Il male si annunzia sul bel principio con un prurito di far versi, con una certa velleità alle punte delle dita… per contare le sillabe, con una smania nervosa, con copiosi sudori fuori stagione, con lo smarrimento dello sguardo. Gli ammalati camminano stralunati e danno di gomito nei fianchi a’ passeggieri, vi calpestano i piedi, vi danno il bastone o l’ombrello negli occhi.
Una volta, in illo tempore, sotto il governo di Delcarretto, di Cocle e di Monsignore Apuzzo, le strenne si componevano di prose e di versi; ma oggi la prosa è troppo volgare, troppo prosaica, e a mala pena si tollera nei giornali. Chi è che non sa scrivere due righe di prosa? Se prendete i bimbi lattanti, vi schiccherano articoli da digradarne Gaspero Gozzi e Giordani. Non è più tempo di prosa; oggidì si legge appena la poesia all’Aleardi; dev’essere poesia filosofica, scientifica, istorica, poesia che non si comprende neppure da quelli che la scrivono, e che tanto è più pregevole quanto han meno di senso comune; ovvero poesia nuvolosa, enimmatica, alla Goethe, alla Schiller, alla Byron, alla Zorilla.
Il diavolo mi porti se non ci è da perdere quel poco di senno che la politica del ministero, la filosofia alemanna, i giornali francesi, i logogrifi imperiali e l’ostinazione del governo papale ci hanno lasciato. Possa io perder l’orecchio sinistro se non debbo rileggere quattro volte un verso per capirne più o meno il significato, quando sono tanto avventurato di capirlo.
Or dunque, strennifero oggi vuol dir poeta e che poeta! Ah! mi scordavo il meglio. La maggior parte di questi signori strenniferi pensano divertire il pubblico in occasione del Natale e del capodanno, raccontando tutti i guai loro veri o fattizii, mettendosi in mostra all’altrui compassione, come quei mendichi che fanno industrioso spettacolo delle loro luride e schifose piaghe.
Io vorrei sapere che scopo si hanno questi mille ed un poeta nel rompere le scatole alla gente con tanti malanni che espongono, sian pur veri o immaginarii. Chi si lagna di non esser compreso, come se fosse possibile comprendere un matto che parla un linguaggio mistico e tenebroso; chi si lamenta che la sua innamorata lo ha tradito, come se questa non fosse la più lieta ventura che possa accadere ad un galantuomo; chi si duole che le sue illusioni sono morte, dicendo la più madornale bugia, dappoichè gli è rimasta la peggiore di tutte le illusioni, quella di credere di acquistar gloria scrivendo poesie; chi mena alti lamenti per la morte del suo cane, mentre il pubblico sa che egli ha riso della morte del padre; chi piange miseria, ed avrà scritto il suo componimento poetico a Portici, dopo le delizie di un pranzo luculliano; chi si dispera che la sua giovinezza è passata, e non si avvede che diventa più asino presuntuoso a seconda che più si fa vecchio.
Posto ciò, aspettiamo con ansia qualcuna di queste raccolte di poesie!
FRANCESCO MASTRIANI