LA TRISTEZZA

   Vi ha nella vita de’momenti in cui l’animo sente il bisogno di contristarsi, in cui esaurito quel circolo limitato di usuali piaceri, essa non può trovare un godimento che nella tristezza. Que’tanti svariati piaceri, che la società mai sempre inventa, non hanno altro scopo che distrarla dalla noia, la quale è per essa un male spaventoso al pari dell’annientamento, ma questo male non lascerà di perseguitare l’efimera esistenza dell’uomo, fintantoché egli andrà in traccia del piacere nello stordimento di una folle allegria. Colui che crede di sfuggir la noia nelle festevoli e galanti conversazioni, è veramente degno di pietà; dappoichè egli è obbligato ad opprimer gli altri col peso della sua nullità, e, ad essere vicendevolmente oppresso dalla stucchevole oppressione di sempre uguali sollazzi, da motteggi le mille volte replicati, e dalla noia di quelle tanto officiose moine, che formano il subbietto di ogni conversazione. Quella insensata giovialità prodotta frivolezza non parte mica da verace godimento dell’anima; perché questa, in verun modo offuscando il puro lume della ragione, e comunicandosi come un magico silfo a tutti quelli che ne circondano, non lascia come quella un insoffribile malessere dopo di sé. L’anima non è al suo centro che nella soave tristezza; non già quella tetra e selvaggia figlia di gravi infortuni, o cagionata da tormentosi rimorsi, il cui solo falso raggio di speranza è il nulla della morte, o che ama di pascersi nelle tenebre della notte, e fra gli orrori delle tombe, non già quella disperata e funesta apatia in cui cade il cuor di un padre, o di una madre nel veder languire gli amati figliuoli nella miseria, divorati dalla fame, o da altra somigliante sventura oppressi; ma sibbene quella incantata, misteriosa tristezza che nasce nell’anima dall’innato amore del sublime e del bello; quel sacro dolore, che diffondono sul cuore la pagine de’salmi, o le teneri carte davidiche; quella tristezza a cui ne invita il racconto di qualche nobile azione, di qualche compassionevole avvenimento, quella dolcissima tristezza infine, di che inebbriamo la nostra anima, il patetico suono delle onde del mare, il mormorio delle vergini foreste, un gemito dell’aura nel silenzio della sera, quando si medita sulle ruine coverte di edera e di muschio, un raggio di luna che segna sul terreno la croce d’una selvaggia tomba. Avvi un’altra sorta di tristezza, necessaria all’anima, come la medicina al corpo infermo; ed è questa la tristezza del pentimento. Ah! chi mai non sentì una volta almeno in vita la necessità di questa tristezza! Chi è colui che può riposare indifferentemente con una coscienza immonda di mille colpe? Augusta figlia della religione, sublime tristezza del pentimento, tu sei sacra come la voce delle virtù, inviolabile come l’innocenza, soave come la speranza; è per te che l’uomo volge atterrito uno sguardo al passato, ed interroga gli anni scorsi nell’oblio della vita; è per te che si spunta l’acuto dente del rimorso, è per te che un raggio di calma penetra il cuore dell’uomo colpevole, e diffonde sulla sua anima quella beata tranquillità dell’innocenza, a cui sortilla il Creatore.

                                                                                            FRANCESCO MASTRIANI