Napoli ha perduto il suo romanziere. Francesco Mastriani era il romanziere Napolitano per eccellenza. In tutti i suoi centotrenta o centocinquanta romanzi, non parlò che di Napoli, dei Napoletani, del nostro popolo, dei nostri costumi, dei nostri fasti antichi e moderni. L’opera sua è stata una lunga, larga completa vivisezione della città nostra.
Soprattutto egli fu il romanziere del popolo napoletano. Nei Misteri di Napoli, nei Vermi, nelle Ombre, nei Lazzari e in cinquanta altri volumi, egli descrisse, fotografò l’ambiente e i tipi dei nostri bassi strati, narrando con semplicità ed efficacia, colorendo senza ricchezza di stile e d’immagini, fatti e persone.
Non una pagina sola dei suoi volumi mancava d’interessamento o non invitava a proseguire. Egli s’è lasciato leggere con avidità e passione financo quando, in quest’ultimi anni, i disagi, i mali fisici, la necessità di produrre copiosamente e frettolosamente lo rendevano trasandato, contorto, barcollante nelle più singolari stranezze della dizione, e dell’invenzione.
Lavorò infinitamente, affannosamente. Ebbe dell’operaio napoletano la lena paziente, l’infaticabilità che non si ribella alla fortuna avara, e che sopporta il mal ricompensato lavoro come una croce.
Sarebbe stato certamente una illustrazione della letteratura romantica italiana, se, invece di produrre pel pane quotidiano, avesse potuto lavorare con serena tranquillità di spirito, e pensare a studiare riposatamente le sue opere.
La sorte volle altrimenti, ma in mezzo alla zavorra della sua smisurata produzione, vi sono volumi che mettono assai in alto il suo nome e lo rendono degno dell’ossequio più profondo.
I romanzi, per esempio, che ho citati più su, rimangono come un modello importante ed autorevole di quadri naturalistici; ma altre come la Cieca di Sorrento e Federico Lennois sono dei bellissimi racconti di passione; altri come Il mio cadavere, Homunculus, Sotto altro cielo, e dieci, venti altri che ora mi sfuggono, o che lessi fuggevolmente, sono romanzi di movimento, d’intreccio, di vivida fantasia, da poter rivaleggiare colle più interessanti invenzioni di Sue, Ponson du Terrail, Boisgobey, Montepin.
Mastriani avrebbe certamente fatto opere di gran cammino e di grandissimo credito ed importanza se la sua amara esistenza glielo avesse permesso. Nelle sue opere si vede che il volo spicca alto e lontano mentre poi un tarpamento d’ali, un’atrofia improvvisa, lascia cadere pesantemente l’organismo fortemente concepito. È la vita che manca alla vita; è la fibra che si piega per circostanzi materiali e volgari!
La fortuna non venne al povero scrittore poiché egli fu costantemente attorno a quel che gli occorreva pel momento. La fortuna va da chi la sollecita e l’affronta senza impiccinirsi.
Quando egli disse che aveva tentato, prima di Zola, il romanzo naturalista, parve ai più un’arroganza. Eppure oggi si può dir che non era. Se non nella forma, Mastriani ha dato, prima di Zola, nel concetto e nella sostanza, il racconto e il quadro naturalista. Nei Misteri, nei Vermi e nelle Ombre vi sono pagine che quasi si direbbe aprano una via all’Assommoir, solo, ripeto, nella questione della sostanza e del concetto.
Certamente, la sostanza si può calcolare addirittura come fra due poli; ma a bene considerare, non è escluso un certo punto di contatto.
Mastriani non aveva, non avea cercato di avere, e un po’ a torto non gli aveano data una elevata considerazione letteraria e artistica. Lavorando per l’esistenza non avea modo né opportunità di pensare a ciò. Poteano pensare gli altri, ma nessuno a questo mondo si cura di chi da sé medesimo si taglia fuori dall’altrui cerchia. Nondimeno, il nome e l’opera di Francesco Mastriani aveano una popolarità straordinaria, immensurabile. Il nostro popolo leggeva i suoi romanzi avidamente, vi si specchiava riconoscendovisi e compiacendosene.
Fu, per questo, grandissima la fortuna delle appendici del Roma, che aveano il romanzo del Mastriani, senza interruzioni, e lo avranno finchè non saranno esaurite due opere rimaste inedite del fecondo scrittore, e qualche altra che potrà con successo ripubblicarsi,
Il popolo nostro che ha perduto il suo romanziere, ne ha pianto con lagrime di cuore. Queste lacrime in copia caddero sulla sua bara, la quale pur troppo, dicea che l’appendice non avea la sua continuazione al domani.
Napoli 12 Gennaio 1891 Bell.