Non può negarsi che la musica buffa e semiseria oggi è in decadenza, a segno che, se i cultori dell’arte non vi pongono pronto rimedio, non sappiamo a che tristo governo sarà ridotta. Quando gittiamo uno sguardo al passato, non possiamo che più amaramente sentire un tal vuoto a’dì nostri, e rimpiangere la caparbietà de’moderni compositori, i quali estimano di rinvilirsi nel trattare il genere buffo. Eppure, non così opinavano i grandi maestri dello scorso secolo, la maggior parte de’quali non sono grandi che per avere appunto studiata e seguita la composizione buffa, di preferenza alla tragica o alla seria. Ciò fecero massimamente i maestri napolitani, riportandone una gloria, cui di presente non di leggieri potranno raggiungere i principianti che di botto si danno a vestir di note il melodramma o la tragedia.
È cosa assurda, per non dire scandalosa, che i compositori dell’epoca nostra o almeno gran parte di loro, non incomincino a dar saggi del loro ingegno musicale che calzando il coturno; la qual cosa vuol dire che eglino principiano e prendon mosse da quel punto in cui finivano i sommi colossi dell’arte.
Vuole la moda che un maestro debba sdegnare di por le mani ad un libretto, in cui non entrino come precipui elementi una buona dose di veleni, pugnali, consunzioni, afforcamenti ed altri consimili piacevolezze. Che si direbbe oggi dI in compositore il quale lasciasse vivi tre quarti de’personaggi del suo pasticcio tragico lirico? E che speranze avrebbe di essere applaudito, quando almanco non facesse perno dell’azione drammatica una morte per violenta emottisi od un fanciullo abbruciato vivo o uno strangolamento a vista, o un suicidio, o qualche altra inezia di questa maniera?
Siffatto genere eroico, o, per meglio dire, sanguinario, ognun vede non potersi attagliare che a’grandi teatri e del prim’ordine; onde la necessità nei giovani esordienti di lanciarsi incontanente sulle più alte scene, con gran pericolo, anzi con ben due terzi di certezza, di rompersi la nuca del collo; quasi che ad acquistar fama e gloria sia assolutamente necessario scavare soggetti da cimitero, o sia indispensabile buttarsi a corpo perduto nello strepitoso o nel gonfio.
La brevità di un articolo da giornale non consente spazio bastevole da nominare uno per uno tutti que’sommi che incominciarono colle più umili opere buffe, ne’più modesti teatrini e con un pubblico di una quarantina di persone. E, senza rimontare a tempi assai da noi remoti, ci basti il citare per esempio l’immortale ROSSINI, rigeneratore della musica del secolo decimo nono, il quale non cominciò certamente dallo scrivere il Guglielmo Tell o la Semiramide; ma si bene fece per le prime volte udire il suo nome colle musichette leggiere La Gazza ladra e l’Inganno felice. E così cominciò quel fecondissimo genio del Donizetti col Falegname di Livonia e coll’Ajo nell’imbarazzo; e così quel tenerissimo Bellini coll’Adelson e Salvini, e così altri primari maestri; e con lo stesso Verdi, il quale non iscrisse a prima giunta il Nabucco o i Lombardi. A proposito di questo maestro oggi tanto alla moda, noi crediamo che malamente si appongano coloro i quali opinano non poter l’autore del Trovatore comporre opere di genere leggiero, brillante o buffo; il genio non ha restrizioni di sorta; e il Verdi, comechè non abbia giammai scritto musica buffa o brillante, ben potrebbe; argomento validissimo di ciò sia il Rigoletto, nel quale di tempo in tempo lampeggia quella maravigliosa facilità che egli si avrebbe allo scherzevole e al leggiero. Può certamente un maestro aver tendenza e attitudine più per un genere che per un altro; ma, se egli ha genio, può far tutto. Il Verdi ha l’anima trista e malinconica; ei però predilige il patetico, il tragico, l’eroico; ma e chi dice che la commedia sarebbe un terreno di ortiche per lui?
ROSSINI, tra le sue opere immortali, lascia due monumenti, il BARBIER DI SIVIGLIA e il GUGLIELMO TELL; il primo forma la provvidenza degl’impresari che, quando veggono fallite le loro speranze sulle opere de’nostri compositori, stampano subito su gli affissi teatrali il Barbier di Siviglia, sicuri della piena del teatro; musica popolarissima, che piacerà a tutto il genere umano, anche a’meno intelligenti, e che vivrà finchè vivranno le generazioni. Il secondo forma lo studio de’maestri che vi attingono le più eminenti ispirazioni del genere classico.
(pubblicato il 22 settembre 1867)
Nel 1827 usciva dal nostro real Collegio il giovine compositore Luigi Ricci, che fin dal suo primo apparire nel mondo teatrale die’ non dubbiosi lampi del suo ingegno che mostrava grandissima pieghevolezza ed estro alla musica buffa. Molta spontaneità e novità di pensieri notavansi nelle sue prime composizioni, del pari che una vena felicissima per lo scherzevole e pel gaio; a ciò si aggiungeva una bellissima strumentazione; per modo che grandi speranze di lui concepiva il paese. Ma il Ricci non si mantenne a quell’altezza di speranze che i napoletani concepirono in lui. Nelle sue ultime composizioni si osserva una certa negligenza; in molti luoghi un andamento che ha del triviale, un abbandono soverchio, quell’abusi predominante dei tempi a valzero, quel fermarsi ad ogni in ogni otto o dieci battute, quel malvezzo di accompagnare un motivo cantabile coll’unisono di violini e dei tromboni, e finalmente quelle tante spezzature, che costituiscono difetti gravissimi per un maestro del merito di Luigi Ricci. Una prova chiarissima delle nostre asserzioni si avrà nella graziosa sua opera PIEDIGROTTA, la quale sebbene avesse ottenuto uno splendido successo e siasi riprodotta quasi ogni anno tra noi e sempre con felice riuscita, abbonda di quei difetti da noi sommariamente accennati. Non possiamo negare che graditissima riesce questa musica agli orecchi napoletani; ma ciò deriva dalla gran copia di motivi nazionali di che è piena, come pure dell’originalità e piacevolezza del libro.
Tra le musiche buffe moderne merita un posto distinto il DON CHECCO del maestro de Giosa: graziosa musica, specialmente nel primo atto, dov’è la famosa aria del buffo. Pertanto, il pezzo concertato del 2° atto, benché bello, meglio starebbe in uno spartito serio o tragico; imperciocchè la sua solenne e grave andatura, l’accompagnamento e l’accordo delle voci son tali che non corrispondono al carattere d’una musica buffa. A tal proposito, non possiamo lasciare inosservata la smania che hanno alcuni dei nostri principianti, i quali, per far pompa di dottrina musicale, impinzano la loro opera di motivi serii, o fanno un ritornello con grandioso assolo di corni, o si arrabattano a studiare ricercatezze e modulazioni in certi momenti, da far credere che debba uscire una Semiramide o un Otello, quando vedesi sbucar dalla quinta un Pagliaccio o una contadina. È questo un enorme difetto che uccide il carattere della musica, ne snatura il concetto particolare, e nuoce all’effetto. Lo stile esser dee sempre uguale e adatto al genere che tratta, pregio maggiore dei nostri classici antichi; laonde si raccomanda sempre lo studio di questi, nei quali si vede con quanta scrupolosità seguivano l’indole dei soggetti delle loro composizioni, come la Scuffiara del Paisiello, la Serva Padrona del Pergolesi, il Matrimonio Segreto del Cimarosa, ec.
Avemmo nel 1851 Le Precauzioni del maestro Errico Petrella, la quale musica, se il Petrella non avesse scritto altri bellissimi lavori da darci argomento della sua scienza musicale non meno che della sua vena creatrice, avremmo creduta nata più per un prodigio del caso che dalla sua fervida e sennata fantasia. Osiamo dire, senza tema d’ingannarci, che lo stesso Petrella difficilmente potrà scrivere un’altra musica così perfetta nel suo complesso, nelle sue parti, nel suo carattere e nella sua fisionomia. Si ammira nelle Precauzioni un’eguaglianza di stile dalla prima all’ultima nota, spontaneità congiunta a vivezza di concetti, facili e care cantilene, strumentale ricco e fiorito e non mai esuberante, che colora e non copre il motivo, che lo ravviva e non lo travisa; i violini che hanno moltissima parte come strumenti principali, il che è massimamente richiesto nelle opere buffe. Basta sentire questa musica una volta sola per uscire dal teatro col capo ripieno di quelle bellissime cantilene, siccome il Voglio veder le maschere, Chelle là sò doje figliole ec. ec. I più esaltati ammiratori del moderato eroico, i più accaniti nemici del Petrella (e quale ingegno elevato non ebbe nemici?) convengono nel confessare che le Precauzioni è il capolavoro buffo dell’epoca, e che va posta questa partizione in seconda riga dopo il Barbier di Siviglia del classico Rossini. Ben si appose un nostro dotto scrittore allorché cominciò un articolo sulle Precauzioni colle parole: È risorto un Paisiello.
FRANCESCO MASTRIANI