Martedì a sera, perocchè avevo letto annunziato per la seconda o terza volta la gran musica del Mercadante la Vestale, ruppi il mio proponimento di non più andare a S. Carlo finchè la presente Impresa ne regge le sorti; e, avvicinatomi all’antro dello spaccio dei biglietti, specie di trappola in cui sono acchiappati i baggiani, chiesi un viglietto di platea. ‒ Esauriti – mi si rispose. Avrei potuto chiedere un biglietto di entrata; ma il mio fisico non consente che io stia all’impiedi per un paio d’ore; onde chiesi un polizzino di galleria di 4 ͣ fila ‒ Esauriti anche questi – mi si rispose.
Io mi ero incaponito di sentire nuovamente dopo 26 anni la Vestale; e, d’altra parte, non volevo aver fatto inutilmente il sacrificio di uscire nella sera di Natale. Mi rassegnai a chiedere un polizzino di galleria di 5. ͣ fila. Non ci ero stato mai; e, benché me ne avessero cantate le osanni, pure io credea fossero esagerati gli orrori di questo quinto cerchio, in cui sono condannati i reprobi che non possono spendere più di una lira e 25.
Mi ebbe dal Radamanto il mio polizzino, e cominciai a fare la mia ascensione pel 5.° cerchio. Quivi giunto, mi affacciai sullo ingresso della bolgia che tanta somiglianza si ha colla settima bolgia di Dante; e al Minotauro ch’ivi presso, in su la punta della rotta lacca, era a custodia di quelle anime perdute, mostrai il mio passaporto, il Minotauro parve meravigliarsi che Radamanto gli mandasse altre anime, mentre più non ne capiva quel girone.
Ma l’impresa di S. Carlo, considerando che gli spiriti non occupano posto, ne manda lassù tanti quanti ne capitano, avvegnachè il numero dei mal capitati fosse tale da riempire tutti gli spazi vuoti di quelle slamate ripacce.
«A voi, stringetevi un poco» gridò l’infamia di Creta a que’dannati ch’erano al terzo girone a dritta del quinto cerchio; e in pari tempo, messami nelle mani una pietra del Vesuvio sotto forma di cuscino, afferratomi di sotto alle ascelle, mi sospese in aria, e mi balzò sul terzo girone.
«Il vostro posto è l’ultimo, là, nel fondo».
Io credo ch’ei credette ch’io credessi davvero di essere capitato in una regione di spiriti, giacchè io non vedevo assolutamente un centimetro di vacuo; per lo che, arrivato a stenti, camminando su i calli altrui, nel mezzo del girone, io non potetti andare più oltre; e mi rimanevo colla pietra del Vesuvio in mano, colla faccia volta a’miei compagni di supplizio, e col deretano rivolto al Coro delle Vestali (che già il sipario si era levato).
«Volete stringervi si o no per dar posto a questo signore?» gridava il figlio di Pasifae a que’ dannati; ma egli era come se avesse gridato alle rocce. Uno di questi che parve si muovesse a compassione di me, disse al Minotauro:
«Ma laggiù, a quell’ultimo posto, non si vede una maledetta».
«E questo a voi non preme – rispose la bestia, concetta nella falsa vacca – Questo signore è giunto tardi; e conviene che si adatti».
Io cominciavo a sentir vacillare la mia flemma britannica; onde, dato di forti spintoni a tutte le rotelle a cui mi abbattei nel mio passaggio, arrivai come Dio volle, al mio posto assegnatomi.
O Dio sclamai, sentendomi tuffato come in una tomba e feci forza di inspirazioni per mandar giù ne’polmoni un po’d’aria; ma mi accorsi che io era dannato a morir soffocato.
Il posto infamissimo, al quale era stato rilegato, era tale che non si vedeva altro che un poco della bocca d’opera del proscenio e le facce sparute de’reprobi che sedevano con me sul medesimo sgabello.
Avrei pagato altri 125 centesimi (quanti ne avevo pagati per procacciarmi quello strano martirio), per uscire immediatamente di là; ma tutte le leggi della fisica vi si opponevano: per la qual cosa, dovetti durare in quel supplizio fino al termine del primo atto, in cui erami conceduto di disturbare l’udienza. Non appena calò giù il sipario, io, facendo sforzi inauditi, arrivai a toccare la punta della ripa. Ma come scendere? Bisognava fare il salto di Leucade. Mi ci arrischiai credendo che la distanza dal suolo non fosse tanto considerabile. Fatto sta che ne riportai tal contusione allo stinco sinistro che non potetti levarmi il dì appresso.
O impresa di S. Carlo, io ti maledico ne’genitali. Che i miei 125 centesimi che tu mi rubasti così spietatamente possano diventare 125 mignatte che ti si applichino sullo sfintero e ti succhino l’impurissimo sangue fino alla disseccazione. Vanne, o scellerata,
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Fu l’istante in cui nascesti
Maledetto dal Signor!
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E tu, commissione teatrale, che canchero ci fai costà. Ci sei o non ci sei?
FRANCESCO MASTRIANI