INTRODUZIONE ALLA POLTRONA DEL DIAVOLO

   Ricollegandosi al fortunato filone del romanzo d’appendice, diffuso a Napoli soprattutto a partire dagli anni ’50 dell’Ottocento, Francesco Mastriani (1819-1891) è stato autore di numerosissimi romanzi a sfondo sociale che riscossero un ampio consenso di pubblico. Modesto impiegato del Dazio, Mastriani collaborò, dal 1838 al 1848, a diversi periodici, tra cui «Il Sibilo» ed il «Roma», per il quale scrisse racconti e novelle, per poi esordire, nel 1848, come romanziere con Sotto altro cielo, cui seguirono, nel 1852, La cieca di Sorrento ed Il mio cadavere, che ottennero un notevole successo. Negli anni ’60, dopo l’Unità, esce la cosiddetta “trilogia socialista”: I Vermi, Le Ombre e I misteri di Napoli. Essa rappresenta, nell’ambito della produzione dello scrittore napoletano, una decisa svolta nel senso di una più scoperta critica degli abusi e delle connivenze con la camorra da parte dei Borboni e un’accorata denuncia delle ingiustizie sociali.

   Pubblicato nel 1889 a Roma dall’editore Eduardo Perino [1], La poltrona del diavolo presenta in forma amplificata tutti gli ingredienti tipici del feuilleton; un susseguirsi continuo di colpi di scena, agnizioni che svelano parentele e rapporti fatali, forti passioni e irriducibili conflitti tra i personaggi. Come nel romanzo alessandrino, dove gli avvenimenti si sviluppano in un ampio spazio geografico, la vicenda si snoda tra Napoli – città viva e concreta, con suoi quartieri e con le sue strade – e l’esotismo di terre lontane, che dischiude il meraviglioso mondo dell’avventura ed offre l’occasione al protagonista di completare la sua formazione.

   L’introduzione di elementi esotici accomuna Mastriani ad Emilio Salgari, con il quale condivide il gusto per didascalismi stranieri – Mastriani conosceva diverse lingue – la curiosità per le culture extraeuropee. Entrambi viaggiatori con la fantasia, perennemente afflitti dai debiti prolificissimi scrittori sfruttati da editori senza scrupoli, i due romanzieri hanno saputo usare sapientemente la loro erudizione per costruire – sia pure con artifici dal sapore teatrale – ambientazioni esotiche che hanno affascinato generazioni di lettori. Ma, a differenza di Salgari, lo scrittore napoletano, profondamente convinto degli ideali socialisti, concepisce il romanzo come in mezzo attraverso il quale assolvere un’importante azione di sensibilizzazione nei confronti del destino del popolo napoletano e trattare importanti questioni sociali e politiche. Molto amato dai suoi lettori, Mastriani non fu mai interamente compreso dagli intellettuali napoletani suoi contemporanei – se si esclude il riconoscimento postumo tributatogli da Matilde Serao e da Benedetto Croce – che non condividevano le autentiche ragioni della sua opera.

   Mai forse come in questo romanzo Mastriani è stato così esplicito nel dichiarare le proprie fonti, citando Hoffmann, la Radcliffe e Hugo in riferimento agli aspetti più genuinamente esotici della storia. A differenza però degli autori ai quali s’ispira, lo scrittore in genere evita di introdurre elementi soprannaturali e quando accenna alla figura del monacello, che si rifà alla più schietta tradizione delle leggende partenopee, subito si affretta a definirla una superstizione.

   Come di consueto, Mastriani intervene costantemente nella storia, non solo rivolgendosi direttamente ai lettori e per indicare le numerose analessi e prolessi di cui l’intreccio si compone, ma altresì per inserire svariate riflessioni di carattere filosofico-morale. Sebbene tutti questi aspetti siano comuni nei romanzi dello scrittore napoletano, qui egli si compiace particolarmente di costruire un intreccio narrativo complesso, determinato da continue opposizioni e simmetrie di personaggi.

   Così alla bellezza europea della bionda Silvia, egli accosta quella esotica di Marta, avvenente mora originaria di Giava; ma le due fanciulle sono opposte non solo etnicamente, ma anche nel carattere e nell’estrazione sociale: Silvia infatti è nobile e viziata, mentre Marta è una serva dall’animo generoso. Tale contrasto consente all’autore di introdurre una serie di considerazioni nelle quali afferma esplicitamente la dignità di tutti gli esseri umani: «Iddio ha dato a tutte le sue umane creature la ragione ed il cuore, con esse la maggiore o minor perfezione delle esterne fattezze; e facendo sì che la vivezza della mente e la bontà del cuore si riflettano in su i sembianti del volto e v’imprimano più o meno caratteri avvenenti e simpatici […]».

   Sull’asse della similitudine e dell’opposizione si ritrova anche la coppia dell’eroe (Adriano) e dell’antagonista (Guglielmo): dall’aspetto ordinario e dal carattere buono e coraggioso il primo, bello e scellerato il secondo, i due personaggi, rivali in amore perché entrambi infiammati per la bella Silvia, sono – come si scoprirà in seguito ad un’improvvisa rivelazione – fratellastri, ma, mentre Guglielmo si nasconde sotto una falsa identità per poter accedere al mondo dell’aristocrazia, Adriano, che è un umile marinaio, rimane fedele alle sue origini familiari e non ha alcuna velleità di modificare il suo status sociale. Il conflitto archetipo tra i due fratelli esemplifica quindi un diverso modo di porsi rispetto alla società, nella tensione che si crea tra il rispetto dei valori tradizionali ed il loro rifiuto.

   Così, all’interno di una narrazione romanzesca a tratti ingenua, senza dubbio legata a tutti i più collaudati stereotipi del genere, si scoprono le profonde motivazioni dello scrittore napoletano, il quale osserva i mutamenti economici che stanno rapidamente trasformando la struttura della società napoletana nel corso dell’Ottocento. Solidale con gli umili e i reietti, Mastriani – che pur in altri romanzi ha dato prova di saper descrivere con estrema lucidità la realtà degradata del popolo napoletano – qui guarda con severità soprattutto al così detto “gran mondo”, che egli rappresenta in tutta la sua colpevole vacuità, legato al culto delle apparenze e all’amore per il lusso. Ma a ben guardare il suo vero bersaglio polemico è la grettezza in tutte le sue manifestazioni: infatti la passione smodata per l’accumulo finisce per corrodere ogni relazione, non lasciando spazio per nessun rapporto autenticamente umano. Simbolo di questa rovinosa avarizia, il cui inevitabile risultato è il misantropico allontanamento dal consorzio umano, è la spaventosa poltrona di cuoio nero di Nicola Loreti, nelle cui viscere sono contenuti i tesori del vecchio, guadagnati col furto, la truffa, lo strozzinaggio. Essa eserciterà sull’avaro sempre di più il suo potere diabolico, producendo su di lui una sorta di spossessamento: il corpo raggrinzito di Nicola Loreti finirà infatti quasi coll’essere risucchiato dall’oggetto malefico, che alla fine sarà la sua tomba. Il denaro, motore della storia, diviene anche occasione della sua conclusione, quando, in perfetta simmetria rovesciata, il ritrovamento del tesoro maledetto riequilibrerà le sorti dei due fratelli.

   Fungono da comprimari numerosi altri personaggi, delineati a tinte forti, tra cui spiccano essenzialmente due figure: da un lato padre Battista, il buon monaco certosino soccorritore di Adriano, dall’altro compar Bonifacio, lo strozzino “amico” di Nicola Loreti; e proprio le pagine che Mastriani dedica alla descrizione di costui, mostrandolo in azione mentre si dedica a turpi macchinazioni ai danni della povera gente, sono senz’altro le migliori del romanzo: figura subumana «[…] che avrebbe imbrogliato tutt’i naturalisti per assegnargli un posto specifico tra i vertebrati mammiferi», compar Bonifacio è il tipico esemplare del bigotto ipocrita, che col suo fare mellifluo ordisce trame per arricchirsi pur conservando fama di buon cristiano presso le «comarelle del quartiere». L’avversione feroce di Mastriani contro il bigottismo raggiunge però punte grottesche nella scena della recita del Rosario di Nicola Loreti, dove la preghiera, ridotta a pura pratica scaramantica, s’alterna alle ingiurie che questi rivolge alla serva, mentre a sua volta quest’ultima aspetta il momento buono per ammazzare l’odioso padrone. Un più sottile gioco ironico è poi costruito intorno al nero libro contabile dell’avaro, sul quale è scritto Memento: una sorta di paradossale libro delle preghiere per chi ha fatto del denaro la sua unica religione. Più esplicita e feroce è invece la digressione sul cosiddetto debito galleggiante, «quest’aureo trovato del secolo» che si fonda sulla «moltiplicazione delle firme» e che è simbolo non soltanto dell’evoluzione dell’economia, ma anche dei mutati rapporti sociali. Ed è proprio attraverso le parole di un usuraio vecchio stile come compar Bonifacio che Mastriani denuncia l’assurdità del nuovo sistema quando, parlando col vecchio avaro delle Assicurazioni contro il furto questi commenta: «Impunità assoluta pe’ladri che portano un nastro rosso all’occhiello del loro abito; ecco l’apice del progresso del nostro incivilimento! Compar Nicola, noi ci facciamo un’assai meschina figura a petto di questi grandi uomini del secolo!».

   Sullo sfondo di questa scoperta critica del capitalismo, figure a tutto tondo mettono in scena la commedia umana con le loro passioni, la cui origine, dice Mastriani, non dipende tanto dall’educazione, quando dalla natura «[…] quasi che la virtù o il vizio stieno nelle particolari molecole del sangue». In definitiva ciascuno di questi personaggi è mosso da direttive che gli vengono da un’insopportabile istinto, un istinto che può essere potentemente orientato al bene, così come può invece rivolgersi al male, indipendentemente dalle circostanze. Ma gli avvenimenti, come l’autore dichiara esplicitamente, non sono determinati dal caso, bensì dalla fatalità: nel sistema romanzesco de La poltrona del diavolo, alla fine della storia, ritrova la sua perfetta ricomposizione, e il destino che governa la vita degli uomini, nonostante il desolante panorama umano, finirà col punire i reprobi e premiare i virtuosi, in un idillio consolatorio che, sebbene differito, non poteva mancare. Eppure, nonostante il lieto fine, il romanzo lascia al lettore un sapore amaro ed un senso d’incompiutezza, e lo stesso autore promette un seguito per alcuni personaggi della storia, poiché «Il turbine delle umane vicende e la falce instancabile della morte ce li rapiscono; e noi li lasciamo passare, trasportandoci in altro campo assai più vasto, dove ritroveremo forse de’nomi su cui il tempo avea scosso la sua fittissima polvere, e dove ci proponiamo addentrarci ne’dolorosi misteri di questa nostra amatissima Napoli».

                                                PATRIZIA DI MEGLIO

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[1] La Poltrona del diavolo venne pubblicato la prima volta sulle appendici del giornale «Il Nomade» nel 1861, e in volume nel 1861 dall’editore G. Rondinella di Napoli. Dopo l’edizione Perino del 1889, venne pubblicato da Gennaro Salvati, editore di Napoli, forse nel 1895 (Nota di Rosario Mastriani).