INTRODUZIONE

   Una prima immagine critica di Mastriani si raccoglie dai Profili letterari napoletani di Federigo Verdinois, pubblicati nel 1882, quando l’ormai anziano scrittore stava per concludere la sua torrenziale attività narrativa.

   Nella elegante galleria dei letterati napoletani contemporanei non poteva mancare il ritratto di Francesco Mastriani, che era di certo il romanziere più letto e più amato da tutta Napoli « all’infuori – notò più tardi il Croce – della gente letterata [1]». Ma vi fu ammesso facendolo passare per la porta di servizio, con una bonaria manata sulla spalla e un negligente sorriso di sopportazione. Ecco infatti offerta ai lettori di buon gusto la nota esilarante delle pretese veristiche dell’autore dei Vermi, esibita citando una ingenua protesta dello stesso Mastriani: « Che è mai codesto rumore che si leva intorno al realismo? il realismo l’ho inventato io. Che è codesta Nanà, che tutto il mondo n’ha da discorrere come dell’ottava meraviglia? Io ho scritto I Vermi. C’e niente di più realistico dei Vermi? Io vi domando in coscienza se si può scendere in basso. Di più; voi, realisti da strapazzo, sguazzate nel sudiciume; ed io, come vedete, vi servo in tavola l’anima stessa del medesimo in tante pagine strappate dall’albero della mia fantasia ancora verdi e sanguinanti». Difficile resistere al fascino umoristico di una rivendicazione di tale fattura; troppo facile tuttavia non cercare di spiegarla e bloccare l’incauto suo autore al grado di un’innocenza intellettuale così depressiva. Ma il commento di Verdinois è a dir poco impietoso: «Ebbene, se la Francia ha uno Zola, Napoli ha un Mastriani. Poco è mancato che questo non si credesse, certo è che si è scritto, cioè lo ha scritto lui, ed un giornalista ha stampato le sue parole in nota di un romanzo [2] ».

   Certo l’autore delle Ombre, dei Lazzari, dei Misteri di Napoli e dei cento altri romanzi che dilettavano e appassionavano i napoletani non persuadeva il gusto fine di Verdinois. Quel Mastriani convulso, arruffato e stentoreo, sempre in movimento tra l’ufficio suo di daziere, le stamperie e le case degli allievi di francese e d’inglese, e sempre capace di buttare giù pagine e pagine di racconto, scrivendo dappertutto, purché trovasse un punto d’appoggio per il calamaio che teneva pronto in saccoccia, non aveva niente dello scrittore « vero ». Un piccolo burocrate un po’esaltato, pungolato al lavoro dal prosaico bisogno di mandare avanti la baracca familiare, un ingegnaccio senza disciplina, ingenuamente balzano e fantasioso, precocemente sfiancato dal facchinaggio delle appendici romanzesche a tre o quattro lire al pezzo.

   Un lavoro in pura perdita insomma, un espediente per tirare avanti. Tanto è vero che secondo Verdinois agli inizi della sua carriera, quando ancora non era stretto dai bisogni della famiglia numerosa, Mastriani, in fondo, non scriveva male. La Cieca di Sorrento, per esempio, poteva passare come un buon romanzo. Del resto una certa « bontà degli ingranaggi » bisognava pur riconoscerla al Mastriani e, con facile gioco, Verdinois giungeva persino ad ammettere che « egli è oggi il primo, anzi il solo romanziere italiano, se si può dire che in Italia vi siano romanzieri e romanzi [3]».

   La pregiudiziale notazione dell’avvilimento del mestiere letterario consuona all’altra che compatisce e condanna il plateale giullarismo popolaresco di uno scrittore che ha scelto per oggetto di studio « le classi povere » e che trova un gran numero di lettori « fra la gente minuta, che si appassiona a quelle vicende strane o meravigliose per le quali passano dei personaggi delle loro classi [4] »

   Sostanzialmente, dunque, un netto rifiuto, beffardamente cortese, in cui si riflette l’atteggiamento dei letterati contemporanei di fronte alle questioni connesse al successo ed alla vitalità oggettiva del primo e certamente del più schietto romanziere popolare italiano. Vero è che Matilde Serao, nel 1891, proprio in occasione della morte di Mastriani e contemporaneamente all’uscita del Paese di cuccagna, celebra caldamente il romanziere scomparso, riconoscendo a lui di avere stabilito, con la scoperta delle sue « piccole verità popolari », il punto di partenza «onde i sociologi e gli artisti trarranno il grande materiale del romanzo napoletano»; come è anche vero che un intendente assai fine di letteratura, quel George Herelle che è più noto come traduttore delle opere di D’Annunzio, pubblicò sulla « Revue de Paris » nel 1894 un saggio sull’opera di Mastriani (Un romancier socialiste a Naples) pieno di acute osservazioni e animato da schietto interesse. Sarà opportuno notare, comunque, che nel primo caso si tratta di un personaggio eccezionale quale la Serao, che proprio in quegli anni, come donna scrittrice e come giornalista, svolgeva una funzione di rottura nel panorama delle lettere italiane, e che nel secondo abbiamo di fronte un letterato straniero, liberamente curioso di un caso letterario nostrano, e del tutto esente dai pregiudizi indigeni. Bisognerà giungere fino al 1909 prima di ascoltare da Benedetto Croce l’invito (fino ad oggi non molto ascoltato, del resto) a studiare Mastriani ed a caratterizzare criticamente il valore ed il senso della sua generosa vena di narratore moralista popolare. Ma a questo punto sarà bene fare ciò che era tanto caro e consueto a Mastriani, cioè un « passo indietro », per cogliere di lui una immagine che scaturisca dai suoi lettori naturali, da quella gente minuta e non letterata che divorava e commentava le sue « appendice » a mano a mano che uscivano.

   Piccolo di statura, gli occhi sempre vivaci ed irrequieti, quasi calvo ormai, ma fornito di barba e baffi alla Napoleone III, di un biondastro ingenuamente anacronistico e spavaldo, l’anziano Mastriani tesseva e ritesseva le fila dei suoi percorsi cittadini, partendo dal quartiere di Sanità, dove abitò sempre, e là tornando ogni sera dopo il via vai delle ripetizioni, delle visite in tipografia. La  gente lo conosceva e si mostrava a dito, pare, quell’ometto vestito di nero, col corpetto bianco, dicendo propriamente che era nientedimeno che « l’autore dei romanzi di Mastriani! ».

   Perfettamente mimetizzato nella sua folla, mitizzato dalla forza comunicativa del suo narrare esclamativo e veridico (lasciamo stare il verismo), ecco un Mastriani definito con il pieno impegno e la spontaneità epigrammatica della fantasia critica partenopea. Da una parte l’uomo, una randagia nota di colore assorbita dalla quotidiana, variegata miseria della « sua » folla, dall’altra l’autore, mago o demiurgo di una doviziosa rappresentazione fenomenica della folla, la quale si riconosce come 1’eroe vero e solo degli scritti che legge.

    Pur senza forzare la portata della battuta popolare, ci sembra notevole questa originale forma di consenso che riassorbe nella sostanza popolare dell’opera la figura di Mastriani, fino a farla scomparire, magicamente, separandola decisamente dalla immagine fisica dell’ometto indaffarato che dei romanzi appariva soltanto « l’autore », qualcosa come il trascrittore materiale della loro essenziale verità.

   È chiaro che la investitura di Mastriani a maestro e vate della realtà popolare napoletana si attuò progressivamente, a mano a mano che egli si venne staccando dalla maniera del racconto romantico per volgersi con sempre più deciso interesse alla illustrazione critica e moralistica della società napoletana, ma non è da pensare che il mutamento di prospettiva avvenisse del tutto consapevolmente e tanto meno che la esplorazione della realtà popolare di Napoli fosse da lui avviata con il preciso intendimento di provocare un incontro con il pubblico popolare. Fu quella realtà che gli si impose sempre più energicamente fino a occuparlo del tutto, sebbene rimanessero sempre riconoscibili in lui i segni della sua formazione romantica, insieme alle deluse ambizioni di ottenere riconoscimenti da parte del pubblico colto e dei letterati ufficiali.

   Aveva cominciato a scrivere nel 1838, pubblicando sul « Sibilo » una novella intitolata Il diavoletto. « Il Sibilo » era un giornale « di mode e di teatri » che si pubblicava ancora nel 1846 e Mastriani vi collaborò intensamente. « Facemmo in questo giornale – ricordò una nota dei Misteri di Napoli – le prime prove del genere narrativo: vi scrivemmo un gran numero di novelle e di scene intime ». Prime prove che non conosciamo, ma che ci richiamano tutta quella produzione vivacemente condannata dal De Sanctis quando parlò della cultura napoletana dell’800: intorno al 1840 « Piovvero racconti, novelle, romanzi tra il fantastico e sentimentale, sciarade, logogrifi, volgarità e puerilità in prosa e verso… Non era una cultura nuova che sorgesse spontanea, era un’eco confusa e inintelligente di un moto letterario sorto molti anni indietro… di cui ci veniva il riflesso». A quel romanticismo ritardatario e di maniera « spinto fino al delirio, al grottesco, al mostruoso, al concitato » partecipò anche Mastriani e di quello gli rimasero inconfondibili i segni nella magniloquenza concitata di tante sue pagine forzate e prolisse.

   Ma un’altra esperienza veniva frattanto compiendo Mastriani, che fu invitato a collaborate alla grande miscellanea di descrizioni napoletane da Francesco De Bourcard (Gli usi e i costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti) avviata nel 1847 e conclusa nel 1866. Dalla ricognizione eseguita da A. Palermo [5] risulta che a Mastriani furono affidati dieci temi (tra i quali: «il pulizzastivali», « il cenciaiuolo »,  « i rinfreschi del popolo », « la capera »,« Napoli dopo mezzanotte », ed è certamente giusto il rilievo che il Palermo attribuisce a questi « pezzi di colore » mastrianeschi, dove lo scrittore appare a contatto con quella realtà che soltanto più tardi sarà promossa a protagonista assoluta. Tanto più che l’opera del De Bourcard presenta una visione non più romantica di Napoli, anzi « alle prese, sovente, con quella che verrà battezzata la questione meridionale ».

   Mastriani comunque guidava per altre vie la sua avventura narrativa e dopo Sotto altro cielo (1848) pubblicava nel 1851 La cieca di Sorrento, cui tennero dietro, per citare solo i più notevoli, II mio cadavere e Federico Lennois, che hanno spicco sulla contemporanea congerie di romanzi e drammi (questi meno fortunati per vero) romanticheggianti e storici di prima del ’60. Qui Mastriani stordisce a furia di colpi di scena, di orrori, di lagrime, di efferatezze e tenerezze inaudite, di personaggi tutti fuori di misura e tutti sempre uguali al proprio tema. E, in fondo, un manierismo romanzesco che guarda soprattutto al Sue ed a Victor Hugo ( oltre che alla Radcliff, a Dumas figlio) e che procede anche da Ginevra o l’orfana della Nunziata (1843) di Antonio Ranieri; ma è un manierismo esasperato e rigido, sostanzialmente evasivo.

   Racconti traboccanti di fasto posticcio, affollati di aristocratici stravaganti e noiati, di superbe e fragili creature femminili, di banchieri, di stranieri, tutti superlativamente improbabili. Gli altri, gli «umili», pur facendo sempre intima parte dell’intreccio, ripetono straccamente la parte loro e, a meno che non ascendano giubilando ai fastigi della scala sociale per via di caritatevoli e riparatori matrimoni, oppure per drammatiche agnizioni, finiscono, di solito, in fondo a un letto di paglia, con i dovuti conforti, o in cima a un capestro, a seconda dei meriti.

   Ma sono ancora ben rari a questo punto gli incontri di Mastriani con la verità specifica del mondo napoletano. La realtà pare sfuggirgli continuamente, o meglio pare che egli, nella Cieca di Sorrento, come anche nella Chioma di sangue, sfugga ad essa per concedersi tutto all’osservazione curiosa e stupefatta dalle anonime meraviglie del bel mondo. L’accordo di due o più malviventi per tentare un colpo o l’interno di un « basso », oppure persino la figurazione di un « avaro » (questo è bersaglio tipico del Mastriani maturo, che otterrà in seguito coloriture vivacissime, di energia balzacchiana) si perdono nel generico e banale moralismo o in una drammaticità di accenti totalmente condizionata dall’intenzione di comporre prosa di aulica dignità. « Un picchio fu udito alla massiccia porta da scala. Gli avari non han campanelli a’lor usci ». Tale, ad esempio, la connotazione seriosa di una scena fondamentale della Cieca, quale è quella dell’incontro di Notar Basileo e di Gaetano Pisani. E lo stesso moralismo si manifesta asservito ad una applicazione letteraria, oratoria dei suoi dettami, determinato da un autentico moto di sdegno. Pensiamo alla definizione iperbolica di Tommaso Basileo, e siamo di fronte ad un caso mediano:

   « Era, quel notaio, un curioso impasto di diversi animali, tanto nel fisico quanto nel morale, ma supremazia sugli altri istinti avea quella del tigre. È impossibile d’immaginare un uomo più perfidamente vile, più vilmente brutale, più brutalmente e bestialmente sordido. Né si creda che ci piacciamo di esagerare a talento un personaggio creato dalla nostra fantasia; imperciocchè nella storia naturale dell’uomo – siccome testé dicemmo – un tale tipo è ovvio e frequente, e massime in seno delle città popolose ». Ma si veda in confronto la scena dell’usuraio dei Vermi alle prese col suo «cassettino» e la espressione violenta e colorita della libidine del vecchio che trasferisce all’oro una carica di richiamo sessuale.

   Sennonché la moralità, nei primi romanzi, viene celebrata da Mastriani come inattingibile dovere, quasi l’eco, cioè, di un dover essere vanamente predicato. Di qui il tono messianico-predicatorio delle frequenti citazioni bibliche (che pure avranno una più severa funzione negli « studi sociali » seguenti al 1860), di qui l’intonazione pessimistica e deprecatoria delle ingenue parafrasi di motivi leopardiani, foscoliani e danteschi.

   Gli incontri-scontri con la realtà sono rari, e quando avvengono Mastriani ha l’aria di scusarsene con i lettori, quasi che si trattasse di merce di contrabbando. Dopo la descrizione delle « barbare battiture » cui dickensianamente era stato sottoposto il giovanissimo Federico Lennois da parte della pseudo-madre Zenaide, esclamerà: « Chiediamo perdono ai nostri lettori, se siamo costretti a porre sotto i loro occhi uno spettacolo disgustante e pietoso a un tempo. Oh, come vorremmo nei nostri racconti evitare di avvenire, in codeste situazioni che fan fremere i cuori ben temperati, ma nello svariatissimo dramma delle passioni che si agita sulla scena del mondo la virtù, per mala ventura, non è la protagonista; e la scelleratezza è quella che più tiene al campo dell’intrigo. Lo spettacolo dell’umana degradazione ha i suoi effetti salutari come lo spettacolo del più elevato innalzamento dell’animo per grandi e generose virtù ».

   Pare evidente a noi che « lo spettacolo dell’umana degradazione » si faccia già problema per Mastriani e che in lui cresca già la vocazione a denunziatore ed illustratore di ciò di cui chiede umilmente scusa soltanto per vezzo retorico. Ci vorrà, pero, ancora assai, prima che egli esca dal crepuscolarismo romantico-descrittivo dei suoi begli anni della Cieca e del Mio Cadavere, per accettare il rischio di una espressività totalmente polemica di fronte ai fatti che sempre di più occuperanno la sua fantasia di meraviglioso « paglietto », di instancabile «pennaruolo». E non si tratterà, si badi bene, di scelta tra l’alto ed il basso della società, in quanto il livello inferiore e più colorito di quello superiore, né di una decisione di carattere ideologico. Macché: si tratterà sempre di una avventura scrittoria che provocherà la maturazione di un gusto della verità e di una irritazione morale che avevano per mediatore uno stile bastardo, ma efficace e di grande presa. Come avviene di certi bastardi cani da caccia, di inimitabile ed ineguagliabile funzionalità sul terreno.

   A proposito delle commistioni, degli incroci dello stile, del lessico, della grammatica di Mastriani si potrebbero proporre campionature imponenti, anche basandoci sui pochi esemplari da noi esaminati. II rischio di un tale esame è tuttavia quello di proporre (e ciò non è nelle nostre intenzioni) una macchietta di scrittore sorpreso nei suoi difetti espressivi, una caricatura di Mastriani ghiacciata lì dove provoca per forza il sorriso. Come non sorridere di una descrizione formulata a questa maniera: « Un cappello vecchio e logoro, circondato da un velo di lutto era gittato sulla coppa del capo? ». Così nella Cieca. Ritroviamo la stessa formula nel Federico Lennois, adibita ad una funzione anche più intensa e dunque maggiormente deludente nell’effetto:

« Ma ciò che sovranamente attestava il genio dell’artista era la massa de’capelli della giovinetta che pregava […]. La foltezza della scompigliata massa in sulla coppa del capo, rivelava l’ardenza malinconica di quella natura appassionata ».

   Più che ridere, c’e da ricevere il gusto e la sensibilità analitica, descrittivismo stilisticamente incongruo, lo stridore dell’amalgama linguistica che adegua, forzatamente, lingua e dialetto senza curarsi della espressione. E solo con la prevalenza dell’interesse per quel mondo che provoca e giustifica il dialetto, o la sua traduzione tenue, Mastriani troverà alla fine la propria sintassi narrativa. Accidentata sempre, ma dominata, dopo il ’60, da un ritmo e da una intenzione che giustificano gli sbalzi del racconto che tende sempre di più al saggio, mascherato da romanzo.

   Anche è notevole, sino dai primi romanzi, la struttura del racconto, cioè il meccanismo del narrare mastrianesco. Lasciamo pure da parte la tipizzazione violenta ed elementare che si incontra con una scansione narrativa altrettanto elementare ed ingenua. Si è già detto che La Cieca di Sorrento sottostà al ritmo di ambizioni vaporose quanto presuntuosamente vitalistiche, incerte in ogni direzione.

   La favola è tutta sbilanciata verso il suo principio, cioè già conclusa nelle sue premesse. Quando, in altri termini, si è al punto di avere disposto in ordine la presentazione dei personaggi, la esibizione degli antefatti ed il nucleo della finzione drammatica, ecco che la azione, invece di svilupparsi, precipita verso la conclusione più ovvia (e sia pure la più imprevedibilmente ovvia). A mantenere un minimo di tensione sono soltanto gli intermezzi, gli avvenimenti accidentali che dovrebbero arricchire il garbuglio narrativo (solitamente affidato ai segreti del diritto di eredità) mentre invece riescono a segmentarlo in novelle autonome, in una serie di racconti che testimoniano frammentariamente la vicenda umana.

   Questo è d’altra parte un permanente dato di fatto della struttura narrativa mastrianesca: un macchinoso impianto romanzesco che si  risolve in una  massa di racconti estrinsecamente legati al supporto iniziale. Dalla Cieca fino ai Misteri è costante la evidenza di questo dato, che oppone l’intenzione del romanzo alla resa novellistica, come è anche costante, in virtù del faticoso montaggio della macchina narrativa (e diciamo pure del « mistero » di base), lo squilibrio esistente tra i primi capitoli, stesi in funzione della produzione del lettore alla gravità del dramma, e la dispersiva, quasi smemorata condotta dell’intreccio che finisce col precipitare, nelle parti conclusive, in frettolosi e disordinati colpi di scena, vere e proprie sciabolate sul corpo della narrazione.

   Narratore di razza, sì, ma non mai romanziere, Mastriani affida insomma a motivi del tutto estrinseci la per lui fastidiosa nozione di «romanzo». E se pure sotto la etichetta del genere pubblicò, come pare, ben centoquattordici « romanzi », non è di poco rilievo la intelligente mossa critica per cui ripudiò l’etichetta a favore di una ben diversa definizione del proprio prodotto e lo pose sotto l’insegna di « studi sociali ». Lo sapeva da sé che il suo narrare procedeva per piccole unità indipendenti e che la conglobazione di esse in un organismo autonomo era questione estrinseca, e se non soltanto tipografica, almeno convenzionale. Non per niente Mastriani chiamava « studi » tutti i suoi libri scritti a partire dai Vermi e considerava « studi » anche i suoi più antichi:

 « La benigna accoglienza – dirà nella prefazione ai Misteri – fatta da’miei concittadini a questi miei lavori e la rapida diffusione di essi mi animava a imprendere novelli studi sulla società in generale e su la nostra Napoli in particolare, dalla quale non mi allontanai giammai insino a questo tempo della mia vita. Non pochi tra i miei lettori che mi hanno seguito pazientemente nella mia carriera di romanziero hannomi addebitato di essermi da poco in qua discostato dal genere de’miei primi romanzi. Non ispetta a me giudicare se una tale asserzione sia vera. Confesso che eglino non s’ingannano del tutto; ma lo scrittore non dee forse camminare col suo tempo?». Importa assai il punto di vista dell’autore, che rivendica una coerenza di fondo e richiama anche la Cieca di Sorrento ed II mio Cadavere nell’orbita degli «studi» narrativi. Ma egli è poi dirittamente esplicito quando poche righe più avanti rifiuta il titolo di romanzo per la sua opera più meditata ed ambiziosa, per l’appunto i Misteri: «un libro, il quale verrà dalla maggior parte de’lettori considerato un romanzo… ».

   II critico riconoscimento di un Mastriani non-romanziere ha qualche senso, a nostro avviso, perché approfondisce la prospettiva culturale del narratore appendicista napoletano. Succubo di schemi internazionali di successo, Mastriani partì alla ricerca del romanzo e si modellò su quegli schemi, sui modelli del raccontare europeo che avevano già elaborato la forma del romanzo. Schemi non suoi e comunque non adatti alla esplorazione del suo mondo che era  anche il suo pubblico. Poiché un narratore sempre costruisce il suo incontro con il pubblico senza avere con esso un appuntamento preciso, Mastriani lo preparò partendo dal fecondo equivoco che era per lui romanzo d’appendice europeo giungendo gradatamente, per successive correzioni del tiro, a provocare l’impatto con i lettori-protagonisti dei suoi pseudo-romanzi.

   Non si trattò di incontro fortuito, e Mastriani poté a ragione rivendicare la originalità del colpo di timone che egli aveva saputo dare al proprio lavoro. Ad un certo punto e precisamente dopo il ’60, sparito il Borbone e la sua ineffabile censura, svanisce anche la mirabolante drammaticità dei personaggi-fantasma e si fortifica la lenta calata di Mastriani verso i quartieri bassi, che dalla Medea di Porta Medina si farà sempre più circostanziata e decisa.

   Del ’63-’64 sono I Vermi, scopertamente privi del tradizionale supporto di una trama o di una peripezia unificante ed offerti in qualità di « Studi storici sulle classi pericolose di Napoli », cioè come contributo oggettivo di conoscenza, rinunziando allo schermo della illusione romanzesca. E sarà storia allusiva, trattata per exempla e raccontata secondo lo schema della notizia che, seppure non si avvale della cronaca materialmente documentata e non si appoggia pertanto alle prove di archivio, si dichiara d’imperio autentica interprete della verità e se ne appella alla coscienza ed alla scienza dei lettori. Una verità insomma novellistica, nel senso antico della tradizione italiana.

   Curiosità d’indagine, linguaggio, passione, rivelano a partire di qui una cosciente assunzione di responsabilità nuova, che resterà base comune per I Lazzari, Le Ombre, I Misteri di Napoli e che appare inizialmente mossa dall’impulso che all’autore fornì la speranza di una palingenesi etico-sociale da compiersi sotto ègida della unità nazionale. Ma se quella speranza dotò lo scrittore di mutata e rinnovata energia, bisogna anche dire che non lo travolse affatto, e che non fece di lui un predicatore locale di mirabili sorti e progressive. Tutt’altro: lo rese consapevole descrittore di piaghe antichissime di biblica mestizia e solennità, non medicabili dagli storici unguenti (garibaldini o sabaudi che fossero) ma solo di una tensione continua al bene, come oggetto di fede e di speranza, doverose virtù degli umani contro le miserie. Perché non soltanto il tessuto umano e sociale di Napoli è afflitto da ancestrale tabe, ma tutto il mondo, che semmai presenta in Napoli un esempio più palese e più sconvolto dei propri eterni contrasti di abbrutimento e di volontà di redenzione.

   Nascoste per molti anni sotto la superficiale esperienza romantica, riaffiorano dunque, insieme, la tradizione dell’illuminismo di fine settecento napoletano, ottimistica, ma profondamente delusa (una matrice che Mastriani ha in comune con altri assai, ma per intanto con Settembrini) ed i1 fondo di un cristianesimo soccorrevole, evangelico, ma anche biblicamente contristato e sofferente.

   « Et omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu, persecutionem patientur », avverte Mastriani mediante la seconda lettera di Paolo ai Corinzi, subito sotto il titolo dei Misteri di Napoli; e ad apertura del I libro rincalza con S. Giuda apostolo: « Hi sunt qui segregant semetipsos, animales; spiritum non habentes ».

   Il suo laicismo ed il suo fermissimo anticlericalismo si nutrivano di umanistica religiosità e pervennero ad un missionarismo sociale, ora polemico ora predicatorio, che rivela l’aspetto più originale del suo impegno narrativo. La sua esplorazione napoletana nasce da una tale dimensione, pre-ideologica, se si vuole, perché in parte istintiva ed irriflessa, ma certo non del tutto acritica e nemmeno tanto ingenua quanto è potuta apparire finora.

   Così, nell’ordine di quella volontaria esplorazione, ci accade di accogliere quell’interrogazione già riferita a titolo di sorpresa divertente circa la innocenza intellettuale di Mastriani (« Io vi domando in coscienza se si può scendere più in basso »), come un titolo di cosciente e coraggioso programma di lavoro, dove è da riconoscere molto onestamente che con la miseria e con il dramma delle « classi pericolose » (come le chiamava) egli non scherzò mai, né mai si fece a rappresentarle in chiave di colore locale, né mai ancora le eroicizzò, ma volle dare ad esse uno spazio umano e difatti glielo consentì largo e sostanzialmente espressivo di una verità inedita ed ancora inascoltata. Anche se nei suoi libri quel coraggio non riuscì a vestirsi mai di autentica verità d’arte, egli rispondeva a suo modo, e con generoso anticipo, al famoso invito di Francesco De Sanctis quando discorreva dell’Assommoir: « Questo racconto non è solo la storia di Gervasia, ma una storia sociale. E se volete averne un concetto guardate Napoli. Napoli non ha ancora i suoi quartieri bassi? Non vi è mai giunta la voce di certi covili dove stanno ammassati padri, figli, madri, senz’aria, senza luce, tra le lordure perpetue, cenciosi, laceri, scrofolosi, anemici?

   Nessuno di voi ha avuto stomaco di andare lì e studiare quella miseria: disgusto ce ne allontana. Ebbene questo coraggio lo ha avuto Zola [6] ». Sono parole del 1878 pubblicate sul giornale « Roma », dove da diversi anni proprio Mastriani veniva pubblicando le sue appendici. Leggendole, poté ben venire in mente al narratore di ricordare al grande critico che, coraggio per coraggio, I Vermi erano usciti nel 1864. Verismo a parte, d’accordo.

   Un coraggio maturato nel tempo attraverso il fluire del suo cordiale e per niente minaccioso fiume narrativo. Cristianamente fidente nella risolutiva giustizia (nella GIUSTIZIA, anzi) di Dio e certo che il progresso scientifico si identifica col progresso morale e sociale dell’umanità, Mastriani si commuove e si sdegna infinite volte degli spettacoli di degradazione che descrive. Talvolta giunge persino ad inalberarsi, ad ammonire i legislatori o a deprecare l’avarizia (maiuscola, la fonte di ogni male) con terribili accenti, senza però assumere mai l’atteggiamento del ribelle o dell’agitatore.

   Il suo « socialismo », come disse già l’Herelle, e tutto evangelico e umanitario (« C’etait un socialiste par charitè, quelque chose comme un socialiste chrètien ») nè la drammaticità avvocatesca dei suoi accenti deprecatori era fatta per spaventare chicchessia, quanto per difendere certi assiomi morali comuni e per esortare ad una vita più operosa e più civilizzata. Cosi, dopo due pagine di citazioni appropriate dal Vecchio e Nuovo Testamento, può in un certo caso concludere: « I popoli aspirano al benessere, al godimento dei beni della vita, da Dio conceduti a tutte le creature indistintamente… Queste continue aspirazioni ad uno stato di giustizia universale si traducono negli accessi febbrili di che son presi ad intervalli i popoli, in quella incessante animosità che questi hanno verso gli uomini che tengono in mano il potere, quasi che vedessero in costoro gl’istrumenti possibili, ma inerti del loro benessere; in quelle perpetue agitazioni, che, a guisa che avviene nelle acque, sollevano sempre a galla la melma dell’umanità. È indubitabile che la società si avvia per gradi insensibili al regno della sua maggiore possibile perfezione. Noi veggiamo nell’avvenire le istituzioni sociali elevarsi al livello delle istituzioni di Cristo Signore ».

   Non una ideologia, dunque, ma un sentimento fervido ed elementare, nutrito delle quotidiane osservazioni, di lettore (assai meno caotiche e assai più ricche di quel che si sospetterebbe secondo le antiche caricature) di assidue riflessioni sulle piaghe del corpo sociale e di un cordiale spirito riformistico di antico stampo, in virtù del quale Mastriani appare francamente, e con tutto il sussiego del persuaso buonsenso, i propri suggerimenti legislativi ovvero denunzia le crepe del sistema corrente. Viene allora sciorinando tutta la sua scienza moralistica, economica e statistica, dai classici più noti alle più impensate e pur importanti documentazioni contemporanee; e sono perorazioni saporitissime anche se slegate. Talvolta ovvie, ma raramente campate in aria.

   Rivolte ai napoletani che le coglievano in mezzo al racconto, ma soprattutto, nativamente concepite sulla misura della realtà napoletana, le senti tutte colorite di una eloquenza dialettale, anche se scritte in lingua, scandite e accentuate a quel modo, e pertanto aderenti alla situazione locale non meno che alla natura raziocinante ed al gusto oratorio dei lettori che se le godevano.

   Esposto, per esempio, in due lunghe pagine di cifre che volevano fare impressione, l’approssimativo calcolo del guadagno medio di una casa da gioco napoletana intorno al 1860, segue una tale conclusione, con tanto di indignatio finale di tipica intonazione partenopea:

   «… Totale fr. 445, vale a dire fr. 13.350 al mese, ovvero più di 160.000 fr. all’anno! Prego i miei lettori di non perdere di vista questa cifra, su la quale ritorneremo più appresso. Riguardo alla primiera e al mercante, non abbiamo notizie precise. Non sappiamo se possa darsi nel mondo vizio più infame del giuoco, il quale, per somma calamità sociale, e anche il più comune ne’centri di grandi e piccole popolazioni. Noi divideremo i giuocatori in due grandi categorie: – quelli che giocano per ozio. – quelli che giuocano per mestiere. – Ci occuperemo degli uni e degli altri […]. Un grandissimo numero di persone giuocano per uccidere il tempo, secondo la stolta incredibile frase di cui soglionsi servire questi scioperati. Uccidere il tempo! Insensati! E si ha il coraggio di mettere costoro nel numero degli esseri ragionevoli, delle creature pensanti, delle anime fatte ad immagine e similitudine di Dio! » ( ecc. ecc.).

   È un punto d’arrivo media della vis mastrianesca e va colto come esemplare non per il più suo immediato aspetto predicatorio quanto per la funzione connettiva e plastica a cui presiedono l’enunciato moralistico e il dettato didascalico rispetto all’amalgama narrativo. II che sarebbe ancora troppo ovvio dire, senza aggiungere che, nel Mastriani, il passaggio dalla esperienza concreta delle cose alla concitazione critico-oratoria e da questa, infine, allo scatto fantastico-documentario (cioè il personaggio specifico, la battuta illuminante, il fatto narrato che chiude il ciclo, postulando le «cose» di partenza) è processo che si compone in un solo tempo narrativo, i cui diversi atti si fondono sulla pagina (sulle tante pagine) senza sostanziali scuciture, senza cioè interruzione del discorso vero proprio, cioè del colloquio con il lettore.

   È proprio in questa dimensione discorsiva che entrano in azione i personaggi e che si affollano gli uomini ed i luoghi di Mastriani. Dal ricordo storico polemicamente aperto, come dal principio universale asserito, scandendo (« Gli avvenimenti umani son tutti concatenati da una mano invisibile, che regge l’universo morale siccome il materiale »; ma anche ed assai meno bene; « Agli Inglesi la Ragione, a’Francesi lo Spirito, agl’Italiani il Genio » ecc.), o dalla semplice esecrazione dell’ubriachezza (« Vogliamo fare qualche passeggera osservazione intorno a questo vizio dello smodato bere… Troviamo nell’Ecclesiastico… La legge ebraica del Levitico… Nel mese di giugno dell’anno 1863… ») prosegue conducendo il lettore alla piazzetta, al vico, alla cànova di un qualche quartiere napoletano, spostando continuamente l’azione da un punto all’altro della citta. E riesce comunque a legare ad ogni luogo la suggestione di un ricordo, di una illustrazione toponomastica o soltanto di un commento volante, infoltendo sempre e sempre marcando più intensamente la nozione e la cifra di una Napoli inesauribile. Fino al punto che, attraverso il prisma di quell’ ininterrotto narrare, la citta mastrianesca, questo macrocosmo contratto alle dimensioni di Napoli, acquista una densità vitale ed una consistenza drammatica che, oltre ogni smanco dell’arte, restano irrecusabili.

   Da quella folla di tipi, dalla marea delle descrizioni, da quella orgia di annotazioni di costume e di luoghi comuni (oh, gli elogi della està napoletana, rari e discreti eppur polemici anch’essi! « Lettori napolitani, voi già v’immaginate che cosa è una sera di està a Posillipo, con quella necessaria appendice che si addimanda la luna piena. Non voglio seccarvi con le solite noiose descrizioni… ») non sorge, del resto, una benché  minima facilitazione turistica. E ciò va detto per qualsiasi forma di turismo, itinerante o intellettuale che sia. Nè la Napoli di Mastriani si rimpicciolisce del resto mai alla misura del folclore, perché non suona per tarantelle, non mai ride di  « guappi »  smaglianti e inverosimili.

   Il chiaro di luna resta alla misura sua, in Mastriani, luce senza storia e senza compromessi che attenuino il male del mondo. Brutti, inoltre, per lo più, i suoi popolani, di quella bruttezza che è avvilimento fisico, stampo di dolori e di fatiche che pesano e schiacciano fronti e toraci; una gente le cui passioni ed i cui costumi non hanno né colore né allegria. Gente che non dà e non ha riposo.

   Bene disse, del resto, Domenico Rea che i romanzi di Mastriani « non fanno ridere ». Non fanno ridere invero, mai, assolutamente. Quella Medea di porta Medina, l’eroina del romanzo omonimo. che siede coi suoi tinnanti gioiellini d’oro suo banco di cambio, quasi in mezzo alla strada e che saggia i « grani » e le mezze piastre con sprezzo, tutta arsa dal suo fuoco, non fa ridere. È  un affamata amante senza lusso, triste e feroce come una gatta malata. E mentre si batte pazzamente in quel vicolo, comare contro comari, a terribili colpi di zoccolo e di spilloni, tra sangue, insulti e guardie, riesce stupendamente a non essere mai « pittoresca ». Poco manca, invero, alla Medea di Mastriani per essere un romanzo da rileggere volentieri. Non insistiamo, ma l’immagine napoletana che se ne coglie è, in ogni caso, severa ed inquietante, com’è solenne la semplicità rituale di certi duelli della camorra, rifatti poi invano da scrittori tanto più esperti.

   Beninteso, l’episodio singolo in Mastriani non vive se non in funzione diretta della sua interminabile vicenda collettiva e chiede legittimamente di essere colto al punto determinato di quel discorso unico e continuo che, dalla Cieca di Sorrento fino ai Misteri di Napoli e fino ancora alla morte dell’autore, costituisce quasi senza pause (penso alle sfrangiature romantiche, all’esotismo dei primi libri ed alle strozzature dei romanzi storici, quali il Nerone in Napoli e la Messalina) un solo e perenne racconto della vita partenopea.

  Tra ombra e luci di una prosa che ha la forza stralunata delle inondazioni, non rivendicabile all’arte eppure di momentanee riuscite che violentemente sorprendono, gli episodi e i brani, cioè le vere, legittime unità del contesto potranno anche apparire come ripieghi, dissociazioni sperimentali, facili a contraddirsi nel racconto ininterrotto di Mastriani. Ma la verità e lì. A partire dalle testimonianze curiose di costume e di cultura, per esempio quelle del «bagno a pioggia », ammirato chissà quando e dove dallo scrittore (e citato con infantile entusiasmo come una perla del prezioso villino del conte di Sierra Blonda); dalle dissertazioni anatomiche, filosofiche o relative alla tecnica imbalsamatoria;  

dalla descrizione, ancora, del cimitero di Pisa, fino alle bordate anti-francesi del Federico Lennois, fino al gergo brigantesco ed alle immagini della vita della camorra, Mastriani concede ogni possibilità di svolgimento. Vana, per contro, e disperante, sarebbe la ricerca minuta delle sue fonti, specie sulle pagine dei primi romanzi, là dove si pigiano anche in brevissimo spazio Dante, Lamennais, Byron, Foscolo, Manzoni, magari il Padre Segneri, e Rousseau, i Testi Sacri, e dove un periodo che comincia con un solennissimo « imperciocchè » e che s’infiora di fiorentinismi più peregrini, sbotta all’ultimo nel dialettalismo o nel gergo meno prevedibile. Ma il capitolo sul linguaggio narrativo di Mastriani è ancora tutto da scrivere.

   Una esemplificazione interessante sarebbe quella che cogliesse lo sviluppo di un solo tema mastrianesco: per esempio quello già accennato dell’usuraio. Non ne uscirebbe tanto la nozione di un progresso, nel senso di una improbabilissima approssimazione all’arte, quanto di un sicuro progresso del conoscere, e di una immedesimazione sentimentale più vicina alla realtà del suo popolo, di quello cioè, che abbiamo già chiamato il suo pubblico protagonista.

   Per uno scrittore quale fu Mastriani non ci sono ancora misure collaudate di giudizio. Più  veritieramente  c’è il rischio di chi ne consiglia la lettura e ne giustifica responsabilmente la vitalità o, come oggi si usa dire, l’attualità.

   Noi non abbiamo preconcetta compassione per le grandi folle che furono protagoniste del meraviglioso pasticcione che fu Mastriani, ma nei Misteri di Napoli, come nei Vermi, nella Medea e nei Lazzari ammiriamo uno scrittore che ha saputo far vivere senza ombra di provincialismo la realtà drammatica di una vecchia capitale decaduta e costretta a crescere sul letto di contenzione di un capoluogo di provincia del piccolo regno d’Italia.

               GIULIANO INNAMORATI  ( Perugia 1926- Firenze 1988, è stato un docente di Letteratura italiana all’Università di Firenze).

[1] B. CROCE, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900; in La letteratura della nuova Italia; Bari, Laterza, 1915, pp. 284-7.  

[2] F. Verdinois. Profili letterari napoletani, Napoli, Morano, 1882. Le nostre citazioni dipendono, tuttavia, dalla più recente edizione curata da E. Craveri Croce ed intitolata: F. V., Profili letterari e ricordi giornalistici,: Firenze. Le Monnier, 1949. In questa edizione i1 profilo del Mastriani si trova nelle pp. 191-202.

[3] F.Verdinois, op. cit. p. 200.

[4] F.Verdinois, op. cit. p. 198.

[5] A. PALERMO, Dopo il ’60, in AA..VV., Napoli dopo un secolo, E. S . 1961, p. 362.

[6] F. DE SANCTIS, Zola e l’Assommoir, in Saggi Critici, a cura di Luigi Russo, Bari, Laterza, 1953, p. 315.