I.
«Ho ventisette anni e quattro cento piastre di rendita al mese; trovo il pranzo sempre lesto e copioso; mi chiamo Benedetto; son bello e ben fatto; le donne mi amano alla follia, i miei amici mi vogliono un bene pazzo; canto in chiave di basso e prendo tre fa; ballo il valzero saltante; conosco la scherma, e tutti mi chiamano leone. Quanto sono infelice! sotto qual cattiva stella sono dunque io nato! Sono io dunque destinato a non provare nessuna commozione, nessuna contrarietà, nessun rifiuto! E non ci sarà per me un poco di acido su questo bicchiere d’acqua inzuccherata che debbo tracannare ogni giorno!…
Questo strano monologo faceva un giovine seduto sovra una comodissima poltrona, libando il fumo dilettoso di un sigaro d’Avana. Era costui un buon diavolaccio, modesto benché giovine, semplice benché ricco, e generoso oltremodo verso la povera gente; ma il signorino si trovava infelice di essere uno di quei privilegiati che si dicono ricchi. egli credeva che aver 400 piastre di rendita al mese sia la più grande miseria della vita (auguro al mio lettore la stessa miseria). Si lagnava continuamente del vuoto dell’esistenza, della troppa sua prospera fortuna, della facile condiscendenza delle donne e del seccante attaccamento che avean per lui tutt’i suoi amici.
Dopo aver per quasi un’ora oziosamente contemplato le colonnette di fumo che gli uscivano dalla bocca, come i vapori di quell’anima annoiata, per darsi un’ occupazione, trasse da un elegante portafogli una decina di letterine, e si pose a leggerle sbadatamente. Quattro o cinque non le aveva ancora finito di leggere che già erano andate sepolte in un fascio di altre consimili; altre quattro o cinque le aveva lacerate, perché tutte le avea trovate insipide, sdolcinate, amorosissime, e tutte quante erano sottoscritte la tua costante – Questa eterna costante di tante innamorate, questi amori facili, questi tanti matrimonii in prospettiva avevano infastidito l’infelice Benedetto, il quale stava per distruggere l’ultimo foglietto, quando, gittati a caso gli occhi sulla firma, vi lesse un nome che gli fece togliere il sigaro dalla bocca, segno della massima attenzione che egli poneva a quella lettura. Il biglietto era così conceputo:
«Signore – Vi scrivo per la prima e per l’ultima volta; avvertendovi che, se non porrete un termine alle persecuzioni che mi state dando con le vostre occhiate, mi costringerete a chiudervi in faccia il balcone – La vostra serva Errichetta C. »
Benedetto è sorpreso, incantato, gongolante di gioia. il suo sigaro si è spento (segno della sua più forte commozione); il suo sguardo balena d’insolita allegria.
«Cielo, ti ringrazio! – egli esclama – ho finalmente trovato una donna che mi fa opposizione; ho finalmente per le mani un romanzo più intrigato; potrò finalmente vincere combattendo!».
E Benedetto usciva per la prima volta a passo celere.
II.
Dopo un quarto d’ora di corsa disperata, Benedetto si trovava in un breve salotto, dov’erano soltanto due o tre sedie. Una vecchia fantesca lo introdusse poco stante in una stanza più decente, ed ivi lo lasciò dicendogli che la signorina si sarebbe affrettato a riceverlo. Ed in fatti, non andò guari che una giovane piuttosto bruna, ma di una sorprendente bellezza d’occhi, vestita con ricercata semplicità, si presentava dinanzi all’azzimato signorotto.
«Che! Signore, che volete? chi vi ha dato il diritto di presentarvi in mia casa quando son sola?».
«Perdonate, bellissima Errichetta, perdonate la mia temerità; ma io non poteva vivere senza vedervi, senza parlarvi da vicino».
«Voi dunque non avete ricevuto un mio biglietto?».
«Sì certo, ed è per esso che io venni. Errichetta, concedetemi di credere che io non meritava quell’atroce biglietto. Io vi amo di amor vero; la mia passione…».
«Tacete, Signore; le vostre parole mi offendono; voi dunque non sapete…».
«Io non so altro che ti amo da pazzo, che son figlio del più ricco e accreditato negoziante di questo paese; che posseggo per ora 400 piastre di rendita al mese; che son libero, e che se vuoi, domani ti farò mia sposa».
«Adagio, adagio… mio signore, il mio dovere…».
«E che m’importa del tuo dovere! Io voglio il tuo amore!».
«Oh! il mio amore!».
Errichetta si sedé, passò la sua mano in un lacciuolo di capelli che le cingeva il collo, e restò con gli occhi bassi e pensosi per qualche tempo. Levò poscia su Benedetto i suoi grandi occhi neri, lo guardò fisamente e nulla disse. Un ardito pensiero, un intrighetto pericoloso le si era affacciato alla mente; ella però non sapea trovar termini per conciliare la sua modestia di donna con l’idea che le era saltata in capo, e che favoriva egregiamente i suoi disegni. Un furbesco sorriso le balenò sulle labbra, come quando si tende un laccio a qualcuno.
«Ebbene, Errichetta, posso io sperare?..».
«Qual è il vostro nome, signore?».
«Benedetto».
«Mi amate voi veramente?».
«Se ti amo! Errichetta mia, tu sei la prima donna che…».
«Basta, basta, vecchia canzone di voi altri spezza cuori…».
«Ebbene?».
«Ebbene, signor Benedetto, io…».
La giovane si fe’rossa, e abbassò gli occhi».
«Sì, tu… parla dunque… E perché abbassi gli occhi? Oh no, Errichetta, guardami sempre; i tuoi occhi sono così belli: vorrei divorarli!».
«Cattivo! voi m’ingannate!».
«Errichetta! parla pure, di’con coraggio».
«Signor Benedetto!».
«Parlami col tu».
«Oh! voi siete… tu sei così ricco… così gran signore!».
«Tu sarai ricca quanto me, se mi ami; o, se vuoi, abiteremo un umile casolare, una soffitta…».
«Benedetto!».
«Errichetta!».
«Seduttore!».
E via discorrendo. Errichetta, concedendo al giovine ampia libertà di amarla, non gli permise però di venir da lei tutt’i giorni, soltanto eglino parlavansi davvicino in capo a qualche settimana, ed una mattina vi fu tra loro questo dialogo.
«Errichetta, dammi un riccio dei tuoi capelli».
«Briccone, e la tua promessa?».
«Quale, bella mia?».
«Oh che smemorato! mio fratello!».
Benedetto si dà un colpo in fronte.
«È vero, perdona. Mandamelo domani a casa, ed io ti do parola che non passerà questa settimana, ed egli sarà partito per Lione in qualità di commesso viaggiatore».
«Bravo! ora eccovi le forbici, tagliate voi medesimo un riccio dei miei capelli».
«Cara! lo terrò sempre sul cuore, lo bacerò sempre… Anima mia, dimmi un’altra volta che mi amerai sempre».
«Sì Benedetto, io ti amerò sempre».
Uno sbruffo di risa partì da qualche luogo; ma niuno si vide. Benedetto si alzò furioso, e dimandò chi aveva riso; ma la giovane si affrettò a dirgli che nella stanza contigua era una sua sorella, la quale avea perduto il bene della ragione.
III.
Erano le dieci del mattino, ed in una cameretta d’un vasto e ricco appartamento regnava ancora solenne la notte; se non che le indorate suppellettili che poc’anzi giacevano coperte dalle tenebre, ora per effetto di un furtivo filo di luce che veniva non so di dove, mostravansi quali ombre di mostri; e, laddove prima non si udiva altro che i sordi battiti d’un elegante oriuoletto a cilindro sospeso al dito di una Venere d’avorio, i quali tocchi misurati e distinti dir si poteano le pulsazioni del cuore di quella statuetta, ora il silenzio veniva come frastornato dal riverbero delle prime voci d’una popolosa città. Il sonno leggiero, tepido, soave come un bacio stendeva i molli suoi papaveri sulle laminette di un grazioso capo di 27 anni: ed un sogno poetico come una villetta al tramonto del sole aleggiava i suoi mille colori sulla fantasia di Benedetto.
Un servo, dietro un ordine ricevuto la sera antecedente, sveglia il nostro innamorato dormiglione, e gli annunzia Adolfo C.
«Fallo entrare» dice Benedetto aprendo un sol’occhio.
Un giovine di bello aspetto si caccia nella camera. Egli è vestito con un soprabito nero a guisa di polacca, col bavero di seta; ed ha nelle mani uno sterminato panamà. Tutta la sua persona accusa una visibile pretensione alle maniere artistiche, comechè l’estrema bianchezza e sottigliezza delle sue mani tradiscano in lui l’uomo educato alla oziosa abitudine dei guanti e della mollezza. Queste considerazioni per altro le facciam noi, perché Benedetto non guardò neppure.
«Siete voi Adolfo C…, il fratello della signorina Errichetta?».
«Sì, signore».
«Parlate speditamente il francese?».
«Sì, signore».
«Siete pronto a partire?».
«Sì, signore».
«Prendete. Su questa colonnetta sono lettere di raccomandazione per Lione e Marsiglia, ed una cambiale di 2000 franchi. Domani potete partire».
«Signore, e come potrò mai esservi abbastanza grato…».
«Non è niente; farei lo stesso per ogni altro; tanto più per voi. Dite a vostra sorella che questa volta Benedetto non è uno smemorato».
«Signore… voi siete il benefattore di tutta la mia famiglia… Voi…».
«Va, giovinotto; capisco perché mostri tanta gioia di esser ben impiegato… qualche amoretto…».
«Nol niego, signore. La mercé della vostra bontà, stasera io sposerò la persona che amo, e domani partiremo insieme…».
«Prosit, mio bel giovine; il cielo vi benedica e vi accompagni».
E Benedetto chiuse di bel nuovo l’occhio che aveva aperto.
IV.
Il domani, Benedetto, cui le virtù d’Errichetta scaldavano vieppiù d’amore, recossi in casa di lei… Ma qual fu la sua sorpresa quando, invece di Errichetta, trovò un biglietto in questi termini concepito – «Signor Benedetto, io sono partita; e vi ringrazio di tutto cuore dei favori accordati al mio sposo Adolfo… Errichetta C…».
Benedetto baciò lo scritto; e levò gli occhi al cielo, e sclamò con l’accento della più viva soddisfazione:
«Oh! finalmente provo la commozione di un tradimento!».
FRANCESCO MASTRIANI