Quando io era fanciullo di otto o nove anni; quando la vita era come un giocherello, una continua festa, mi ricordo che ci era un giorno di rara eccezione, un giorno in cui la cui alba mi trovava pensoso e accigliato con infinita malinconia nell’animo; e quel giorno era appunto quello che è segnato nel calendario il cinque novembre. Non potrei far comprendere il doloroso ridestarsi in quel giorno che paragonandolo al primo dì in cui uno si sveglia in prigione. Il 5 novembre e quel dì nefasto che succede immediatamente alle vacanze di ottobre e in cui ricomincia la schiavitù della scuola.
Bisogna dire che i genitori e i maestri fanno tutto il possibile per rendere vie più triste e maledetto questo povero 5 novembre. Voi li sentite spesso, nel corso delle vacanze di ottobre, minacciare per qualche impertinenza i loro figliuoli ed allievi con queste parole: A novembre ci vedremo; a Novembre; a novembre vi aggiusterò io; novembre ha da venire! ed altre frasi cotali in cui questo povero mese di novembre rappresenta, nella immaginazione dei fanciulli, quello stesso fantasma che vi rappresenterebbe il Mammone, il Monacello ed altri somiglianti spauracchi. Figuratevi con che animo debbano quei tapinelli vedere approssimarsi le calende di questo terribile mese!
Ben mi sovvengo che fin dal primo albeggiare del 4 novembre io era di quel medesimo umore di un condannato a morte che nel dì vegnente debbe aver mozzato il capo. I giuochi ed i sollazzi che mi faceano così lieto per lo addietro ne’ cari giorni di ottobre, or mi raddoppiavano la malinconia nell’animo; ed io li detestavo però che mi sembravano insulti al presente mio stato. E i miei genitori che con raffinata barbarie di tenerezza voleano in quel giorno farmi assaggiare tutte le delizie della vita domestica!
Non era niente il cordoglio di veder passate le care vacanze rispetto alla noia indicibile di dover ritoccare i polverosi libri, le cartelle gittate con gioia in su i vecchi armadii della casa! Bisognava pel domani avere scritto dieci verbi latini, tradotto 4 capitoletti dell’Epitome, imparato a memoria una decina di stanze della Gerusalemme Liberata, fatto una dozzina di somme, di sottrazioni, di moltiplicazioni; bisognava insomma aver ingozzato mezza libreria infantile! Or vedete se ciò era possibile con quello spasimo che si avea sul cuore! Questa era importabil fatica anche per tre o quattro giorni; figuratevi se fornir poteasi in quel 4 novembre!
Si pigliava un libro, e tosto si mettea da canto; si dava mano ad un quaderno, e, dopo di avervi tirato su di grandi aste e maiuscole rachitiche, per la fretta di veder spacciata una pagina, si rovesciava il calamaio sulla carta invece del polverino; ed era a rifare il compito! spesso la giornata se ne iva senza aver fatto presso a poco niente.
La notte terribile dal 4 al 5 non si dormiva. Era una smania, una stizza, una folla di care e angosciose rimembranze degli svaniti divertimenti, dei sollazzevoli diporti coi compagni, delle gite nelle ville, delle merendelle sull’erba, dei giuochi della gatta-cieca, dei fossetti, dei soldati; era un diluvio di ricordi che si riproducevano in tutta la calda vivacità del desiderio per punzecchiare il cuoricino dello scolaro ed ottenebrarlo di tristezza.
Egli è certo ch’io passava tutta quanta in veglia quella notte interminabile. Nella desolazione che mi opprimeva io invocava come supremo bene la febbre che mi avrebbe ritenuto in casa per qualche altro giorno; avrei invocato forse anco la morte, se a quella età si può comprendere esservi al mondo un certo stato negativo che si domanda la morte.
E quando la speranza di esser colto dalla febbre svaniva colle ultime ombre della notte, un’altra ultima speranza faceami palpitare il cuore con crudel trepidanza, ed era il sentir battere la pioggia contro i vetri della finestra, l’udir lo scroscio del tuono che per lo scolaro ha sempre una infinita dolcezza di melodia, il veder guizzare un lampo attraverso le imposte!.. Ah! illusioni, speranze deluse!
L’alba del 5 novembre, fredda ma rosea, mi coglieva nel mio letto, cogli occhi infossati dalla durata veglia, pallidissimo e cupo come il più disgraziato degli esseri viventi. Ci voleano le cannonate per smuovermi da quelle piume e per farmi andare incontro al fantasma della scuola divenuto tremenda realtà.
La scuola! incubo della fanciullezza, gleba imprecata a quella età, schiavitù quotidiana! Chi fu che inventò la scuola? Oh, non lo nominate; risparmiate la sua memoria alle maledizioni di tutte le nascenti generazioni.
Francesco Mastriani
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Pubblicato su il giornale La Domenica l’11 novembre 1866.