Byron nel suo Don Juan chiama il sole del mezzo giorno indecent sun (sole indecente), e la stagione estiva a very dangerous season (stagione pericolosissima). Noi perdoniamo all’atrabile del poeta inglese l’aver così indegnamente calunniato il sole e l’està, queste due grandi provvidenze del basso popolo. Gli è vero che Lord Byron in quel suo poema parlava del sole delle Spagne, ma alla fine è un po’troppo, mi sembra, il chiamare indecente quella magnifica lumiera sospesa al palco a volta dell’universo creato, come direbbe un cinquecentista. Che i poeti abbiano dato all’astro del giorno gli epiteti e gli aggiunti più strani e bizzarri, non è a farne maraviglia, perciocché i poeti sono una razza di animali che non parlano siccome parlano tutti gli uomini di questa terra; ma che sia venuto il ticchio ad un nebbioso britannico di porre all’indice delle cose proibite come indecenti nientemeno che il sole, è tal cosa che ne farebbe impazzare, se non sapessimo che uomo scapato era l’autore del Don Giovanni, il quale par che avea dichiarato la guerra agli astri, imperocchè in parlando della luna, e pigliandosela con quelli che la chiamano casta, dice, The devil’s in the moon for mischief (il diavolo si è ficcato nella luna per far del male), e soggiunge che non vi è giorno dell’anno, anche il più lungo, come il 21 giugno, che vegga compiersi tante male opere quante ne vede in tre ore quella bircia della luna, facendo la modestina. Ma lasciamo da parte le strambezze di Lord Byron, e venghiamo al nostro argomento.
Abbiamo detto su che il sole e l’està sono le due grandi provvidenze del basso popolo, e nissuno certamente verrà a darci una mentita. L’inverno è aristocratico come un conte; le veglie, le feste, i balli nelle splendide gallerie, le conversazioni accanto a’fiammeggianti alari del caminetto, i pranzi protratti fino a notte, le seggiole imbottite di caldi crini, le soffici poltrone in cui il corpo si affonda come in un corbello, i banchetti ravvivati dal vino di Sillery, le stufe, i caldani, le pellicce; ecco vasto campo al lusso ed agli splendori della vita. Il ricco dorme in està e si sveglia l’inverno, il povero pel converso non vive che nella stagione delle frutte.
L’està è dunque il tempo della cuccagna pel nostro popolano: ei ritrova in questi mesi dell’anno la consueta sua ilarità e spensieratezza; tutto basta alla sua vita; egli è felice, pienamente felice; la dimane gli dà poco pensiero, però che sa non potergli mancare il suo banchetto da principe, vale a dire, il suo piatto di vermicelli col sugo di pomidoro, la sua caraffa di asprino, [1] e le frutte a piene mani; e tutto questo per una meschina moneta, che egli saprà lucrarsi con uno de’mille mestieri che l’està gli porge l’occasione di esercitare. Né crediate che il nostro popolino si dia grandissima pena per iscegliere quale delle tante industrie gli convenga di preferenza; tutte le son buone per lui, tutte le abbraccia quando fa d’uopo provvedere alla sussistenza del giorno. Un carlino, ed egli è ricco, ricchissimo; questo danaro gli basta pel pranzo e pe’divertimenti del giorno; tre grana di maccheroni, un grano di asprino, un grano di pane, un grano di frutte, un grano di sorbetto, e tre grana per un biglietto alla piccionaia del teatro Sebeto. Dimandate a coloro che spendono dieci piastre al giorno, se la sera vanno a letto più contenti e soddisfatti del nostro popolano, il quale, diciamo in parentesi, ha un letto che ha per materassi la terra, e per copertura il cielo co’suoi arabeschi di stelle.
Credete forse che i gelati, i sorbetti, le limonate, sieno dolcezze ignorate al monello e al lazzarone? V’ingannate a partito. Guardate quell’uomo dal volto ridente e gioviale, rubicondo di salute; una larga paglia covregli il capo; una specie di grembiule alla scozzese, o per meglio dire, all’arlecchino, sorretto alla serra de’calzoni da una cintura ordinariamente rossa, indica in qualche modo il mestiero al quale egli è addetto; perocchè que’tanti colori vivaci sono altrettante immagini de’suoi sorbetti. Egli ha presso al destro piede un secchione da pozzo pieno d’acqua per isciacquarvi le diverse maniere di bicchieri contenuti in un arnese poggiato sul medesimo secchione, e diviso in parecchi scompartimenti; al lato manco riposa a terra un recipiente di legno, ove contiensi la neve per raffreddare e congelare la massa de’sorbetti racchiusi in altro vaso cilindrico di stagno, al quale egli imprime sovente un moto di rotazione per viemmargiormente compire l’opera della congelazione. Nella destra mano sta baldanzoso un conico bicchiere con entro un bianco sorbetto piramidale alla cui cima vedesi una striscia rossa di altro sorbetto: questo bicchiere dà una perfetta immagine del nostro Vesuvio, ricoperto di neve, e solcato in uno de’fianchi da fiammeggiante lava. L’altra mano del sorbettiere ambulante stringe uno strumento di stagno, di rame, o di altro metallo, col quale attinge dall’imo del vaso i sorbetti, e con grazia particolare gli adagia su i bicchieri porgendoli maestosi e con la punta ritta a qualche tarchiata nutrice o a qualcuno della turba de’laceri monelli che gli fan corona. Nu rano a giarra! ecco la parola magica che attira, che seduce, che inebbria, e rinfresca. [2] Quali sono gli ingredienti di questi sorbetti? Quale la materia principale? Quale il sapore? Ecco il mistero. Sfido il più esperto chimico a scomporne gli elementi o il ghiottone più raffinato a definirne il gusto. Tutta la scienza di Donzelli [3] è infusa, diffusa, profusa, e confusa in quel magico cilindro che mai non si esaurisce, avvegnachè grande sia il concorso di quelli che vogliono essere rinfrescati. Vedi maraviglia! Questi sorbetti sono congelati a tal perfezione, che diventano duri come pietre, eppure nell’assaggiarli non si prova nessuna sensazione di freddo; ed in questo si ammira la filantropica prudenza del sorbettiere ambulante che sa risparmiare a’suoi avventori gl’infreddamenti, le congestioni, i catarri, e sa badare alla conservazione de’loro denti.
Le ore in cui vedesi per le strade questo rinfrescatore dell’umanità lazzaresca sono appunto le contrarie de’rinfrescatori dell’umanità puro sangue. Egli sceglie però le ore canicolari, la controra (come diconsi in Napoli le prime ore pomeridiane) e talvolta il mattino. I suoi campi di spaccio sono il Largo della Carità, il Largo del Castello, il Largo del Mercatello, ed altri Larghi e Piazze, abbenchè non raramente s’incontra sopra i così detti quartieri ov’egli goda fama e credito esteso.
Ma volgiamo lo sguardo ad un suo più modesto confratello, parimenti ambulante, il quale più veridico e sincero, non chiama gelata la sua merce, ma con la più grande ingenuità del mondo, e con voce chioccia esclama: acqua ca n’ha vista maie a neve! né oggidì è tanto facile imbattersi in gente così franca e dabbene! Tutta quell’ agglomerazione di arnesi onde compongonsi le panche di acquaiuoli immobili, [4] è ristretta quasi in miniatura, sulle spalle, sull’ombelico, e nelle mani de’mobili acquaiuoli. Vedetene la figura che offriamo congiunta al presente articolo. Qualche cosa di più sciatto e sciamannato si osserva nel costume di quest’uomo destinato a percorrere meno nobili quartieri. Soltanto in occasione di feste popolari vedesi per le strade più nobili della capitale raggirarsi questa specie di panca ambulante, che ha due cose di più delle panche di acquaiuoli, vale a dire, i piedi, e un’anima. Una paglia covre del pari la testa africana di quest’uomo, ma la è messa a sghembo, e talvolta sospeso al cocuzzolo; una cassettina gli sta dinanzi, a guisa di giberna, dove, invece di palle e cartucce, scorgonsi danaro ed anisi (specie di confetti omeopatici). La presenza di quest’uomo si rivela dal perpetuo sbatacchiare del coperchio della sua cassetta, che si sposa al monotono grido ch’ei va mettendo per le strade. [5]
Andate in quella bolgia di Dante che si chiama Teatro Sebeto; ficcatevi nell’orrendo speco del teatro di Donna Peppa; e scorgerete l’acquaiuolo ambulante in tutta la maestà della sua carica. Discreto amico delle belle arti, egli non frastorna, durante la rappresentazione, la somma attenzione ed il sempre crescente interesse onde sono animati gli spettatori; ma, circospetto e educato, egli non si caccia nelle file del rispettabile pubblico che negl’intervalli degli atti. Egli s’insinua allora fra i corridoi, gridando: acqua, ne comannate? E vedi gli assetati spiriti di Dante assaltare il tridente dell’acquaiuolo, e disputarsene i bicchieri su di essi poggiati; il batter della cassetta diventa allora un frastuono frequente e monotono per la necessità di porvi i torneselli che vi piovono da ogni parte, e di trarne gli asinelli, ch’ei dà per soprammercato, quasi per fare ammenda della poca o della nissuna freddezza dell’acqua. Il fischio che accompagna il levarsi della tela, dà il segno dell’allontanamento all’acquaiuolo ambulante. Dove si reca egli in questo frattempo? Mistero! Forse ei si porta in qualche solitario luogo a meditare sulle vanità della vita umana, e sulla vera sostanza de’piaceri mondani, i quali han quasi tutti i sapori dell’ acqua fresca!
FRANCESCO MASTRIANI
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[1] Vin bianco, che si fa in diversi luoghi della provincia di Terra di Lavoro e spezialmente nella città di Aversa. Il Redi nel suo ditirambo lo definisce a questo modo:
Quel d’Aversa acido asprino
Che non so s’è agresto o vino.
[2] Vedi figura 1.
[3] La rinomanza che godono i sorbettieri napolitani si è sparsa per quasi tutta Europa; e molti di essi sono espressamente chiamati nelle altre città d’Italia e d’oltremonti per insegnare a fare i sorbetti alla napolitana. Il capo-scuola fu il rinomato Vito Pinto da cui vennero i nostri migliori sorbettieri e fra costoro il primato ora si spetta a Raffaele Donzelli.
[4] Vedi figura 2. ‒ Questi acquaiuoli sono i più elevati della loro casta; e le bevande che danno agli avventori sogliono essere di acqua semplice; col succo di limone o di arancio ovvero col senso di anisi che chiamasi volgarmente sambuco; il così detto poncio alla calabrese, composto di acqua, sambuco e limone; il misto che si compone di acqua, sambuco, limone e arancio; e gli acquaiuoli più aristocratici in queste bevande mescolano ancora dello sciroppo di capelvenere.
(Nota dell’editore)
[5] Vedi figura 3.
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Figura 1
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Figura 2
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Figura 3