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Questa edizione è in possesso degli eredi Mastriani
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PREMESSA
Può sembrare una futile impresa ricavare dall’opera di uno scrittore come Corrado Alvaro, temi che consentano un discorso su Napoli. Devo perciò precisare che questa pubblicazione non nasce dall’intento di arricchire, con un’ennesima testimonianza autorevole, la foltissima letteratura sulla città. Alvaro visse a Napoli una breve e amara esperienza, e ne derivarono sue impressioni, suoi giudizi, che mi è sembrato opportuno ricondurre alle origini, cioè alle circostanze, all’epoca, in cui furono affidati alle pagine di un diario. Lo feci inizialmente in un saggio apparso sulla rivista «Nord e Sud», che poi andai ampliando, nel dubbio di non aver chiarito abbastanza, e spinto dal desiderio di rendere più concreto l’omaggio a un autore che mi è particolarmente caro. Ne è nato un testo, quasi antologico in qualche punto, che probabilmente incuriosirà tutti coloro che assiduamente cercano Napoli nelle librerie. Lo pubblico però nella speranza di poter recare un contributo, sia pure minimo, agli studi su Alvaro, illustrando un episodio quasi ignorato e altamente significativo della sua vita, sottolineando il suo impegno di meridionalista, offrendo una documentazione della sua attività di scrittore politico.
FEDERICO FRASCANI
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DUE NAPOLETANI ILLUSTRI
Anche per dar risalto a quest’altro volto alvariano di Napoli (e dintorni) avrei potuto citare ancora a lungo. Ma mi sembra non si debba insistere in un lavoro di compilazione, intrapreso del resto soprattutto per rivolgere l’invito a leggere o rileggere tutto Alvaro e non soltanto il diarista, il saggista, che dietro le ingannevoli apparenze alle quali si fermano i più, seppe scoprire aspetti della realtà italiana che gli consentirono interpretazioni felici e giudizi accettabili. È però necessario ancora, far cenno delle pagine da lui dedicate a due napoletani illustri; uno dimenticato, e forse ingiustamente, l’altro invece, più vivo che mai nelle coscienze e anche per essersi sacrificato in difesa della libertà e della democrazia, al tempo della dittatura. Mi riferisco a Francesco Mastriani e a Giovanni Amendola.
Le pagine che Alvaro ha scritto su Mastriani si incontrano in uno dei capitoli di Itinerario italiano. Lo scrittore di romanzi d’appendice che, nel secolo scorso aveva saputo commuovere generazioni di napoletani, ebbe lettori fedeli anche tra le popolazioni delle altre regioni del Sud, nelle quali giungeva il giornale che pubblicava a puntate le sue narrazioni. Alvaro fanciullo e adolescente dovette sentir parlare di Mastriani in famiglia. E forse anche per questo, durante uno dei suoi soggiorni napoletani degli anni che seguirono alla seconda guerra mondiale, volle accertare che consistenza avesse il ricordo da lui lasciato nella città dove era nato e aveva vissuto. Questa indagine consentì ad Alvaro di scrivere: «Ho trovato ancora qualcuno che si ricorda di Mastriani. questo nome dirà poco ai settentrionali, ma è noto e amico ai meridionali, specie a quelli nati nei paesi dove i libri di Mastriani arrivarono con Ponson du Terrail, de Kock, Montepin. Piccolo di statura, calvo, con baffi e barba alla Napoleone III, indossava un vecchio vestito nero e un gilè bianco. Siccome aveva la mania delle cravatte, la moglie diligente gliene ritagliava in ogni straccio e in ogni residuo di vestito e di stoffa. Egli si vantava di possederne sessanta. Portava in tasca una boccettina d’inchiostro, e dove che fosse scriveva. Era celebre nel popolino. Qualcuno lo indicava come “l’autore dei romanzi di Mastriani”. Scriveva anche aspettando i signorini cui dava lezione di lingua e di grammatica, oltre che di inglese e di francese, per arrotondare il magro bilancio familiare. Faceva anche brindisi in rima, cantava e suonava, dirigeva bene le quadriglie nei balli familiari. I suoi romanzi sono storie complicate di donne cadute nella colpa per bisogno, di donne che abbandonano il frutto della loro colpa e lo ritrovano dopo molti anni nell’abiezione, di figli spurii che ritrovano i fratelli legittimi, di ricchi e di stranieri che portano di colpo una povera fanciulla del popolo e una traviata al matrimonio, di personaggi che muoiono e risuscitano perché il pubblico reclamava al giornale nuove puntate del romanzo; e poi mezzani, ladri, assassini, venditori di carne umana, tutta l’organizzazione intorno alla colpa e al delitto. Fra gli altri, poiché nella sua fantasia si confondevano i suoi casi personali e quelli dell’umanità, uno dei suoi fantasmi è il padrone di casa, ossessione del popolino napoletano come del povero romanziere. Con una fantasia sbrigliata, in una lingua tra accademica e dialettale, sollecitato dal primo libro che gli capitava sotto occhio, vedeva al modo del comico Altavilla ragazze e carrozze dal fondo della sua miseria. Descriveva alla brava la vita del lusso. ma è questa una prova dell’animo suo, senza invidia e senza desideri malsani. Aveva dei meridionali la facile impressionabilità verso i problemi filosofici e sociali, il risalire dal particolare al generale, e il ridurre il generale a un particolare. Peccato che non fosse un artista e non riuscisse a cucire insieme i suoi personaggi, tanto che i suoi romanzi si possono considerare una lunga digressione sui problemi sociali, intramezzata da brevi descrizioni di caratteri e di passioni che non riescono a mettersi mai in movimento, con quella illusione di vita che è propria dei romanzieri. Nel gennaio del 1891, quando chinò il capo sui suoi fogli, usciva Il Paese di Cuccagna di Matilde Serao, e la Serao lo considerò un precursore. Uno di quegli umili precursori di cui riusciremmo appena a metter insieme cento pagine di antologia, ma che aveva intuito oscuramente il genio naturale dell’Italia meridionale, quello che formò poi la sua tradizione sociale: la Serao, Di Giacomo, Verga».
Il giudizio di Alvaro sulla narrativa di Mastriani coincide sostanzialmente con quello di Benedetto Croce [1], e in parte con quello, anche assai autorevole, di Luigi Russo [2]. Ma in Mastriani lo scrittore calabrese vede anche il narratore che seppe rendere l’avventurosità di Napoli. «Trovò nella sua città la dimensione fantastica e il mistero che sono stati quasi sempre le qualità più attraenti di un romanziere. Non appare per nulla gratuito, nella sua opera numerosa e disordinata, che un intrico di personaggi e di avventure, di strade e di luoghi, di smarrimenti e ritrovamenti, accade tra Borgo Loreto, Sanità, Vicaria, Chiaia: davanti alle sue invenzioni non ci prende alcun dubbio che quanto egli racconta si possa svolgere a Napoli [3]: di ciò gli diamo credito illimitato. Anche oggi basta il nome di Napoli, per evocare alla fantasia di chi vi è passato una volta, un mondo molteplice e avventuroso. E tanto che il giudizio corrente su Napoli è diverso da persona a persona, ognuno legge in questa città secondo il suo cuore e il suo sentimento, a meno che non accetti le comode e generiche definizioni che se ne son date da gente estranea e superficiale, la quale scambiò la filosofia del vivere con la spensieratezza, il realismo con la buffoneria, il carattere con la maschera».
In queste ultime righe il discorso si è ampliato in maniera assai lusinghiera per Napoli e i napoletani. Lo stesso Pulcinella è per Alvaro la maschera di un realismo e di un buon senso, inconfondibilmente partenopei; un personaggio che, staccatosi da una tradizione in costume, eroica e favolosa, assume anch’esso un costume. «Proprio da fatti come questi – commenta Alvaro – nasce in Italia la commedia borghese».
C’è da aggiungere che a Napoli questa commedia, nel suo filone comico, derivò appunto la trasformazione di Pulcinella, nel personaggio scarpettiano di «Felice Sciosciammocca», divertente incarnazione di una realtà non più popolare, o meglio, non più plebea; simbolo sorridente di una classe che aveva acquistato coscienza di sé e un peso determinante nell’Italia post-risorgimentale.
FEDERICO FRASCANI
i FEDERICO FRASCANI
[1] «C’era allora in Napoli – ha scritto Croce nel quarto volume della Letteratura della Nuova Italia – un romanziere d’appendice che non solo è importante per la conoscenza dei costumi e della psicologia del popolo e della piccola borghesia partenopea, ma rimane il più notabile romanziere del genere che l’Italia abbia dato: Francesco Mastriani. si fanno tante ricerche e saggi critici su argomenti poco interessanti, ma nessuno ha pensato ancora a dedicare un saggio al povero Mastriani che lo meriterebbe, e che non ne parve indegno a Giorgio Hèrelle (il traduttore francese del D’Annunzio) il quale scrisse intorno a lui un articolo dal titolo Un romancier socialiste à Naples. Il Mastriani compose oltre cento romanzi, quasi tutti fondati sulla storia e più ancora sulla cronaca napoletana: li componeva giorno per giorno, pagato a tre o quattro lire per ciascuna appendice quotidiana. Scriveva di solito con semplicità e non senza correttezza, conforme al suo mestiere di professore di lingua e grammatica. L’ispirazione dei suoi libri è costantemente generosa e morale: la sua Musa era casta: rifuggiva dal solleticare malvage e basse curiosità, diversamente da altri romanzieri appendicisti. Risuonava in quei romanzi continua, la protesta contro i vizi e le ingiustizie sociali, e vi si leggevano frequenti intromesse filosofiche, politiche e scientifiche, piene di buon senso, se non peregrine. Ne ho ripercorso qualcuno, p. es., Ciccio bettoliere di Borgo Loreto; e vi ho trovato una digressione sulla camorra, dall’autore descritta e condannata come infame; una sulla psicologia dei giudici istruttori e sulla loro mania di immaginare, dove non sono, delitti e delinquenti; una sulla, o meglio contro, la pena di morte e via dicendo…
«Ma il Mastriani presenta altresì un qualche interesse letterario. Venuto in fama lo Zola, egli più volte protestò che gli Assennoir, i Ventre de Paris, le Nana e simili, erano cose vecchie: prima dello Zola non aveva egli scritto I vermi, I vampiri, I misteri di Napoli e simili? Si notava in Mastriani una certa tendenza verso i contenuti e le forme del verismo; persino nelle parti narrative, quel miscuglio di modi dialettali e di modi italiani che si vide in Verga. Tutto ciò senza dubbio, rimaneva in lui crudo, rozzo, bruto, non attingeva all’arte ma era nondimeno come la scoperta di un filone d’arte».
[2] Luigi Russo si è occupato di Mastriani nel volume I narratori (edito nel 1923, a cura della «Fondazione Leonardo per la cultura italiana») scrivendo «Il suo nome può essere accostato a quello di Eugenio Sue, di Saverio di Montepin, di Gaborian, di Ponson du Terrail, sebbene rimanga inferiore a costoro per valore letterario e li superi d’altro canto per la fedeltà delle sue rappresentazioni realistiche, e per la commozione sincera ingenua con cui egli descrive le oscure dolorose miserie del popolo. un tempo lo si volle credere precursore del naturalismo; e il buon Mastriani si arrovellava per mostrare la priorità dei suoi romanzi veristi, rispetto a quelli di Zola. Ma in effetti il realismo di Mastriani, a parte ogni quistione di arte, aveva origini diverse che il naturalismo zoliano: questo procedeva dalle esigenze della scienza moderna e della nuova cultura, e quello del M. era invece un tardivo riflesso di quell’illuminismo socialistico, volgarizzato dalle dottrine della Rivoluzione francese e che a Napoli aveva avuto i suoi organi giornalistici, i suoi assertori, dal 1879 in poi… Egli può considerarsi il progenitore ideale di quella letteratura popolare partenopea, che conta tenaci e più ammodernati rappresentanti tra i canzonieri e commediografi e novellatori dialettali viventi, espressione di quel singolarissimo regionalismo letterario che a Napoli, più che altrove, ha radici profonde, e da cui sono usciti due artisti di grande forza e di significato universale: il Di Giacomo e la Serao delle opere giovanili».
[3] È da ricordare che Matilde Serao riconobbe a Mastriani, nel commosso articolo scritto per la sua morte, «una certa verità popolare che sarà poi il punto di partenza onde i sociologi e gli artisti trarranno il grande materiale del romanzo napoletano».
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FEDERICO FRASCANI (Napoli 1915-2000), giornalista, studioso di teatro. Ha vissuto a Napoli dove ha esercitato lungamente la critica drammatica. Ha pubblicato: La Napoli amara di Eduardo De Filippo (1958), Croce e il teatro (1966), Un disoccupato perbene (1967), Le due Napoli di Corrado Alvaro (1969), Eduardo (1974), Un lungo inganno (1976).
Premiato nel 1967 a Campione quale giornalista scrittore, ha vinto nel 1969 il Premio Calabria per la saggistica.