CRONACA DELLA SETTIMANA. 14 APRILE 1867

   Sono ormai prossime le elezioni provinciali. Molti nomi già vecchi e logori circolano nella città. Facciamo agli elettori la solita raccomandazione: NOMI NUOVI. Finisca una volta per sempre questa deplorabile altalena, in cui da sette anni in qua son ballottate le sorti della povera Italia.

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   Ricomincia a poco a poco il monopolio sul cambio monetario. I vampiri han profittato delle vaghe voci di guerra corse in questi ultimi giorni per far salire il cambio su l’oro e su l’argento e per imporre un aggio anche sul cambio in bronzo della carta monetata. Tutto per lo meglio in questo ottimissimo dei mondi! Ne parleremo.

   Or non sappiamo quale delle due classi abbia ad aver la preferenza nell’abilità di scorticare il prossimo, se questi cariti miei che si dicono padroni di casa, o i novelli sacrificatori con nuovo vocabolo son detti cambiavalute.

  

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   Raccomandiamo agli eleganti riders sul marciapiedi della Villa Nazionale di non fare scommesse di corsa su quell’angusto sterrato. Potrebbe avvenire qualche disgrazia a qualche pedone che cammina colà co’suoi cancheri pel capo.

   È vero che per la gente distinta che cavalca focosi pur-sang la vita di un nullatenente è considerata come quella di una piattola; ma non sappiamo se così la pensino il codice penale e l’art. 24 dello Statuto.

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   Poche sere fa, giuocavasi in casa di certi signori a quel caro e divertente giuoco della tombola, inventato per semplice benefizio degl’innamorati, che si divertono ad un altro giuoco di sotto la tavola. Secondo lo spirito di questo giuoco, ognuno applicava a ciascun numero estratto il nome dell’oggetto corrispondente al numero della Smorfia del lotto. Ed ecco che, una gentil signorina, che avea al suo fianco un barbuto adoratore, e che aspettava per far tombola il numero 13, rivoltasi a quello che estraeva i numeri dal panierino, gli dice:

   «Mi tiri su la gonnella, e la tombola è fatta!».

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   Il signor Ludovico C… si presentò giorni or sono al padron di casa don Pasquale Castigo di Dio.

   «Vorrei prendere in fitto il secondo piano della vostra proprietà alla Strada Speranzella».

   «Chi siete voi?».

   «Sono Ludovico C… impiegato al Demanio e Tasse».

   «Che soldo percepite?».

   «Milleottocento lire annue».

   «Avete famiglia?».

   «Ho mia moglie e tre figli».

   «Ragazzi?».

   «Il più grande ha dieci anni».

   «Vanno a scuola?».

   «Studiano in casa con me».

   Il proprietario arriccia il naso.

   «Uscite la sera o state in casa?».

   «Non esco; ci divertiamo in casa; mia moglie suona e la domenica balliamo».

   «Ballate?».

   «Balliamo».

   «Voi avete tre frugoli che non vanno a scuola, e di più avete l’abitudine di ballare. La mia casa non fa per voi».  

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   Un altro di questi cari coccodrilli che si chiamano padroni di casa leggeva ad un nuovo pigionale le condizioni del contratto di fitto. Quando arrivò a quel paragrafo in cui è detto che i pigionali non debbono ammettere in casa persone immorali, il novello inquilino domandò al proprietario:

   «E, di grazia, quando voi mi onorerete in casa dove vi riceverò?».

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   Cinque o sei giovanotti erano domenica a sera a bene nella cànova del vico Tofa. Un certo Peppino, ebanista, che facea gli occhi dolci alla graziosa Mariuccia figliuola del vinaio, si avvicina a quel gruppo e pretende di conoscere di que’giovanotti ragionavano tra loro, non soffrendo egli nessuno al mondo che si attenti non pur di guardare la sua bella, ma neppure di parlarne. Quegli avventori trovano e con ragione una suprema arroganza nelle pretensioni dello innamorato della figlia del vinaio, e fanno aperto l’animo loro al Peppino, corroborando le loro ragioni con certi epiteti che gli regalano e che non si trovano registrati nei vocabolari della Crusca o del Tramater. Il Peppino risponde col metter fuori la molletta; ma uno di quegli amici, senza neppure darsi il fastidio di disarmare l’avversario, gli consegna provvisoriamente certe guanciate e certi scappellotti e certi buffetti che il povero mastrodascino ne diventa rosso come un gambero, non tanto pel sangue che gli corre al capo per quelle carezze, quanto per la vergogna di ricevere quegli onori alla presenza della sua Dulcinea.

   Ma ei pare che questa lezione non bastasse al guaglione gradassotto. Lunedì, nelle ore appresso al mezzodì, due giovinotti operai escono dalla cànova, dopo di aver quivi preso il loro modesto desinare. Peppino, ch’era nel locale quando que’due vi erano seduti appo una di quelle tavole, va loro addietro così come li vede uscire, e

   «Miei signori, grida loro su pel capo – una pirola».

   «A che vi dobbiamo servire?» risponde uno de’due operai.

   «Vi avverto pel vostro meglio che d’ora in poi scegliate un altro luogo per pranzarvi, e non passiate più per questo vicolo. È una preghiera che vi do».

   Que’due giovinotti doveano essere forse gente pacifica e dabbene, nemica di brighe e di chiasso, perché risposero assicurando il sedicente fidanzato della bella cantinerella che quindinnanzi ei sarebbero iti altrove a pranzare.

   Il Peppino, tutto tronfio della paura che egli avea messo in corpo a quei due, tornava sene nella cànova a sbirciare la ragazza, a cui narrò la prodezza fatta.

   Ma il bel ganzo non si era accorto che i due avventori erano appresso a lui ritornati nella cànova ed erano andati dritto dritto dal principale, col quale si erano alquanto a bassa voce intrattenuti, accennando parecchie volte al Peppino.

   Poco stante, il principale si muove, e, venuto dinanzi all’innamorato della figliuola, così l’apostrofa:

   «Neh! grandissimo…! (Lasciamo alla vivace immaginazione de’nostri lettori di genere maschile d’indovinare il gentil diminutivo messo dal vinaio ad antitesi del primo aggettivo) ‒ Neh grandissimo…! come ti salta in testa di proibire a questi signori di onorare il mio locale?».

   Peppino si confonde, balbetta, si fa rosso, poi color marrone.

   Il principale, che avea promesso ai due avventori di dar loro una soddisfazione, applica due sonori schiaffi su ambe le guancie del ganimede di sua figlia, affinchè l’una guancia non invidiasse l’onore dell’altra.

   Dicesi che la sera stessa la figlia del vinaio avesse scocchiato col suo amante ricevitore di schiaffi, perocchè ciò che le donne (e quelle del volgo segnatamente) più disprezzano in un uomo è la codardia e la pusillanimità.

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   L’audacia di certi furti che si commettono a’tempi nostri supera ogni immaginazione.

   Nella Chiesa parrocchiale di S. Liborio, sabato mattina, rasi finito di celebrare una messa. Il sacerdote che avea celebrato era appena entrato nella sacrestia che un uomo, il quale era stato in detto luogo della Chiesa a leggere divotamente l’Ufficio, si accosta ad un altarino messo nella sacrestia; piega un ginocchio a terra, sale i gradini, invola la patena del calice, e col sacro arnese nelle mani lentamente si avvia verso l’uscio della chiesa, ed esce pe’fatti suoi. La gente raccolta nel tempio era così lontana di supporre un sì sacrilego furto che non pensò a fare a quell’uomo la minima opposizione. Ma tosto propagasi la voce dell’empio fatto, e si corre su le peste del ladro. questi fugge pel vicoletto S. Liborio, imbocca la strada della Pignasecca, si ficca in un portone a dritta, sale fin su l’ultimo piano, trova in sul pianerottolo un vaso di terra cotta ad uso di testa, scava nel terreno e vi nasconde la patena. Ma tutto questo giuoco riuscì inutile, perocchè, raggiunto colassù e scoperto il sacro oggetto involato, il divoto fu divotamente arrestato.

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   Un caso strano e impensato avvenne giorni fa. Un fanciullo, figlio della principale della cànova detta delle Pacchianelle al vico Canale, era a scherzare dappresso all’uscio della bottega. Un cristallo di finestra o di balcone di una casa sovrastante si rompe e cade giù in frantumi. Un’acuminata scheggia di vetro va a ferire la mano del fanciullo e gli apre l’arteria radiale. Il dissanguamento fu il tristo effetto di questo accidente, pel quale è stata finora in pericolo la vita di questo fanciullo.

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   Una cacciatrice della dea di Pafo, pomposamente vestita, passeggiava giovedì verso le tre ore per Toledo, attirando a sé gli sguardi di tutt’i passanti. Due signorine di aspetto onesto passarono d’accosto alla ninfa; e l’una di loro esclamò a voce abbastanza alta:

   «Eh! Signore, dacci i lumi!».

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   Torniamo a raccomandare al Vice-Sindaco della Sezione Pendino che faccia rimuovere qual fomite d’infezione d’aria che è la vinella nel portone n. 9 della strada Zecca dei panni. Si ricordi l’on. Vice-Sindaco che in quel palazzo morirono di cholera l’anno scorso quattordici persone. Gli abitanti di quei dintorni non possono reggere al fetore che emana da quella fogna.

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   I nostri amatori di musica sono tutti dediti a studiare la nuova Opera del Verdi, il Don Carlos. Questa musica che è stata data a Parigi col successo che tutti sanno, è stata acquistata dall’Editore Ricordi, che ne ha l’esclusiva proprietà.

   Il Ricordi niente ha trascurato, come al solito, perché i detti pezzi fossero stampati con esattezza.

   Molti distinti maestri italiani hanno già scritto varie fantasie sul Don Carlos.

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Lunedì, verso l’ora avanzata della sera, un portinaio nella Strada Bisignano, insieme con un suo amico a nome Sì-Carlo, si recò in una contigua cànova a fare un bicchiero. Mentre ch’eglino erano colà seduti cappo un tavolo, entrò un cocchiere, col quale quel portinaio avea avuto pur dianzi qualche motivo di malumore. Il guardaporta, in vena di rappaciamento, offrì un bicchiero al nuovo arrivato, che ricusò l’offerta dicendo:

   «Io non bevo il vino de’…».

   Il portinaio, poco curandosi di questa locuzione per niente amichevole, ripeté l’esibizione, che venne novellamente respinta con altra frase non meno aggressiva. Allora l’uom del portone agguanta il litro per iscagliarlo contro il pervicace; ma vien trattenuto e calmato dagli astanti.

   Il cocchiere lancia un’occhiata espressiva sull’avversario, e poco stante esce, in apparenza tranquillo. Ma, appresso a pochi minuti, eccolo che ei ritorna nella cànova.

   «A che tornasti?» gli chiede il vinaio.

   «Sono tornato per mangiare questo pezzo di formaggio che ho meco recato e per bere un bicchiero. Dammi una mezza».

   Il vinaio fiutò del torbido in questo ritorno dell’auriga; e, avvicinatosi al Sì-Carlo, che era in compagnia del portinaio, gli disse sottovoce:

   «Mena via di qua il tuo compagno, che il ritorno di quell’uomo non mi par liscio».

   Ciò detto, il vinaio si allontanò per prendere la mezza ordinatagli dal cocchiere.

   Intanto il Sì-Carlo persuase con bei modi l’amico guardaporta a ritirarsi; e, postoselo sotto al braccio, entrambi presero la via dell’uscio. Ma il cocchiere si caccia fuori dalla cànova per un altro uscio, e, andato incontro al portinaio, gli vibra un coltellata, che lascia la vittima freddo cadavere nelle braccia dell’amico.

   Vegli e provvegga l’autorità su lo sterminato abuso che da’nostri popolani si fa de’coltelli.

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   Ci vien narrato che nella notte della scorsa domenica, feconda di avvenimenti, furono trovati cappo un baraccone del largo delle Pigne due bambini neonati.

   Vuolsi che i due bambini fossero frutto di due parti contemporanei. Preconizziamo di questi due bambini il più avventuroso avvenire.

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   Domenica mattina venne a luce il giornaletto La Farfalla: la compilazione appartiene al sesso gentile; e l’introduzione promette molto. Leggeremo questo giornaletto con somma premura, giacchè molto di è a cuore il progresso intellettuale del bel sesso nel nostro paese. Anche noi vorremmo che si sciogliessero finalmente le pastoie che ungono avvinte le donne, siccome la gentil Carolina di Fiore si esprime nella introduzione del giornale.

   Bravo, signore e signorine, gradite un abbr… (perdoni) una stretta di mano sincera e fraterna.

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   Nel vico Tiratoio presso il quartiere delle Guardie Municipali, giovedì verso le 6 e mezzo p. m. un giovinotto, ben vestito, si accosta ad un signore che passava per quel vico, e il prega di dirgli che ora è. Il signore cava dal taschino l’oriuolo e si appresta a soddisfare alla domanda del giovinotto, quando costui, impugnato un revolver, gli dice sommessamente e in fretta:

   «Taci: a me l’oriuolo o sei morto».

   Detto ciò, strappa l’oggetto prezioso dalle mani dello attonito possessore, e si dà a precipitosa fuga.

   Il derubato dà avviso dell’accaduto alle Guardie Municipali, che si danno ad inseguire il ladro: ma non riescono a raggiungerlo.

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   Preghiamo il Vice-Sindaco della Sezione Stella di vedere se potesse cambiare il nome del vico detto Vico lungo S. Agostino degli Scalzi; giacchè in quel rione, per disgrazia di quegli abitanti, vi sono parecchi vichi e vicoletti con nomi quasi simili, come vico S. Agostino degli Scalzi, vico storto S. Agostino degli Scalzi: cosicché per trovare qualcuno ha da perdervi il capo chi non sia molto pratico di quelle strade. Oltre a che, la scritta che porta il detto nome è posta nel mezzo del vico, e non alla cantonata, dove dovrebbe. Proponiamo che si chiamasse Vico Porta piccola S. Agostino degli Scalzi.

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   La signorina Alfonsina del G… è furiosamente innamorata di un signor Benedetto… milanese. La signorina Alfonsina è davvero una gentile e graziosa donnina, immancabile alla passeggiata della domenica a Toledo. Chiunque de’miei lettori vuol fare la sua conoscenza è padronissimo; la riconoscerà al rosso sanguigno che distingue la sua acconciatura.

   Questa ragazza fece martedì sera l’importante scoperta che il suo Benedetto ha lasciato sull’Olona una moglie e due figli.

   Alfonsina non si fece né bianca né rossa. Nel ricevere tale notizia, ella abbassò i begli occhi, e sospirando disse:

   «Non fa niente. Aspetterò!».

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   L’egregio Prof. Guglielmo Tocci ha dato alla luce le sue Istituzioni di rettorica e di poetica latina-italiana per uso della Regia Università degli Studii di Napoli. È davvero un pregevole lavoro, che merita venga adottato in tutte le scuole: e noi lo raccomandiamo agli Istitutori che non potrebbero fare scelta migliore d’un libro che risponda ai bisogni della gioventù studiosa.

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                    FRANCESCO MASTRIANI