Ci piace di riportare in queste pagine il seguente confronto, che troviamo in un’appendice del Popolo italiano di Genova, tra i due esimi artisti Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi. Lasciamo all’autore dell’articolo la intera responsabilità del suo giudizio.
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Frequente corre sulle labbra degli amatori dell’arte drammatica il parallelo tra Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi, e non logica delle moltitudini, gli ammiratori di Rossi credendosi in dovere di spregiare Salvini e viceversa; quasichè il dominio dell’arte dovesse fatalmente appartenere ad uno solo. Eppure questo errore così grossolano si ripete ad ogni epoca e ad ogni proposito, ed oggi desta le battaglie dei Tassisti e degli Ariostisti, domani quelle dei classici e dei Romantici, e poi le rabbiose contese dei Musici dell’armonia e dei musici della melodia.
Come sfuggire alla ingiustizia dell’esclusivismo? Con un’educazione larga, coraggiosa e imparziale, e senza prevenzioni puerili e senza pregiudizi di scuola o di nazione. Allora soltanto si capirà che Ariosto non è un matto perché Tasso è un gran poeta; che Bellini non è un bambino perché Meyerbeer è un potente ingegno; che Rossi può essere un attore grande sebbene Salvini sia grandissimo.
A me sembra che l’ingegno di Rossi sia eminentemente drammatico, mentre quello di Salvini è eminentemente tragico.
Rossi ricerca molto, troppo forse, l’effetto, e quindi troppe colte non l’ottiene. Egli ha la mania della novità, e spinto da un’attività febbrile, fa delle corse vagabonde in tutte le letterature drammatiche antiche e moderne. Non contento degli attori giustamente raccolti nel dramma italiano e francese – cito ad esempio il Kean, il Sulllivan, il Montioye, il Goldoni e le sue sedici commedie – e nelle tragedie moderne che molto si avvicinano al dramma, quali l’Amleto, il Macbeth, la Francesca da Rimini, egli trascinò sulla scena il Sardanapalo di Byron e persino l’impossibile Mefistofele. Cosa appena credibile, io stesso con questi orecchi l’udii nel Foscarini cantare una romanza e udii pire il pubblico ridere delle sue terribili stonature. E più volte sentii caldi ammiratori di Rossi dolersi amaramente perch’egli, con queste eccentricità, eclissasse il suo splendido ingegno e compromettesse la sua bella fama.
Non così di Salvini. Egli è molto circospetto nella scelta dei soggetti, e quindi possiede un repertorio poco esteso ma inappuntabile. Egli studia lungamente e medita attentamente caratteri finchè riesce a dar loro la seconda vita, cioè una personalità propria.
In Rossi scoprite sempre l’artista, poiché i suoi gesti, le sue pose e persin la sua voce hanno sempre una tinta, sebben lieve di affettazione.
Salvini invece sembra abbia raggiunto quel grado di perfezione un cui l’arte tutto fa e nulla si scopre, secondo la bella espressione del Gozzi.
Rossi non misura sempre i suoi mezzi, le sue forze, la sua voce. Così nell’Otello egli spiega tutta la voce fin dai primi atti, sicché arrivato al quarto ed al quinto egli è sfinito e cade.
Salvini all’incontro modera con precisione la bella e potente sua voce e la va gradatamente elevando col crescere della passione, sicché egli giunge al punto culminante alla fine dell’ultimo atto. Per Rossi l’azione tragica è rappresentata da una parabola, per Salvini una curva ascendente.
Ernesto Rossi merita molta lode per aver fatto conoscere prima in Italia molti capolavori del teatro straniero, e merita pur lode l’amore grandissimo con cui coltiva l’arte sua. Ma è a desiderare, per la gloria sua e del Teatro italiano, che conosca meglio se stesso e le sue attitudini; concentri il suo ingegno in una cerchia più ristretta, smettendo l’ambiziosa pretensione di voler tutto abbracciare, studii meglio i caratteri nuovi, e allora, evitando il difetto della sposatura, in cui cadde più volte, diventerà anch’esso un attore inappuntabile.
Tale è già Tommaso Salvini. Anch’egli varcò tal volta i confini del suo regno, ma ben presto ritrasse il piede da’domini altrui. Il carattere gentile e appassionato di Paolo nella Francesca da Rimini non richiedeva le forme erculee, la voce di leone e gli schianti terribili della passione, e quindi Salvini lo lasciò a Rossi, il quale qui si appalesa veramente artista.
Un ingegno arguto osservò che a Rossi s’addiceva egregiamente il dire «T’amo o Francesca» e al Salvini «disperato è l’amor mio!» Quest’esempio caratterizza perfettamente la diversità del talento artistico di Rossi e di Salvini. L’uno è maestri nello esprimere le passioni gentili, le gradazioni dell’affetto e del sentimento, i caratteri indecisi e quasi sfumati. L’altro vuole le situazioni a grandi contrasti, le passioni violente e turbinose, i caratteri fieri, energici, decisi. Oreste con la sua sete di vendetta, Otello colla sua selvaggia e feroce gelosia, Saul in lotta con se stesso e con Dio: ecco Salvini – Amleto, a volta a volta studente, attore, principe, e figlio vendicatore, e innamorato e pensatore, e sempre incerto, oscillante, riflessivo: ecco Rossi.
Per un contrasto, che non deve sorprendere gl’intelligenti, Salvini grandeggia pur nello esprimere i sentimenti tranquilli e sereni; Otello che narra la storia dell’amor suo dinanzi al Senato, Orosmane che rivela l’amor suo a Zaira, Sofocle che muore con olimpica serenità in mezzo ai figli, ai cittadini, ai canti e alle corone, sono momenti in cui Salvini raggiunge la perfezione dell’arte, egli che rugge così ferocemente allorquando la beva soverchia l’uomo nell’Otello come nell’Oreste.
La calma e la tempesta delle passioni si alternano nella tragedia antica, ed è perciò che Tommaso Salvini è il tragico classico per eccellenza. Gli eroi antichi tengono del sovrumano, perché la loro immagine venne a noi tramandata dalla religione della poesia e della statuaria. Ebbene, Salvini fa rivivere in sulle scene quelle figure grandiose colla maestà delle sue pose, colla nobiltà dei suoi gesti, colla solennità della sua voce, colla bellezza artistica delle sue forme. Chi lo crederebbe? Rilessi una tragedia d’Alfieri dopochè Salvini mi aveva entusiasmato recitandola, e mi parve poca cosa. La striscia luminosa lasciatasi dietro dal grande attore si era dileguata accrescendo l’oscurità. Nel libro mancava la vita che dà sempre ai personaggi la recitazione, ma vi mancava pur l’ingegno di Salvini che talfiata migliora il testo, a volta a volta critico e poeta.
Ancor mi stanno impresse nella mente impaurita la scena in cui il vecchio Saul si dibatte sotto l’incubo delle sue terribili visioni, e quella in cui Oreste, agitato dalle furie, urla come un toro ferito; e rabbrividisco ancora pensando al grido spaventevole che manda Orosmane quando si sente tirare da dietro il mantello impigliatosi nel cadavere della trafitta Zaira. Qual potenza di fantasia non spiega Salvini nello esprimere questi momenti di terrore sovrannaturale, queste battaglie dell’uomo coll’ignoto. E per contro, con quanta semplicità, naturalezza e verità non si riproduce il personaggio dell’inglese innamorato nella Pamela, e del marinaio nel Giosuè guarda coste!
Fu notato da molti che Salvini, nei tre anni dacché più non si era veduto in Genova, fece grandi progressi nell’arte sua. E ciò torna a sua lode, poiché prova ch’egli non si addormentò sugli allori. E che l’ideale della sua mente è ben più elevato della sua pur tanto gloriosa realtà.
Salvini studia indefessamente, muta e rimuta finchè non abbia ottenuto l’effetto vero; ascolta con docilità i consigli degli amici e con intelligenza i consigli della critica. Le censure non lo irritano e le lodi non lo invaniscono. Ecco perché io l’ho lodato coraggiosamente.
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FRANCESCO MASTRIANI