COMMENTI

   Romanzo considerato di genere storico, per cui la trama è abbastanza limitata. Una storia d’amore tra due giovani italiani, Gigia e Paolo, nati e vissuti in una regione, il Veneto, sottoposta ancora al dominio austriaco. E da cornice a questa vicenda amorosa c’è la III Guerra d’Indipendenza.

   La storia inizia il 10 giugno del 1866, in pratica una decina di giorni prima del proclama del re Vittorio Emanuele del 20 giugno, col quale dichiara guerra all’Austria. «Italiani! – conclude il proclama – Io do lo Stato a reggere al mio amatissimo cugino, Principe Eugenio, e riprendo la spada di Goito, di Pastrengo, di Palestro e di San Martino. Io sento in cuore la sicurezza che scioglierò pienamente il voto fatto sulla tomba del mio magnanimo genitore. Io voglio essere ancora il primo soldato dell’indipendenza italiana! Viva l’Italia! dato in Firenze il 20 giugno 1866». Sempre in questo capitolo l’autore fornisce ampi cenni sugli avvenimenti storici di quel periodo. [1]

   Viene accennata la battaglia di Custoza del 24 giugno e l’arrivo di Garibaldi a Como all’inizio di luglio: «Le sorti della Venezia di decidevano sui campi della Lombardia». [2]

   La battaglia di Custoza venne seguita da altri vari conflitti tra italiani e tedeschi. E durante uno di questi Garibaldi subì anche una lieve ferita alla coscia. [3]

   Come in altri due romanzi di Mastriani, la protagonista femminile si traveste da uomo per proteggere, non conosciuta, l’uomo che ama. Nella presente storia, la protagonista riesce nel suo intento senza rimetterci la vita, mentre nei Lazzari. [4] Agnesina muore per salvare la vita al suo Biasiello. Stessa sorte per Bernardina, che sacrifica la propria vita per salvare il suo Eugenio. [5]

   Entrambi questi due ultimi tragici avvenimenti si svolgono sulle barricate napoletane del 1848.

   Senz’altro i protagonisti della storia sono frutto della fantasia dello scrittore; ma ovviamente non potevano mancare di essere menzionati personaggi storici protagonisti dell’Indipendenza dell’Italia, come il re Vittorio Emanuele III, o il prode Giuseppe Garibaldi, che viene definito dal giornale l’Osservatore Triestino, il pirata di Caprera. [6]

   Un intero capitolo, il VI. viene dedicato alla città di Venezia, che si può considerare anch’essa una protagonista del romanzo. Viene citato il terribile Attila, che fu definito flagellum Dei, «Ci sono uomini che rappresentan nel mondo ciò che vi rappresentano la peste e il tremuoto […] Questo barbaro vantavasi che dovunque la terra fosse calpestata dall’ugna del suo cavallo, ivi l’erba non sarebbe mai più cresciuta. Trepidanti fuggivano le genti d’Italia dinanzi alle armi de’ feroci Unni, e gli abitanti del Trevigiano, del Vicentino, di quella provincia che oggi è detta Friuli, in somma gli Euganei, cercavano un ricovero nelle vicine lagune, dacchè colà non potevano i barbari approdare […] Così, da questa improvvisata accozzaglia di case e di ponti surse una città la quale fu domandata Venezia». [7]

   Qualche cenno anche alla città di Trieste «… è tutta commerciante. I suoi 65,000 abitanti, uomini e donne, vecchie e fanciulli, sono più o meno mercatanti […] È facile pertanto immaginare quale ristagno di cose le voci di una prossima guerra dovessero arrecare in questo paese […] Il capitale è per indole sua nemico di ogni novità; vorrebbe che il genere umano non si desse altro pensiero che quello di mangiare, bere e vestir panni. Il capitale trova assurdo che Domineddio abbia messo negli uomini certi pruriti strambi come quelli, verbigrazia, della libertà e dell’indipendenza. Gli uomini non si dovrebbero occupar d’altro che di buscar quattrini: è questa la logica del capitale». [8]

   Anche in questo romanzo ci troviamo delle peculiarità che troveremo in quasi tutti i lavori dello scrittore, come il lieto fine del racconto o la presenza di personaggi o troppo buoni o troppo cattivi.

   Questo romanzo Francesco Mastriani cominciò a pubblicarlo in appendice del suo giornale La Domenica il 20 gennaio 1867, onde per cui lo scrisse con “liberi sensi”, senza il timore della rigida censura borbonica.

                                                       ROSARIO MASTRIANI 

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.[1] FRANCESCO MASTRIANI, La figlia del croato, Napoli, G. Rondinella, 1877, cap. XI. «Cenni storici», pag. 112.

[2] Ibidem, cap. XII «Lorenzo Venturi», pag. 129.

[3] Ibidem, pag. 130.

[4] FRANCESCO MASTRIANI, I lazzari, Napoli, G. De Angelis, 1873, cap. XXVI «La barricata del Largo della carità», pag. 378.

[5] FRANCESCO MASTRIANI, Bernardina, Napoli, Appendici del Roma, 1886, cap. XXVII «Il giovine operaio».

[6] FRANCESCO MASTRIANI, La figlia del croato, cit., cap. I «Da Trieste a Venezia», pag. 5.

[7] Ibidem. Cap. VI «Venezia», pag. 79

[8] Ibidem, cap. I «Da Trieste a Venezia, pag. 4-5.

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   La conclusione dei Vermi. Studi storici, riecheggia nella conclusione dei Lazzari.Romanzo storico, e consiste nella prima auspicata e poi descritta e pienamente realizzata emancipazione del popolano napoletano, non più lazzaro, luciano o candido-spontaneo senza identità individuale da mobilitare per fini reazionari [1].

   Già in questo puntare l’attenzione sull’uomo del popolo, sulla sua tradizione e sulla sua identità, per comprendere e spiegare i grandi eventi storici del passato prossimo, si delinea con chiarezza l’orientamento socio-politico di Francesco Mastriani. in apertura dei Lazzari, ovvero nelle pagine di dedica del romanzo al fratello Giuseppe, si dà per scontata, ovvero per già avvenuta, l’ emancipazione del popolano. Che ora però deve essere istruito perché la partecipazione alla vita politica del paese richiede un continuo processo di informazione e formazione dei nuovi cittadini quanto la conoscenza storica. Il romanzo storico ha dunque per Mastriani, innanzitutto, una formazione educativa.

   Visto l’immediato successo dei Lazzari, questa funzione didattica-formativa del romanzo dev’ essere sembrata ben avviata al suo autore. Centrato dunque l’obiettivo con il successo popolare, si apriva allo scrittore con più chiarezza la via maestra del romanzo storico. E tale sarà allora La figlia del croato di due anni dopo, ovvero del travagliatissimo anno de La Domenica, settimanale scritto tutto di suo pugno, in cui il romanzo compare in appendice in prima edizione [2]. Intanto, val la pena di notare che Mastriani aveva scritto e pubblicato I figli del lusso (1866), che sta ai Vermi (1863-1864) come La figlia del croato (1867) sta ai Lazzari (1865): due sèguiti di due romanzi di successo [3] . Va aggiunto che il numero di lettori e la loro simpatia non corrispondevano certo alla serenità economica dello scrittore che, dopo essere stato licenziato dal Ministero dell’Interno il 17 aprile 1865 [4], e dopo aver esaurito il denaro della liquidazione, si ritrovò in ristrettezze economiche disperate [5]. Le cose non migliorarono l’anno dopo, in cui, anzi, si ammalò di colera addirittura e si vide costretto a chiedere un sussidio pubblico all’allora sindaco di Napoli, barone Rodrigo Nolli [6].

   Dal novembre, sempre del 1866, Mastriani reagì alla miseria diventando scrittore unico ed editore de La Domenica, in cui pubblicò a puntate prima La brutta (dal 18 novembre 1866 al 6 gennaio 1867) e poi La figlia del croato (dal 6 gennaio al 1 settembre 1867). La genesi di questo secondo romanzo storico non dev’essere stata delle più tranquille, viste le travagliate circostanze di vita dello scrittore. Ma chiarissimi erano a questo punto per lui sia l’orientamento socio-politico su cui imbastire la trama del romanzo, sia lo stile didattico-informativo con cui raggiungere il più ampio numero di lettori. C’era comunque una differenza notevole rispetto ai Lazzari e a tutte le altre opere precedenti, che consisteva nella scelta dell’ambientazione italiana e non napoletana: un cambiamento di notevole importanza per lo scrittore nella percezione del proprio lavoro. Più che una mutazione di poetica, ovvero di cambio di prospettiva su natura, la forma e ambito sociale della sua scrittura, si trattò di un esperimento. La figlia del croato costituisce infatti un episodio isolato rispetto agli altri lavori, precedenti e successivi. È facile tuttavia immaginare come nell’atto della scrittura Mastriani cominciasse a vedere la sua missione magistrale estesa a tutta l’Italia, ovvero alla nuova Italia che ormai includeva anche il Veneto e Venezia. Il cambiamento/esperimento non si riferisce allora soltanto al contenuto narrativo e all’ambientazione del romanzo, ma anche e soprattutto al pubblico stesso, ovvero ai lettori ideali immaginati e sperati per quest’opera: lettori di tutta l’Italia per un’opera sì storica, ma anche politica e attuale, informativa e giornalistica addirittura, vista la quasi contemporaneità dei tempi di scrittura e dei tempi degli eventi narrati [7].

   Argomento del romanzo, come si è sopra accennato, è la terza guerra d’indipendenza – ma prima guerra del nuovo Regno d’Italia, che fruttò il Veneto e Venezia – vista da una doppia prospettiva personale e patriottica: quella del narratore che, deus ex machina, interviene spesso con commenti, giudizi e suggerimenti al lettore, e quella dei due personaggi principali. Sono questi Gigia e Paolo, patrioti innamorati e contrastati, sudditi di sua maestà imperiale Francesco Giuseppe, anzi Kaiser Franz-Joseph come, sfoggiando anche in questo la sua conoscenza del tedesco, precisa lo scrittore-narratore. Sognano, lottano e infine vincono. Il loro è un trionfo amoroso e patriottico che apre loro una nuova vita nella nuova Italia.

   Si è detto di tempi di pubblicazione vicinissimi ai tempi dei fatti narrati. Questi ultimi hanno inizio all’«alba del 10 giugno del meraviglioso1866», appena dieci giorni prima della dichiarazione di guerra all’Austria di Vittorio Emanuele II. Il messaggio alla nazione, in cui egli si dichiara «primo soldato della indipendenza italiana» è appunto «dato in Firenze il 20 giugno 1866» e riportato per intero nel romanzo [8]. I dieci giorno intercorsi fra le due date sono appena sufficienti a condensare il viaggio di rientro a Venezia della figlia del croato, Gigia Ransom, e l’innamoramento con il patriota padovano Paolo Camilli. La terza guerra d’indipendenza si attesta nel romanzo con l’arruolamento del Camilli fra i garibaldini, riuniti e addestrati a Bari e Barletta, mentre Garibaldi lascia Caprera per incontrarli e condurli alla vittoria ai piedi delle Alpi.

   Si perdono a questo punto le tracce della Gigia, che prepara comunque un clamoroso rientro in scena. Di Lizza e Custoza si parla fuori dalla narrazione nel corso di una delle lunghissime digressioni del romanzo. Nella conclusione troviamo «le trattative di pace che seguirono alla breve e disastrosa guerra, e la cessione di Venezia alla sua legittima madre, l’Italia […] La storia di questi fatti è notissima ai nostri lettori» [9].

   In questo romanzo Mastriani sembra essere fortemente suggestionato dal Tasso della Gerusalemme Liberata, più volte ricordato nel corso della narrazione, e in particolare dalla figura di Clorinda. Sono della figlia di San Giorgio, infatti, le parole che vengono spontanee al «volontario padovano» [10], ovvero all’innamorato Paolo Camilli, nell’accomiatarsi dai compagni cospiratori di Venezia per unirsi ai garibaldini che si vanno raccogliendo in Puglia:

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Ma s’egli avverrà pur che mia ventura

Nel mio ritorno mi richiuda il passo

Della vecchia mia madre a te la cura,

E del fratello a me si caro io lasso.

Fallo, per Dio, Signor, che di pietate

Ben è degno quel sesso e quella etate.

   Paolo che amantissimo era del Tasso, la cui lettura aveva temperato il suo spirito a nobili e grandi cose. Si trovò su le labbra i versi mentovati, a cui avea fatto pochi leggieri mutamenti [11]

   Un’altra curiosità, forse ascrivibile a un ricordo della Gerusalemme Liberata, riguarda la particolare identità somatica di Gigia Ransom, che è donna bruna pur avendo entrambi i genitori biondi di pura razza imperiale, austriaca la madre e croato il padre. Croato è quanto dire forte  e severo soldato dell’esercito austriaco [12].

   Ora bisogna fermarsi un attimo a riflettere di fronte a questa anomalia. È possibile, all’altezza del 1867, che Mastriani non avesse mai sentito parlare di Gregor Johann Mendel, e infatti qui fa un errato riferimento a una delle più elementari e ovvie leggi che regolano l’ereditarietà dei caratteri. Da coniugi biondi, infatti, non può che nascere prole  dai capelli biondi. Il caso, cioè l’errore sul fronte della plausibilità, non sarebbe di per sé eccezionale se Mastriani, che ha un grande interesse per la scienza in generale, non avesse già dimostrato, nella Angiolina per esempio, un’attenzione particolarissima per l’eredità dei caratteri, non solo somatici, ma anche e soprattutto psicologici. Il carattere aristocratico di Angiolina, che tanto condiziona la trama di quel romanzo, riapparirà regale addirittura (come tipico di una immensa e ignara famiglia napoletana segretamente unita dallo stesso sangue) sia nella inflessibile Medea di Porta Medina che nel misterioso Figlio del diavolo.

   Non è del tutto casuale, quindi, l’anomalia della Gigia dai capelli neri, veneziana italianissima, figlia di genitori biondi. L’anomalia è ostentata, anzi, e bisognerà pure spiegarla in qualche modo. propongo di vedere in Gigia una rappresentazione simbolica proprio della Clorinda della Gerusalemme Liberata, la quale, si ricorderà, nacque bionda da genitori neri. Torquato Tasso, il cui verisimile faceva miracoli, l’aveva fatta figlia di San Giorgio, di cui la madre di Clorinda era molto devota e di cui conservava un’icona prodigiosa nella sua stanzetta. Gigia Ransom, bruna figlia di genitori biondi, come Clorinda bionda figlia di genitori neri, sembra un’equazione interpretativa azzardata. Ma è ampiamente supportata dalla scena madre del romanzo, che ha luogo su un non specificato terreno di battaglia della terza guerra d’indipendenza. In un plotone di volontari garibaldini comandato dal sottotenente Paolo Camilli volontario Padovano, si trovano Marietta Giuliani di Chiavenna, arruolata sotto il nome di Antonio Delfiore [13] e Lorenzo Venturi, un giovane veneziano di straordinari meriti militari che era divenuto il suo protettore:

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   Potea contare un diciassette anni: avea fatto le più disastrose e lunghe tappe senza mai dare segno alcuna di stanchezza; aveva chiesto al suo furiere una doppia razione di cartucce; si batté come un leone, e tirava come un vecchio granatiere. […]avea due occhi scintillanti di ardor bellicoso: due gentili baffetti gli ornavano le labbra [14].

 

   Questo giovane volontario veneziano, Lorenzo Venturi, prode, coraggioso, virile, protettore di donne… né più né meno valoroso della Clorinda tassiana protettricedi Sofronia, è proprio lei Gigia Ransom. Come Clorinda si rivela a Tancredi togliendo l’elmo e sciogliendo la chioma bionda, Gigia si rivela al padre ferito a morte e a Paolo Camilli, staccandosi i baffetti finti e togliendosi il berretto sotto cui si nascondeva una lunga treccia nera. Il croato benedice l’unione dei due innamorati prima di esalare l’ultimo respiro. «La breve disastrosa guerra» [15] ha fine. Venezia e il Veneto diventano  parte del Regno d’Italia. Paolo Camilli ritorna a Padova «colla sua virtuosa e leggiadra sposa» [16], raggiunge un’agiata posizione come agente di commercio, «e sarebbe felicissimo se l’ardente voto che egli forma ogni giorno, che tutti gl’Italiani siano affratellati, indipendenti, liberi e temuti, avesse il desiderato compimento» [17].

   Caso unico nell’opera omnia di Mastriani questo romanzo è fondato su un atteggiamento politico tutto italiano e non napoletano, come del resto s’è visto anche a proposito di ambientazione e personaggi principali. C’è soli un personaggio, minore, napoletano nel personaggio ed è tratteggiato in modo ironico e grottesco. Si tratta di «arciprete borbonico […] faccia della sferica rotondità di certe parti del corpo, pancia della forma di un gran disco e tutto il resto in corrispondenza di queste membra sferoidali» [18]. L’arciprete, «schiuma del borbonismo» [19], «sognava ad occhi aperti la così detta riciccillazione» [20], ovvero il ritorno di Ciccillo/Franceschiello/Francesco II di Borbone.

   C’è anche di napoletano nel romanzo una originale, patriottica interpretazione delle disastrose sconfitte di Lissa e Custoza. Si tratta di una lunga citazione che – è detto in una nota al testo – Mastriani trasse da uno scritto di Giuseppe Piro del 1867: «Or bene domandiamo noi a nostra volta: fummo vinti in queste due giornate? A primo tratto pare che la risposta non possa essere dubbia, ma ponderandovi su, Custoza e Lissa, lo ripetiamo furono due vittorie morali» [21].

   Molto resterebbe da dire per quel che riguarda la dimensione didattica del romanzo. Che si concentra soprattutto nelle lunghissime digressioni e nella menzione delle gloriose figure storiche italiane  del Veneto e di Venezia. La più vistosa digressione riguarda un intero capitolo, il settimo, sulla storia di Venezia dalla sua fondazione al tempo dell’occupazione austriaca, «senza tacere de’più grandi uomini che la resero illustre» [22] da Marco Polo… ai Fratelli Bandiera.

   Notevole è anche, sempre sul fronte didattico-formativo, la serie di riflessioni socio-politiche della Gigia che, con ingenuità e ispirata saggezza, vede il mondo intero nel mezzo d una epocale trasformazione: non solo nella situazione veneziana e italiana, ma anche in quella generale del continente europeo e anzi dell’Europa e dell’America, la Gigia scorge segni di convergenza delle ragioni storiche e geografiche che portano alla libertà dei popoli oppressi. È la nozione stessa di impero – e di quello austro-ungarico in particolare – che per Gigia reca con sé un profondo senso di ingiustizia.

   Infine, contribuiscono senz’altro ad alleggerire il tono di queste riflessioni e a cercare un’intesa con il lettore meno colto alcune ingenue espressioni di ironia anti-austriaca del narratore, che dice per esempio: «O aquila austriaca, tu hai due teste. Ma sono teste di rapa» [23]; oppure afferma che la lingua tedesca a Venezia è un’assurdità, un «idioma che Carlo V dicea doversi parlare da’cavalli»[24], per cui Gigia, che pur dovette parlare tedesco nell’infanzia, parla sempre in italiano perché si sente veneziana e italiana.

                                                                                                              FRANCESCO GUARDIANI

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[1] Luciani sono i lazzari di Santa Lucia, fedelissimi alla corona borbonica. I candido-spontanei sono i lazzari che si opposero agli insorti del 15 maggio 1848; di loro Mastriani: «Vedemmo nel 1848 i Lazzari non più concordi nel sostenere le parti del dispotismo, ma bensì scindersi in due fazioni, di cui la più numerosa, la più compatta, la più intelligente tenere per i liberali ed avversare  i candido-spontanei sguinzagliati dalla Camarilla di corte contro la Costituzione» (Mastriani I lazzari, Napoli, G. De Angelis, 1873, p.481).

[2] «Nello stesso anno 1866, verso il mese di Novembre [Francesco Mastriani] cominciò a pubblicare un giornale settimanale, col titolo La Domenica, di cui egli era l’unico scrittore. Egli scriveva l’articolo di fondo, il romanzo in appendice, la cronaca, le notizie teatrali, le biografie, i fatti varii e perfino le sciarade». (Filippo Mastriani, Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastriani, Napoli, L. Gargiulo, 1891, p. 99.).

[3] Per la verità, mentre I figli del lusso sono il dichiarato (dallo scrittore) sèguito  dei Vermi, La figlia del croato segue I lazzari come romanzo storico.

[4] Cfr. Filippo Mastriani, Cenni, cit. p. 94.

[5] «Quale tristissima, orrenda giornata fu per lo sventurato mio padre (e per noi tutti) quella di sabato 16 settembre 1865! Le irrimediabili  angustie e privazioni del presente, un profondo scoraggiamento sull’avvenire della sua povera famiglia, accasciarono talmente lo sventurato, da farlo piangere sulla sterilità dell’ingegno e sull’egoismo degli uomini. La sua povera mente si aggirò tutto il giorno sui futuri consigli della disperazione. Queste parole non sono esagerate […] ho letto, coi miei occhi, col cuore che mi sanguina dal dolore, in un libricino in cui egli segnava tutte le date memorabili della sua vita, queste terribili parole, colla data del 16 settembre 1865. Privazioni, debiti, miseria, fame! povero padre mio!» (ivi, p. 97).

[6] Il finora ignoto episodio è certificato da un foglio autografo che ho reperito in antiquariato e di cui do conto in fondo al volume. Per la stessa ondata di colera, può essere utile ricordare, Luisa Sipari andò a Pescasseroli a partorire Benedetto Croce (1866-1952).

[7] Mastriani comincia a scrivere il romanzo nel gennaio del 1867. Il 3 ottobre ’66 con il Trattato di Vienna, l’Austria aveva ceduto Venezia alla Francia che la passò all’Italia dopo il plebiscito del 21-22 ottobre.

[8] Cfr. Francesco Mastriani, La figlia del croato, Napoli, Rondinella, 1877, pp.112-115.

[9] Ivi, p. 148.

[10] Ivi, p. 19.

[11] Ivi, p. 20

[12] Questo significato non è certamente peculiare in Mastriani. Croati simili si incontrano anche nell’Ebreo di Verona di Bresciani, oltre che nel Sant’Ambrogio del Giusti.

[13] La presenza di una donna nelle fila dei combattenti garibaldini è finzione narrativa che trova riscontro in noti episodi di patriottismo risorgimentale femminile, come quello di Antonia Masanello in Marinello che combatté con i Mille a fianco del marito Bortolo e quello di Colomba Antonetti Porzi che fu con Garibaldi sul Gianicolo nel ’49 e perse la vita in battaglia. Sul fronte letterario la bella combattente in abiti maschili cronologicamente più vicina alla figlia del croatoè il personaggio di Polissena nell’Ebreo di Verona di Antonio Bresciani.

[14] Francesco Mastriani, La figlia del croato, Napoli, Rondinella, 1877, pp.130-131.

[15] Ivi, P. 68.

[16] Ibid.

[17] Ibid.

[18] Ivi. pag. 68.

[19] Ivi. pag. 67.

[20] Ivi, pag. 69.

[21] Ivi, pag. 117.

[22] Ivi, pag. 89.

[23] Ivi, pag. 14.

[24] Ivi, pag. 27.