È uno dei pochi romanzi di Mastriani il cui intreccio, abbastanza notevole, si svolge non nella sua città natia Napoli, ma in prevalenza a Parigi e in parte a Pisa.
Francesco Mastriani conobbe personalmente a Napoli Alessandro Dumas padre, dal quale venne considerato il rigeneratore dell’umanità. E con lo scrittore francese si può fare in questo romanzo, un accostamento con uno dei suoi libri più noti Il Conte di Montecristo: infatti il giovane Federico Lennois, nella cella di un carcere in cui è chiuso perché accusato di furto, conosce, e ne diventa amico, un falsario, che con uno stratagemma lo aiuta ad evadere dal carcere e gli da pure le indicazioni per recuperare una piccola cifra che diventa un vero tesoro per il giovane Lennois. Ovvio l’accostamento con il personaggio del Dumas, Edmondo Dantes, che in carcere stringe amicizia con l’abate Faria che lo aiuta a fuggire e gli confida l’esistenza di un grande tesoro nell’isola di Montecristo. Notevoli in questo romanzo sono i toponimi della città di Parigi, ma anche di Pisa.
Anche se la trama del romanzo si svolge lontano da Napoli, non mancano dei riferimenti sulla sua città natia. Chiedono ad Eduardo Horms se era mai stato a Napoli, e lo scozzese così risponde: «Certamente; ci fui nell’anno 1825… città incantevole. Eliso del mondo! Sotto quel cielo posi per poco in oblio le mie sventure. Ivi soltanto io sono stato meno infelice. Quando la sera io traeva a passeggiare in riva di Mergellina, e fissava i miei sguardi su quell’anfiteatro di colline su cui la luna gittava le sue onde di candidissima luce: quando nel silenzio della sera, venivano a colpir le mie orecchie i canti dei marinai che sposavano le loro malinconiche melodie al mormorio della spiaggia, la quale sembrava raccogliere nel suo grembo acqua di argento; quando in sull’alba, schiudendo il balconcino della mia terrazza a Mergellina, una luce purissima, un’aura ricca di odori inebrianti mi circondavano allargando i miei polmoni e tutta l’anima mia; oh… in quei momenti io era felice». [1]
Sempre a riguardo la città partenopea, vengono citati dei versi di La Fontaine:
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«C’est de tout qu’ à Naples on a vu
Regner l’amour e la galanterie.
De beaux objets cet ètat est pourvu
Mieux que pas un qui soit en Italie» [2]
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Nonostante che la maggior parte della trama del romanzo si svolge a Parigi, in questo romanzo, come in tanti altri, Francesco Mastriani non mostra eccessiva simpatia per i francesi e la loro lingua: «È incredibile come la lingua francese, così schifa e inceppata nella sua costruzione, così monca e zoppa nel suo andamento, così stentata e ridicola nella sua pronunzia, così poco atta ai grandi pensieri, è incredibile come questa civettuola abbia ottenuto in Europa una specie di universalità, e venga dai più tenuta in concetto di vaga e dolce favella». [3] E ancora: «I parigini accorrono sempre in folla dovunque li chiama un novello spettacolo, di qualunque maniera si sia; e per essi è indifferente lo assistere così ad una di quelle scene infernali che si chiamano sommosse e che tanto disonorano la morale, la ragione e la civiltà di un popolo, come trarre ad una pubblica mostra di belle arti». [4]
Un’altra riflessione di Mastriani che pure tende a ridicolizzare i francesi: «I francesi ballano con grazia, con disinvoltura, ed in questo noi riconosciamo reverenti ed umili la loro superiorità. Il primo gran poeta epico è italiano, Dante; il primo scultore in tutto il mondo è italiano, Michelangelo; il più grande pittore del mondo è italiano, Raffaello; il più grande restauratore delle scienze naturali è italiano, Galileo; il più grande politico de’mezzi tempi è italiano, Machiavelli; il primo che abbia rischiarato colla filosofia la storia è italiano, Vico: ma a qual paese appartiene chi insegnò pel primo all’Europa il vero modo di valsare?». [5]
Della città di Pisa pure abbondano le descrizioni artistiche e riferimenti storici: «Pisa può ben dirsi la città marmorea: i monumenti, i palagi, il suolo, le chiese, le tombe, tutto è di marmo. Gli stranieri soglion dire che anche gli uomini di questa città sono di marmo, forse perché così per essi vi trovarono le donne». [6]
A proposito di donne ci troviamo un interessante aneddoto sul pittore Giotto:
«Dolente che nissuno comperasse più quadri e che però più di un giorno gli convenisse contentarsi d’una magra polenta, ebbe un mattino il pensiero di dipingere una figura di donna di mezzana bellezza (forse più brutta che bella), e di esporre il suo quadro alla porta della sua abitazione, a vista dei viandanti, dopo di avere scritto a grandi lettere, a pie’ del quadro: Ritratto della più bella donna di Pisa. Ben si può immaginare qual si fossero il dispetto e la collera della dame pisane, non meno che de’ loro mariti o amanti, nel veder fatto così grave oltraggio al bel sesso, a tal guisa disconosciuta e disprezzata la bellezza delle loro donne. E moltissimi andarono dal pittore a dimandargli ragione del perché avesse osato dire che quella donna, di cui avea fatto il ritratto, era la più bella in tutta Pisa, mentre passeggiavano per la città certi visini da far morire di passione anche un morto. A somiglianti rimostranze e rimproveri il Giotto, che avea suo disegno, rispondeva, in quanto a lui, non conoscere in Pisa una donna più bella di quella di cui avea posto l’immagine sulla tela, e che se altra ve ne fosse, si desse l’incomodo di farsi vedere a lui, perciocché subitamente, se così era nel fatto, avrebbela dipinta ed esposta al pubblico, emendando a siffatto modo l’involontario errore.
«Come prima si divulgò nella città la risposta di Giotto, la sua casa diventò il convegno delle più belle e ragguardevoli gentildonne di Pisa, le quali si faceano in tutta fretta ritrarre sulla tela, e compensavano largamente l’opera dell’artista, cui più non bastava il tempo per li tanti incarichi ond’era assediato. I quattrini gli pioveano nel borsellino da ogni parte, sì che ei benediceva il bel pensiero che avea avuto di scavare nella più inesauribile miniera, quella della vanità femminile». [7]
Di Pisa Mastriani ricorda anche dei versi che Dante gli dedicò, con il verso: «Ahi Pisa, vituperio delle genti… Non dovei tu i figliuoli porre a tal croce». [8]
Invece di Firenze ne tesse le lodi: «Federico, visitò in appresso la Toscana. Firenze, la bella città, la patria dell’Allighieri, offrì all’invido sguardo del francese i suoi mille monumenti, che parlano al cuore e alla fantasia, e danno a questa città a giusto titolo il nome di sede della civiltà italiana». [9]
Da religioso convinto, anche in questo romanzo non manca di affrontare, seppur in modo breve, l’argomento religioso e fa notare che: «Il filosofo di Ferney, scrisse mille volumi, e una sola volta egli fu sublime, quando accattò un subbietto di tragedia a quella Religione che egli avea schernita. La Zaira di Voltaire è la più grande confutazione delle opere di questo poeta.
«Le grandi bellezze de’nostri poeti, le opere immortali de’pittori e scultori italiani, van debitore al genio e alle credenze della nostra Religione, feconda madre ispiratrice di tutte le fonti del vero e del bello. Il genio artistico è soltanto italiano e cattolico» .[10]
Pochi i riferimenti storici. Viene citato il Generale Nicolas-Joseph Maison comandante del corpo francese di spedizione nella Morea (1828) «ma il Generale Maison, comandante la spedizione di Morea, dove’ trattenersi in quella città della Francia per particolari faccende di Stato.». [11]
Viene citata anche il re Carlo X di Borbone (Versailles 1757-Gorizia 1836), «Ho letto testè nel Dèbats, disse Eduardo, che S. M. il Re Carlo X è venuto da S. Cloud in questa capitale per vedere nel palazzo del Louvres il dipinto del suo primo pittore, il Barone Gèrard,[12] nel quale questo artista ha rappresentata l’epoca memoranda della incoronazione del Re nella Cattedrale di Reims». [13]
ROSARIO MASTRIANI
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[1] FRANCESCO MASTRIANI, Federico Lennois, Napoli, Tramater, 1853, vol. I. Parte Prima, cap. VI. «La compera», pag. 96
[2] Ibidem, vol. I. Parte Prima, cap. VII. «Le due napolitane», pag. 113.
[3] Ibidem, vol. I, Parte Prima, cap. VII. «Le due napolitane», pag. 118.
[4] Ibidem, vol. II. Parte Quarta, cap. II «Il Salone del 1829», pag. 101
[5] Ibidem, vol. II. Parte Quarta, cap. IV. «Il carnevale di Parigi», pag. 133.
[6] Ibidem, vol. I. Parte Seconda, cap. I. «La casa di Satana», pag. 151.
[7] Ibidem, vol. I. Parte Seconda, cap. I. «La casa di Satana», pag. 152.
[8] Ibidem, vol. I. Parte Seconda, cap. X. «Un’altra maschera», pag. 258.
[9] Ibidem, vol. II. Parte Terza, cap. V. «Federico pittore», pag. 85.
[10] Ibidem, vol. II. Parte Quarta, cap. II. «Il salone del 1829», pag. 105
[11] Ibidem, vol. I. Parte Prima, cap. II. «Il ritorno del fidanzato», pag. 30.
[12] Barone Francois Gèrard, Roma 1777 – Parigi 1837.
[13] FRANCESCO MASTRIANI, Federico Lennois, Napoli, Tramater, 1852, vol. I. Parte Prima, cap. VI. «La compera», pag.100.
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I fatti narrati nel romanzo si svolgono nell’arco di un anno, dal giugno 1829 allo stesso mese dell’anno dopo. Nel corso della narrazione si fa riferimento anche a fatti precedenti e, in chiusura del romanzo, sia accenna all’insurrezione di Parigi nelle tre giornate di luglio (27, 28 e 29) del 1830 e a un incontro significativo avvenuto il Venerdì Santo del 1831.
I luoghi del romanzo non sono, caso raro ma non unico in Mastriani, rioni di Napoli, località campane o altre del regno di Napoli o delle Due Sicilie. I fatti narrati si svolgono in Francia, a Parigi e ad Auteil (sobborgo della capitale francese), oltre che in Italia, a Pisa.
Il pittore Federico Lennois, il personaggio che dà il nome al romanzo, vi entra indirettamente. Egli è ricordato dai fratelli Augusto e Isalina d’Orbeil, nel corso di una passeggiata nel parco della residenza estiva dell’aristocratica loro famiglia parigina, come un discolo le cui ultime notizie, di ormai tanti anni prima, lo davano come giovane malvivente rinchiuso nella prigione dei ladruncoli a Parigi.
C’è grande attesa in casa d’Orbeil per l’annunciato ritorno in Francia di Giustino Victor, ufficiale dell’esercito e reduce da una vittoriosa azione di guerra in Turchia. Giustino è il fidanzato di Isalina, è grande e vecchio amico di Augusto ed è ben gradito ai loro genitori. Gli si fanno quindi grandi feste quando improvvisamente compare nel parco davanti ai due fratelli a passeggio. Giustino non è solo, lo accompagna un nuovo amico conosciuto sulla via del ritorno, un gentiluomo, pittore, di nome Ferdinando Ducastel, il quale altri non è se non Federico Lennois tornato ad Auteil per vendicarsi. Per vendicarsi di Giustino, innanzitutto, perché gli uccise a bastonate il diletto cane Astolfo, suo unico compagno negli anni della fanciullezza. Un’infanzia difficile, durissima quella di Federico Lennois che mai ebbe l’affetto del padre di cui portava il nome e che, dalla madre Zenaide ebbe infiniti maltrattamenti, continui e violenti. Federico, che è ambizioso, vendicativo e invidioso della felicità altrui, comincia a preparare un piano diabolico che porti alla morte di Giustino e alla rovina di altre invidiate persone felici.
Federico Lennois/Ferdinando Ducastel incontra Eduardo Horms, il più ricco banchiere di Scozia, collezionista di opere d’arte, che dà al pittore una somma enorme, cinquantamila franchi, corrispondente a metà della somma pattuita per l’acquisto del quadro La Preghiera. Il quadro non può essere subito ritirato perché deve essere presentato all’Esposizione Generale di Parigi di quell’anno. Eduardo Horms è ben contento di versare la somma anche perché Federico Lennois è suo fratello: sono entrambi figli del baronetto Edmondo Brighton, come dopo la cui morte è stato loro rivelato dall’impareggiabile famiglio del baronetto, Maurizio Barkley.
Federico Lennois/Ferdinand Ducastel intasca il denaro e chiede e ottiene di non essere più chiamato con il suo vecchio nome, ma solo con quello nuovo per motivi che non chiarisce ma che dichiara della massima importanza. Egli intanto sente una forte invidia anche per il fratello banchiere e medita vendetta anche nei suoi confronti.
Ecco il piano. Eduardo Horms, marito gelosissimo di Lucia Fritzheim, viene aizzato contro Giustino Victor, francese insolente e libertino che mostra un’attenzione speciale per tutte le donne belle fra cui è certamente da annoverare anche la moglie del banchiere. Con lettere anonime il Lennois/Ducastel fa credere a Giustino che Lucia lo attende in un luogo discreto per un incontro galante; e fa credere a Eduardo, con un’altra lettera anonima, la stessa falsità. Un facile scambio di persona, grazie a una vecchia amicizia del Lennois/Ducastel che si presta al gioco e scappa all’arrivo simultaneo dell’eccitato libertino e del marito geloso, completano l’inganno. Scatta la trappola. Il banchiere scozzese uccide Giustino. La tragedia colpisce due famiglie e fa la felicità perversa del vero artefice del misfatto.
Il quadro, intanto, La Preghiera, firmato Ferdinando Ducastel, è il più ammirato alla Esposizione Generale e vince il primo premio che conferisce grande prestigio e onori al presunto autore. “Presunto” perché – il narratore ci ha ben informato – il quadro è stato dipinto da Ugo Ferraretti, pittore pisano malato di tisi, cui Lennois/Ducastel ha anticipato il decesso e rubato il capolavoro.
Intanto arriva a Parigi anche Luigia Aldinelli, l’innamorata del vero pittore del quadro famoso. Luigia Aldinelli è da tutti osannata e riconosciuta come la donna del quadro perché è lei che Ugo Ferraretti dipinse creando il suo ultimo e più grande lavoro.
Luigia smaschera l’impostore con un teatrale travestimento. Ella aveva fatto una maschera di cera dell’innamorato morente e ora la indossa con un abito carnevalesco in una festa cui partecipa il Lennois/Ducastel al colmo ella sua gloria. L’improvvisa presenza, o visione del Ferraretti e i suoi severi rimproveri per bocca di Luigia Aldinelli atterriscono il pittore al punto da fare vacillare la sua ragione. Lennois/Ducastel impazzisce ed è portato al manicomio di Bicètre. La storia non è finita e, anzi, si preparano altri colpi di scena.
Le cure psichiatriche sembrano sortire buoni effetti per l’impazzito pittore, ma un giorno, appena vede una donna, paziente come lui del manicomio, la sua ragione è di nuovo sconvolta. Viene identificata la pazza che ha causato la ricaduta. Si tratta di Zenaide, la crudelissima madre di Federico Lennois impazzita quando le fu impedito di vedere Augusto d’Orbeil, cui le aveva dato il suo latte da balia mentre allevava il suo figliuolo.
Mentre Lennois/Ducastel subisce una ricaduta alla vista di Zenaide, questa rinsavisce. Chiede perdono al pittore per le percosse e tutti i maltrattamenti che gli ha inflitto e, chiamando a testimone il medico presente che, guarda caso, aveva assistito al parto della signora d’Orbeil, madre di Augusto, tanti anni prima, dichiara quanto segue: il pittore impazzito cha alla sua vista ha avuto una grave ricaduta non è Ferdinando Ducastel e non è neanche Federico Lennois; egli è il vero Augusto d’Orbeil che lei, Zenaide, da giovane balia, ha scambiato nella culla con il proprio figliuolo. Questo spiega l’attaccamento morboso della balia per il giovine d’Orbeil e le botte a Federico Lennois creduto da tutti il suo proprio figliuolo.
La pazza dimostra di essere chiaramente rinsavita: può provare quanto afferma perché il medico che assistette al parto della signora d’Orbeil è ora presente nel manicomio e può testimoniare della identità del vero Augusto d’Orbeil scoprendo la schiena del pazzo dove si può scorgere una grossa macchia nera, una voglia che dal medico venne notata alla nascita del bimbo. Il medico conferma. La schiena del pazzo viene denudata: è lui il vero Augusto d’Orbeil.
Il figlio di Zenaide e del baronetto Eduardo Brighton è nel palazzo degli Orbeil e il vero Augusto è in manicomio. Che fare? Zenaide scrive una lettera al visconte d’Orbeil confessando lo scambio dei bimbi nella culla e chiedendo perdono. Il visconte risponde che le darà il perdono soltanto quando ella morrà. Zenaide muore. Il visconte chiama Augusto e gli rivela la sua vera identità. Il giovine si dispera. È disperato anche il visconte che vede ora disperso il patrimonio di famiglia. Ma forse la soluzione c’è. Il visconte pensa che Augusto potrebbe sposare la ora non più sorella Isalina e il patrimonio restare intatto in casa d’Orbeil. Ma si pone un problema di nobiltà e di titoli. Se Augusto non è più un d’Orbeil non è più nessuno, ovvero è un uomo senza nome, senza titoli, senza sostanze.
La situazione è risolta dall’impareggiabile esquire Maurizio Barkley che grazie al titolo nobiliare e ai beni ereditati dal suo antico padrone può ora intervenire con autorità. Egli si offre di adottare il giovane come proprio figliuolo e di assegnargli quindi quanto occorre perché il matrimonio si faccia. La soluzione è accettata e fa tutti felici (ma non sappiamo nulla del parere di Isalina, ancora in lutto per la morte del fidanzato Giustino). È felicissimo anche Maurizio Barkley perché così ha esaudito i voti del pentito baronetto, che proprio nelle mani del fedele famiglio aveva messo la protezione dei suoi cinque figli illegittimi sparsi per tutta Europa.
Di questi tre figli (tre maschi e due femmine) ricordiamo che il primo, Daniele Fritzheim/Daniele de’ Rimini, era morto nella conclusione de Il mio cadavere. Il secondo, il banchiere scozzese Eduardo Horms, a seguito di un giusto processo, aveva ottenuto la liberazione ma con l’obbligo di lasciare immediatamente la Francia. Il terzo figlio è il nostro Federico Lennois/Augusto d’Orbeil; mentre le due donne sono Luigia Aldinelli di Pisa e Estrella Encinar di Cadice, della quale non abbiamo ancora sentito parlare, ma il romanzo è giunto alla fine e quindi compare anche lei nell’ “Epilogo” che contiene le seguenti notizie.
Eduardo Horms torna in Scozia portando con sé la moglie napoletana Lucia Fritzheim. Di Federico Lennois/Augusto d’Orbeil sappiamo questo: in una lettera spedita al visconte si comunicava che il figlio, scappato dal manicomio nel corso delle tre giornate rivoluzionarie di Parigi (27, 28 e 29 luglio 1830) «è stato ritrovato estinto sotto la barricata del quartiere di Sant’Antonio: una palla l’ha colpito verso le regioni del cuore»[1].
Estrella Encinar nell’ultima pagina incontra Luigia Aldinelli. Quest’ultima si è fatta suora, ha una bellissima voce e canta con le sue consorelle del convento di San Dionigi un bellissimo Miserere del compositore italiano Zingarelli il Venerdì Santo dell’anno 1831. Una nobildonna forestiera, incantata dalla voce di Luigia, chiede di vederla. L’incontro porta alla rivelazione; si riconoscono sorelle: «Sono figliuola come voi del conte di Sierra Blonda» [2], dice l’andalusa, citando il titolo spagnolo del baronetto Edmondo Brighton. All’abbraccio delle sorelle segue un’ultima nota su Luigia che, con La Preghiera appesa a una parete della sua cella, dono del fratello Eduardo Horms, «ora non vivea che per pregare»[3].
FRANCESCO GUARDIANI
[1] Francesco Mastriani, Federico Lennois, Napoli, Tramater, 1853, Parte Quinta, p. 235
[2] Ivi, p. 242
[3] Ivi. p. 243