Le avventure di Pinocchio contro La Cieca di Sorrento; Mastro Geppetto contro La Pazza di Piedigrotta; la Fata Turchina sfida I Misteri di Napoli. Inverosimile, ma possibile. Carlo Collodi e Francesco Mastriani, due mondi letterari apparentemente lontani anni luce, sono vissuti nello stesso secolo (il XIX), nati a pochi anni di distanza – uno a Firenze e l’altro a Napoli – e morti in successione, il primo nel 1890 e il secondo nel 1891. E in comune, oltre alla penna e al successo, hanno avuto Napoli. Di Mastriani si sa, innamorato disperato della propria città, è stato un prolifico autore di fama al punto che è difficile stilare una sua bibliografia completa. E di Collodi? Pochi sanno, per esempio, che anche lui scrisse un libro sociale sui misteri, ma del capoluogo toscano (I Misteri di Firenze, 1857). Eppure stupisce l’empatia che riesce a creare in alcuni dei suoi scritti: estraneo e settentrionale, Collodi sorprende per i suoi passaggi delicati e colorati, e per il rapporto che instaura con vicoli per lui indecifrabili e tuttavia emozionanti. Una volta, a distanza ma non troppo, i due si sfidarono. Il ring che ospitò la contesa: Napoli. L’autore di Pinocchio, all’anagrafe Carlo Lorenzini, lodò il tripudio di tinte dell’antica strada di Porto nei pressi di Rua Catalana e i suoi venditori che «mondano erbaggi, soffiano nei fornelli, rimestano nelle cazzeruole»:
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[…] Marinai, soldati e tutto il basso popolo di Napoli rammulina qua dentro. Si urtano, si sospingono, si accalcano sui lati al passare dei carri, e i mille incidenti a cui dà luogo tanto movimento e tanto giro di piccoli affari, fan scattare la vivacità napoletana in tutto il suo sfoggio di gesti animati, di voci alte e stridenti, di fisionomie concitate, sicchè parrebbe che ad ogni momento dovessero venire alle mani. Ma niente affatto! Le loro fisionomie sono concitate, è vero, ma non per ira né risentimento contro qualcuno, ma perché il soggetto de’ loro discorsi lo richiede. [1]
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Alla pittoresca descrizione di Collodi, ecco che cosa indirettamente rispose Mastriani, il quale associò l’intero quartiere a una rete di umidi, scuri e sudici viottoli:
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La Rua Francesca, la Piazza Francese, la Porta de’ Greci, la Rua Catalana sono nomi che dovrebbero ormai sparire assieme alle fetide mura dove que’ nomi non più leggibili sono impressi a sempiterna nostra vergogna. Si abbattano una volta questi testimoni della nostra accidiosa codardia; si adeguino al suolo quelle congerie di freddissime fabbriche accatastate le une su le altre, dove ne’ più immondi covili vivono, o, per dir meglio, marciscono intere famiglie di esseri animati dal soffio divino, i quali hanno pure il dritto all’aria ed alla luce, che Iddio dispensa a tutte le sue creature. [2]
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Come sono possibili due sguardi contemporanei sulla città così in antitesi? La visione filogaribaldina di Mastriani – «Voglia Dio benedire all’opera della nostra rigenerazione, iniziata dal più Grande Italiano vivente Giuseppe Garibaldi». [3] ‒ è verista e naturalista ‒ «Che che ne dica qualche nostro criticuzzo infranciosato, nessuno può contrastarmi la priorità in Italia di quel genere che oggidì si dimanda verismo». [4] ‒ e con I vermi contese il primato di genere a Zola. Non può essere certamente un caso, allora, che anche la parole su Napoli dello scrittore francese risultino malate di cinismo; il verismo di Zola – alla pari di quello del romanziere d’appendice Mastriani – è puro crudismo gratuito e polemismo sociale: pare che il male sia negli occhi di chi guarda.
AGNESE PALUMBO e MAURIZIO PONTICELLO
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[1] CARLO COLLODI, Il viaggio per l’Italia di Giannettino, 1880.
[2] FRANCESCO MASTRIANI, I vermi, Napoli, L. Gargiulo, 1867. Vol. III. Cap. II «Le tarle», pag. 66.
[3] Ibidem, vol. X. «Conchiusione», pag. 110.
[4] FRANCESCO MASTRIANI, Sotto altro cielo, Napoli, G. Salvati, senza anno, forse 1881, in «Prefazione dell’Autore», pag. XIII.