Ora eccoci a narrare un fatterello che divertirà, speriamo, i nostri lettori:
Carlo Y… è un bel giovine napolitano, diffusissimo in tutte le riunioni ove si balla: va matto per la danza. Nessuno ha fatto più caldi voti al cielo per la cessazione dell’epidemia colerica nel nostro paese quanti ne ha fatti il nostro Carlo; ma non crediate che tanto gli stesse al cuore pel bene del suo prossimo cristiano ad anco pel pensiero della propria pelle. Gnornò. Carlo ha sospirato giorni e notti per la partenza del colera, non per altro che perché l’epidemia chiudeva i salotti al ballo e sospendeva tutte le periodiche. La sera, era proprio un martirio per lui, che non sapea che farsene: tutto l’annoia all’infuori del ballo. Egli mangia con più appetito il mattino quando sa che la sera una festa da ballo lo aspetta; e sia pure un ballo in un guscio di noce, come si balla oggi in parecchie case dove il salotto non è largo più di quattro metri, né più lungo si sei: e sia pure una quadriglia a quattro coppie con due mamme su la quarantina, con due uomini seri cogli occhiali, e con due ragazzine di otto in dieci anni che provano le lezioni dell’Istituto. Purché si balli, Carlo è felice, e non va troppo pel sottile. Alla morte di questo giovine (a’cani dicendo) i frenologi troveranno sul suo cranio la protuberanza particolare della danza, se pure non l’abbiano più logicamente a trovare nell’osso tibiale o nel malleolo.
Ognuno crederà facilmente che un giovine sì appassionato per la danza si abbia a trovare in così agiate condizioni di fortuna che gli permettano di coltivare questo gusto particolare per una specie di divertimento che sembra escludere ogni serio pensiero ed ogni inquietante cura dell’animo. E qui ognuno s’inganna onninamente; imperocchè sotto i gradi di latitudine dove i geografi situano questo nostro incantato paese, non ci è un disperato più disperato di Carlo Y…
Egli non ha un sangue impuro nelle vene; a questo hanno rimediato le eterne pillole di Halloway, lo sciroppo di Pagliani, e l’olio di fegato di merluzzo galante: e il sangue di Carlo gli scorre ne’lombi da quattro o cinque generazioni di cavalieri di non sappiamo quali ordini. In questa materia di ordini cavallereschi noi ci dichiariamo profani del tutto, perocchè abbiamo sempre creduto che il titolo più onorevole sia quello semplicissimo di UOMO ONESTO.
Dunque, Carlo era discendente da quattro generazioni di cavalieri; e forse per questa ragione egli avea ne’suoi garretti qualche cosa di cavallino, e ballava il valzero e la polca colla forza di tre cavalli.
Ma queste quattro generazioni di cavalieri di sangue turchino si erano occupate a mangiare un vistoso patrimonio, non sapendo e non volendo occuparsi di altro. Forse che i ricchi hanno bisogno di occuparsi? Si lasci il lavoro a quelli che hanno il sangue rosso nelle arterie.
Carlo venne al mondo quando dell’antico patrimonio non restava più che uno stralcio di crediti problematici. Ciò non pertanto, il giovinetto, a cui ambo i genitori erano morti quando egli era ancora di tenerissima età, venne educato da uno zio materno, una specie di barone di non si sa quale baronia, il quale dopo di avere sciupato tutte le proprie sostanze cercava di mantenere un certo lustro almeno apparente con le sostanze del nipotino.
Il barone B… era stato il tutore del nipote, e in questa qualità di tutore avea distrutto il residuo dell’avito patrimonio di Carlo; nella quale opera di distruzione lo aveano aiutato parecchie corifee de’nostri reali teatri espertissime in queste opere di demolizione. Il tutore barone avea fatto ciò che più o meno fanno tutt’i buoni tutori e amministratori in generale; imperciocchè l’obbligo di un onesto amministratore è quello di correggere l’arimmetica degli amministrati – A buoni conti, il barone se n’era visto bene, come si suol dire, della pasta in cui avea le mani, il mondo accusava il barone di estorsioni e di abuso di confidenza; ma, di grazia, signori lettori, avete mai veduto in faccia questo signore che si chiama il signor Mondo? Sapreste dirmi che aspetto ha? Noi neanco l’abbiamo mai veduto questo rispettabile galantuomo; ma certo ch’ei debba avere una faccia originale, stramba, ridicola. Non ci è un canzonatore più solenne di lui; egli vi dice una cosa con tanta serietà che voi giurereste su la sua parola. Dio vi cansi! Monsignor Mondo ha una dichiarata antipatia per la verità, per la ragione, per la giustizia e per l’onestà; eppure, a sentirlo parlare, voi rimanete edificato alle sue massime, alle sue teorie, a’suoi dommi, alla sua morale. Egli ha parole fulminanti contro i birbanti d’ogni maniera; non la perdona a nessun fallo, a nessun traviamento, a nessuna caduta. Non ci è santo che sfugga alla sua lingua. Che morale! che religione! che onestà! un Padre Segneri, un S. Paolo, un Cristo non parlano come lui!… State in guardia, o gaglioffacci! è una commedia e non altro quella che il signor Mondo recita con tanta finezza d’arte e con tanta abilità sopraffina.
Dunque, il mondo diceva in pubblico parlando del signor barone tutore del signorino Carlo:
‒ Che baronata! Che assassinio! Mangiarsi le sostanze del povero orfanello! Abusare con tanta disonestà della fiducia in lui riposta da’genitori del giovinetto! Il barone è un ladro, è un furfante, che meriterebbe le galere.
E, volte le spalle, il signor Mondo dicea tra sé: ‒ Che talentacci ha avuto il barone! Egli sarebbe stato il più gran minchione della terra, se non avesse saputo profittare de’mezzi che la fortuna gli offeriva di darsi bel tempo a divertirsi. Potessero tutti fare altrettanto!
E questo signor Mondo che pocanzi avea detto: ‒ Il barone è un ladro, un furfante ec. ec., se per avventura abbattevasi in lui per la strada, si scappellava fino a terra, il chiamava gentilissimo, e si tenea onorato di stringergli la mano.
Puh! Signor mondo, voi siete il più gran miserabile che sia nel mondo.
E, dopo ciò, io non so veramente come si facciano anche dagli onesti tanti sacrifici per questo codardaccio di mondo che meriterebbe che gli si sputasse sul viso, se egli non avesse l’ingegno di averlo sempre nascosto o mascherato.
Il barone adunque, che conosceva messer lo mondo intus et in cute, lo lasciava abbaiare alla luna quando egli non lo sentiva, e si tenea pago che l’ipocrita gli baciasse la mano e si scappellasse al suo passaggio. E tirava via pel fatto suo, tappandosi gli orecchi ai clamori d’una certa cosa che si sentiva proprio nelle circostanze del cuore e che, nel linguaggio della notomia morale, addimandasi COSCIENZA.
Il barone avea trentadue anni quando Carlo ne avea sei o sette. Immaginate se un uomo di buona salute, a quella età ancora giovanile di 32 anni, può darsi pensiero dell’avvenire di un corpicciuolo moccioso, che ebbe la indiscrezione di nascere male a proposito. A 32 anni, la qualità di zio ha un po’della parrucca; figuratevi poi quando a questo titolo va congiunto quello di tutore e di amministratore!
I Francesi sono curiosi certe volte: la loro lingua è fatta apposta per rispondere alla famosa massima di Talleyrand che la parola è stata data all’uomo per dissimulare il proprio pensiero. Essi hanno certe espressioni veramente originali, per non dire immorali. Il barone B… era un bon vivant, secondo i francesi; il che significa che il barone era un mal vivente, secondo gl’Italiani, il cui linguaggio è meno ipocrito. Ma volendo stare alla significazione che i francesi danno a questa parola di bon vivant, il barone B… vivea la più scioperata vita che possa menare uno scapolo senza principî, senza istruzioni e senza cuore.
Come il ballo fu in prosieguo di tempo la passione favorita e dominante di Carlo, così la passione del barone zio erano le corifee di S. Carlo e le ostriche del Fusaro. Non sappiamo in verità quale analogia possa essere tra una corifea e un’ostrica, tranne che non si voglia riconoscere una certa analogia nell’antitesi cioè che il cuore d’una corifea si apre coll’oro e quello di un’ostrica si apre col ferro, e che la prima si apre per mangiare, e la seconda si apre per essere mangiata.
Il barone si ruinò per le corifee e per le ostriche. Alcuni gli davano ragione di ruinarsi per le prime, dicendo che tra le umane follie quella di ruinarsi per il bel sesso è la più perdonabile; altre invece, cujus venter Deus est, asserivano che il barone non avea torto di sciupare i quattrini appresso alle ostriche, le quali meriterebbero il brevetto d’invenzione, aggiugnendo che se la natura non avesse fatto altro di buono, sarebbe da lodare per la creazione di questi saporosi cetacei.
Fatto sta che l’uomo si secca di tutto in questo mondo, tranne che delle corifee e delle ostriche; e però il signor barone, benché divenisse bigio ne’mustacchi sempre incerati alla punta, non ismetteva di abbandonarsi al suo gusto favorito, avvegnachè i mezzi più non corrispondessero alle sue intenzioni. Ci sono certi gusti e certi amori che non si perdono mai pel volgere degli anni; anzi, sembra che l’età li renda più gagliardi e tenaci.
Il barone invecchiava; ma i suoi vizi non invecchiavano. Nel resto, la vecchiezza non è che per la gente di poco spirito e bisognosa di mezzi. Un uomo comme il faut [1] non diventa mai vecchio. L’acqua della China fa sparire ogni canizie, e il Rigeneratore dei capelli ogni calvizie. Mettete un uomo a 60 anni nelle mani di Thuret ed egli ve lo riconsegnerà, come Fausto, ringiovanito come a 20 anni. D’altra parte, ci è una specie di donne, che non guardano tanto pel sottile alla età degli uomini quando si tratta di cavar marenghi dalle loro tasche. Le espansioni de’loro cuori non prendono norma dalle fedi di nascita de’loro adoratori; ma bensì dalle iscrizioni de’loro certificati di rendita.
Ecco perché il barone seguitava a menar vita galante anche quando Carlo non era più un fanciullone di otto anni, ma bensì un bel giovanotto quadrilustre. E nel tempo che Carlo contava venti anni, il barone suo zio ne contava un quarantasei o quarantasette, età che dovrebbe essere della discrezione, ma che più spesso è l’età dell’indiscrezione.
(Pubblicato l’11 novembre 1866)
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Quando Carlo fu di età maggiore, fu costretto, per comparire, di ricorrere a’ vampiri.
Se i nostri lettori non sanno ciò che significa un vampiro, noi direm loro che intendiamo per vampiri tutti coloro che succhiano il sangue altrui, cioè padroni di casa, percettori, esattori ed altri zugatori di questo genere.
Nello scorso ottobre Carlo s’invaghì di una giovinetta ch’era a villeggiare sul Vomero, e colla quale egli avea ballato un centinaio di valzeri e di polche. Cessato il tempo della villeggiatura, la ragazza tornò in Napoli, e fece comprendere a Carlo che ella non potea dargli più retta, s’egli non si fosse rivolto al papà, e non avesse formalmente chiesto la sua mano.
Non fu possibile di scappare all’agguato.
Fu stabilito il giorno, o, per meglio dire, la sera in cui Carlo dovea presentarsi al papà della ragazza per chiederla in isposa.
Fu fissata la sera di domenica 4 novembre ultimo scorso. Carlo tenne questo giorno come di cattivo augurio per certe sue particolari ragioni, come vedremo.
Lettori benigni e maligni, conoscete voi qualche cosa di più imbarazzante e, ardisco dire, di più ridicolo d’una parlata a papà?
Carlo si presentò nella casa della sua bella, come si sarebbe presentato a Mastro Donato un condannato a morte.
Fu introdotto nel salotto officialmente illuminato da due lampade a carcel.
Il papà aprì un uscio e venne nel salotto dov’era il nostro Carlo. Era un bell’uomo di sotto i cinquanta.
‒ Con chi ho l’onore di parlare? chiese il papà al nostro giovinotto.
‒ Carlo Y… è il mio nome – rispose questi con quel medesimo aplomb onde avrebbe detto Rothschild o Napoleone.
‒ Carlo Y…! ripeté il babbo della ragazza, guardando in aria come un uomo che cerchi di ricordarsi di un nome.
‒ Perdoni un momento, soggiunse quindi – e si cacciò in uno stanzino contiguo, donde uscì novellamente con un pezzettino di carta in mano a forma di cambiale.
‒ È questa la vostra firma, signor Carlo?
Carlo allibì, si fece bianco, verde e rosso successivamente. Non sappiamo con precisione se fu prima il rosso o il bianco o il verde il colore che apparve sul viso del disgraziato, che ebbe appena la forza di rispondere:
‒ È mia!
‒ Voi siete mio debitore, signor Carlo. Questa cambiale è stata a me girata; e scade appunto quest’oggi. Vi aspetto domani pel pagamento.
Il vampiro, senza neppure salutare il giovine, lo piantò e trasse via.
Carlo acchiappa il cappello per svignarsela, ma la ragazza gli si fa incontro.
‒ Ebbene?… che hai conchiuso?
‒ Tutto, bella mia… ho anche firmato.
‒ I capitoli?
‒ No, altra cosa.
‒ Ah! capisco… papà ti ha promesso un casino?
‒ Precisamente.
‒ E dove?
‒ Alla Concordia.
(Pubblicato il 2 dicembre 1866)
FRANCESCO MASTRIANI
[1] Capite niente di questo gallico modo? Che s’intende per un uomo come bisogna? Povera logica, in quali torture ti ha messa questa lingua che ha la presunzione di dirsi universale?