Se un lontano 23 maggio 1990 non fossi stata invitata a tenere una conferenza su Francesco Mastriani fuori dalla cultura accademica, forse, a parte le nozioni frammentarie sulla trilogia, non l’avrei tanto approfonditamente letto e studiato fino a siglarne un saggio e ad appassionarmi ai suoi feuilletons, imbastiti di un sostrato sociale che non s’impantana in un passato senza proiezione di futuro, in quanto quel passato si specchia in un oggi con le stesse aberrazioni di ieri, quasi a significare che le coordinate della storia interagiscono con malversare e devianze, rivalità e gelosie, operosità e infingardaggine, odio e vendetta, amore e morte, veleno di quel quotidiano e del nostro contesto.
Di sfondo il sottinteso sadiano della natura malvagia: napoletanizzatosi connota di un delinquere che ristagna nella gora del furto, del mercimonio, dell’omicidio, antemurale ad ogni forma di sanificazione morale, per il decadere di fattori socio-politici e socio-ambientali.
Sulla ribalta dell’ex lege una deteriorata fenomenologia del vissuto che il Nostro assorbe calcando il palcoscenico della strada, impregnandosi di odori, profumi, colori, sapori, parlata larga e sguaiata, scienza di arrangiarsi, psicologia, furfanteria, voci tristi e canore di popolani, anonimi e sconosciuti, tutti e sempre in mezzo alle strade; imperciocchè in Napoli la casa è un pretesto; la strada è casa, è bottega, è tutto. Un tutto, all’epoca de La Malavita, esposto all’invasione di eserciti di vacche e di capre, che inondavano in ogni ora del giorno e della sera tutte le strade, ed anco le più nobili.
Uno scadere della proverbiale bellezza, ieri contaminata da mandrie e greggi ambulanti, oggi da cumuli di rifiuti solidi maleolenti, mefitici, ad attestazione del senso civico abiurato e delle istituzioni traballanti, latitanti sul piano efficientistico, se non colluse con le eminenze grigie della criminalità organizzata o imprenditoriale.
Degrado secolare e delinquenza endemica analogizzano la Napoli mastrianea nella città metropolitana del Duemila, sfigurata, allora come oggi, da problemi insoluti. L’humus più fertile? I vicoli da sempre malfamati.
Nel Borgo Sant’Antonio Abate è un vicoletto addimandato de’Lepri, che mette capo ad un altro dello stesso nome. In quel vicolo c’è un portoncino scuro, affumicato, fetido e sgocciolante acqua da tutti i pori.
A gran ventura i mariuoli del quartiere non avevano badato a tòr via il martello ch’era a una delle bande. Una sera… verso le due di scuro… due uomini … due facce sinistre… si cacciavano nel portoncino che abbiamo mostrato. Tutti e due non erano né vecchi né giovani; né a riguardarli intensamente avresti potuto assegnar loro una età.
Gli animali, specialmente quelli che appartengono alle razze nemiche dell’uomo, non hanno età.
È l’incipit de I Misteri di Napoli, raccordabili alla gotica fiction e alle tesi di Richardson, de Sade, Radecliffe, ma con la caratteristica personalissima di non adombrare l’innata propensione per le masse composite, emarginate e diseredate con progenitura quell’Eugene Sue che nel 1842 sul Journal de Dèbats pubblica a puntate I Misteri di Parigi.
E senza sconfinare dall’area partenopea, a rivisitare archetipi nostrani Lo cunto de li cunti, con la differenza sostanziale che in Basile è di scena la trasformazione fiabesca del tessuto umano, laddove in Mastriani l’antropologia è suffragata dalla sensibilità dell’osservatore, che la amalgama con un materiale socio-ambientale costituito da nequizie, ladrocini, prostituzione, tratta e sfruttamento del lavoro minorile.
Se oggi nei vicoli, nei budelli del centro storico e delle periferie spadroneggiano boss di acclarati clan, ieri ne erano i signori gli affiliati della paranza, tamurri e picciotti di sgarro, ombre sfuggenti, larve immateriali, che si dileguavano nei meandri di una toponomastica di vizi e perversioni; una casbah di donnette di infimo bordo: nei loro bassi soppalcati danno ricetto agli amanti ricercati da poliziotti e questurini. Esponente tristemente noto Ciccillo, figlio della tignosa, bravaccio abile a giocare di coltello e nelle tirate nelle faide della gang.
Individui sanguinari e violenti sfruttano, per sottrarsi a carcerazioni in attesa di giudizio, correità e complicità di decodificate bacate, rodate nell’arte di procacciarsi tutto e il contrario di tutto con illiceità.
La Malavita ne annovera a iosa, da Rosaria Sorce e Luisa, a Giovanna, la Granatiera, una sorta di Masaniello in gonnella, fiancheggiata, nella sommossa contro il Poggiali, da altre scalmanate par suo.
Armate di mazze e di quanto altro, schiamazzano, anatemizzano l’ispettore, nella loro crassa ignoranza, colpevole degli aggravi fiscali, estesi dal Governo di Torino a tutta la penisola.
Non è che una diversione in difesa di Ciccillo, dopo un regolamento di conto, finito male, imboscatosi nel basso della Granatiera, sua amante.
Sull’ordito del tralignare, eletto e stile di vita di uomini, sulla scala degli esseri vicini alle suggestioni delle bestie, la forza della legalità e della illegalità si antagonizzano, sbilanciate dalla istintività primitiva delle reiette, accomunate da spirito di gruppo, e dall’intelligenza sottile, farisaica del Poggiali.
Calmo, pacato, arguto e determinato, garantista, come Ferrer al forno delle grucce, con affettato e disarmante buonismo, persuade le bellicose viragini a deporre le armi di offesa e, di lì a poco, Ciccillo alla resa, mediatrice la Granatiera.
È il gioco dei vinti e dei vincitori con attore protagonista il Poggiali. Diplomatico consumato, sfodera un bifrontismo gianino, che fa invidia al più prudente dei politici.
La rivolta de La Malavita, gestita da donne, prime esponenti dell’Antistato, decapsula dalla fissità in libris e si contemporaneizza per effetto di un processo che è di attualizzazione del passato e storicizzazione del presente.
Nel boomerang ieri-oggi nelle maeste di Mastriani si ravvisano le donne di mala del nostro Mezzogiorno, furenti lanciatrici di pietre contro le squadre della polizia, nel tentativo di scongiurare la cattura dei loro boss, intanati nel bunker della clandestinità.
Donne di mala di ogni età della storia: gorgoglia nelle proprie viscere l’abominio della perversità.
Con Lucia e Giovanna, la Granatiera, Rosaria Sorce, maîtresse del mercato carnale. A lei Delfina affida Giustina, frutto di una relazione adulterina dell’ex marito con la serva Taide.
Affetta da disagio economico, nel quale si dibatte con la figlia legittima Andreana, impossibilitata a soddisfare la voracità dell’intrusa, mera macchina digerente, Delfina, a cuor leggero, se ne sbarazza.
Binomio indigenza-perversione, il lettore istintivamente è sollecitato a illazionare sul futuro precario della fanciulla: guasta dentro, con disinvoltura e spregiudicatezza, si abbandona alla perdizione per prurigine di sesso e cibo a sazietà.
Nella stagione del Secondo Ottocento dominato da sentimentalismo edulcorato e mellifluo, Giustina è l’antieroina romantica, prototipo di tante minorenni di oggi, disinibite e disamorate, che offrono le loro acerbe grazie a deviati posizionati del bel mondo e, perché no, anche dell’agone politico.
A coronamento del traviamento la futilità, la velleità di esibire griffati di moda o prodotti ultimo grido della tecnologia avanzata.
Il guaio è della famiglia: di niente si accorge con buona pace dell’incomunicabilità, fomentata dal gap generazionale.
Sono piaghe cancerose, fiamme che non inceneriscono in cinigia: reificazione della femminilità e della dirittura morale con matrice una solitudine irrazionale, che da di ogni adolescente, costituzionalmente fragile, una facile esca nelle mani dei violentatori: appagano l’inveterato narcisismo nello stupro e nella fuga repentina, sicuri della mancata certezza della pena.
Di scena sempre il sottofondo sadiano della natura malvagia, con la diversificazione che in Mastriani il nemico implacabile è l’inedia, la fame atavica: abbacina le sventurate che cadono nella trappola del libertino di turno.
Un sogno! Al risveglio, al clou della frustrazione, smaterializzano in Ombre.
Oggi, sole e con le problematiche esistenziali, chiudono la partita con la vita in ambienti fatiscenti, tra cumuli di immondizia, assistite da sconosciuti occasionali: concertano di non richiedere assistenza ospedaliera, per non essere coinvolti in un pasticciaccio di droga e di abusi sessuali.
Violenza! Ancora e sempre violenza esercitata su adolescenti ignare delle insidie della vita sui minori. Con ricorrenza quasi quotidiana, reportages e massmedia, col supporto di telecamere nascoste, registrano immagini raccapriccianti di bambinelli, addirittura dell’asilo nido, barbaramente strattonati, picchiati, rinchiusi in preda a pianto convulso, in stanze buie, da sedicenti educatrici e puericultrici: da Erinni inferociti sfogano la loro alienazione sui piccoli indifesi.
Al vaglio di tali maltrattamenti il pensiero corre a David Copperfield, percosso con una canna dal patrigno; a Cosetta de I Miserabili, dai Thènardier costretta a camminare scalza in pieno inverno e a svolgere le faccende più pesanti nella locanda; a Concettina, sfruttata dalla matrigna Maria Francesca come forza lavoro e per di più angosciata dall’incubo di essere affunata se rallenta il processo di decanapulazione; a Peppe Ruotolo: scaraventa contro il muro la neonata Caterina, perché la moglie ha partorito una seconda femmina, in luogo dell’agognato maschio; a Cesarina, ancora lattante, dapprima strangolata, poi sollevata con ambo le mani pei piedini, da Coletta, che la sbattè col capo violentemente contro la terra. Stessa sorte, ai giorni nostri, è inflitta a Lorenzo, tre anni, scaraventato dalla madre a terra; a Checca, abusata e fatta volare dall’alto di una delle case popolari del Parco Verde a Caivano; a Loris, strangolato dalla genitrice con dei fili elettrici; a Giuseppe, ucciso dal compagno della madre a Cardito.
Senza perifrasi od altri giri di parole, è l’uomo natura quello che Mastriani traspone sulla ribalta letteraria napoletana e regionale, in forza di quell’antropologia e demopsicologia, di cui ha un’informazione più che scientifica, empirica: inglobando credenze, arte, costumi, valori, codice morale, gli fornisce una visione essenzialistica e fissista dell’uomo, sempre uguale a sé medesimo, trapiantato sul piano letterario con inequivocabili cognizioni di concretezza, scevra di sbavature manieriste.
Un acquarello quello del malversare, che si combina con il fil rouge di un’ antropologia popolare che s’infiltra in vicende storiche complesse, ieri come oggi, di portata internazionale agglutinandosi con i tabù, i pregiudizi, le superstizioni, mutuate dall’oralità metropolitana, degenera, come le La Jena delle Fontanelle, in fenomeni di persecuzione razziale, messa in atto dalla spietatezza della legge del taglione: uccidere barbaramente un tenero virgulto per placare lo sdegno del martire Gennaro, offeso per il trafugamento, in località La Pagliara, ad oltre un miglio dalla strada principale, e quando comincia la via brutta e arenosa per cui si ascende al Vesuvio, di una statua che l’immortalava.
Lì, si è stabilita Ninive, vivendo con i due figli Rachele e Ismaele, lo stato di volontaria semiclandestinità, per sfuggire all’intolleranza e alle norme ostative del diritto d’integrazione.
Della sparizione viene accusata lei, Ninive von Mainz: a seguito del furto, le viene imputata la colpa della devastante eruzione del 1794. Sono illazioni alchemiche del popolino superstizioso, sobillato dalla blasfema Maria Agnese, al grido: Morte al figlio della giudea… si sgozzi il piccolo! Questa, a suo avviso, la soluzione per rabbonire il Santo che, per essere un martire della fede, opiniamo, non voglia bearsi di un disegno così scellerato, che snatura il concetto di sacralità e religiosità.
Vittima designata Ismaele, figlio di Ninive, sopravvissuta alla morte del marito Malachia, flagellato come un secondo Cristo in croce; alla morte del padre lapidato; alla strage degli avi: il nonno, divorato da due molossi; il bisavolo defenestrato, le figlie oltraggiate dalla ciurma di manigoldi, la moglie violentata dal prete, che guida la frotta di antropologi, aizzandoli con la ciancia che la città sarebbe stata distrutta dal Vesuvio (1698), vomitante cenere e lapilli, se non si fosse sacrificato un ebreo alla collera di Dio.
1698-1794, tempi non sospetti di campi di sterminio e di olocausto, di genocidio e di soluzione finale, pure la brutalità, il livore selvaggio dei villici hanno nodi di connessione e convergenza con la belluinità di Hitler e delle SS, con l’eccidio delle Ardeatine, con il golpe nel Cile, con la pulizia etnica nella ex Jugoslavia, sintomo e indizio di follia collettiva, di perdita di lucidità da quando, a rivisitare Giovanni, gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Nessun commento al nihil novi sub sole. Ci piace riandare al… più non disse, e rimase turbato. Come Virgilio siamo sconcertati e senza parole. Però, non ci asteniamo dal sottolineare l’attualità e modernità di Mastriani, che per la valenza dei suoi intrecci narrativi, empaticamente afferenti al nostro contingente, pretende di essere riesumato dai fondi di magazzino del mercato editoriale con un battage pubblicitario mirato alla visibilità e vivibilità, almeno in ambito regionale, accanto alla Invernizio, De Marchi, Fucini, Di Giacomo, Serao, Deledda.
Articolato in nove capitoli, lo spaccato sull’oppressione e vessazione degli ebrei come flagello, che sovrasta Napoli e dintorni, sembra staccarsi dalla peculiarità del romanzo d’appendice nostrano e procacciarsi al feuilleton con radici e antecedenti in un passato che si omogeneizza col il presente, per effetto di una vendetta, quella di una madre, covata in pectore, e portata a compimento con una idea di giustizia alla Edmondo Dantès.
Con la nuova struttura narrativa, quella che ai fedelissimi di Mastriani può configurarsi strozzatura o diversione all’interno del romanzo d’appendice tradizionale, è provvisoriamente accantonato, non dimenticato, dietro le quinte del quartiere Sanità-Fontanelle, perché il narratore colma la sensibile frattura dicotomica tra la prima e la seconda parte della storia, recuperando la pletora dei deviati e, da abile burattinaio, sollecitato da quell’antropologia popolare scaturita dalla consuetudine di soffermarsi sulla caratteristiche fisiche e comportamentali, li manovra dalla cabina di regia: li fa muovere su un proscenio profanato da fil rouge del malversare.
Feuilletonitazzatasi, la fabula rientra nei canoni distintivi del romanzo mastrianeo con la sentina di truffatori e contrabbandieri, una miscela di abietti, ladri e figure inquietanti, orripilanti già nei tratti fisiognomici: coniugano il delinquere con la precarietà economica e con un clima di terrore che, come folata di vento letale, ulula sul quartiere in un continuo lutto per il rapimento, l’occultamento, l’uccisione di bimbi innocenti.
C’è da chiedersi perché la risposta è nelle intenzioni di Mastriani e nell’escamotage di procedere con gradualità per tenere il pubblico in altalenante sospensione fino all’ agnizione finale.
Nell’attesa della rivelazione gli appassionati possono formulare ipotesi che, per singolarità dell’accaduto, rimandano all’esoterismo di stampo popolare, inteso come forza ostile, indomabile, funesta: essa circola nell’aria come spettro che inibisce e insidia.
Don Francesco, che non potrebbe annoverarsi tra i napoletani doc se ignorasse le leggende popolari diffuse in tutto il Sud, baratta la ferocia degli infanticidi per evento enigmatico, incomprensibile, mostruoso: di esso si reputa edotta la comunità delle Fontanelle, ancestralmente affascinata da tutto quanto è etichettato come stupefacente e misterico.
Congetture e supposizioni arzigogolano che dall’Ossuario una Vampa, metamorfizzatasi in jena, si aggiri tra case e stamberghe in cerca di carne burrosa per cibarsene, la serie dei morticini incolpevoli suffraga l’assunto che tra i defunti dell’ Ossuario dimorino anime dannate che, di volta in volta, prendono la forma di Vampiri, spiriti maligni che di notte tempo escono da’cimiteri, dove sono sepolte le loro ossa… si introducono nelle case circostanti e succhiano il sangue dei dormienti.
Si diversificano dalle Vampe, fiere feroci, che vanno alla ricerca dei bambini o de’fanciulli di pochi anni, li rapiscono dalle loro cune e se li traggono nel cimitero dove succhiano dapprima il sangue, e poi ne divorano le carni.
Jene, Vampe, Vampiri… oscurantismo della ragione di che è agitato da una forza potente quanto occulta, che domina e intimorisce.
Colpevoli l’ignoranza e l’analfabetismo, la meraviglia, lo sbigottimento, il terrore, il panico del soprannaturale si almanacca su stregoni, jettatori, versiere, maghe, streghe, maliarde, santone, bibbia e vangelo degli abitanti dei vicoli, che si lasciano condizionare da credenze tramandate dagli antenati: davano, nella loro ingenua credulità, per certa l’esistenza di spiriti, spiritelli, jettatori, munacielli, entità a metà tra l’esistente e l’inesistente, venerati, invocati (diversamente avrebbero apportato sciagure e calamità), per il miglioramento, se non capovolgimento in positivo delle condizioni economiche. Il pensiero correa Questi fantasmi di Eduardo.
Ma Napoli è una città sui generis, particolarissima come particolarissimi sono gli abitanti, ancorati ad abitudini comportamentali ancestrali, entrati di prepotenza nel panorama popolare per il condizionamento del mondo in cui sono vissuti e da cui sono stati plasmati, senza alcuna possibilità di sradicamento o di trasformazioni in positivo.
È l’immobilismo che collassa tutto il Mezzogiorno per quel senso di fatalità, di rassegnazione di fronte all’imponderabile; tutto ciò che vi è di inspiegabile a lume di ragione e che determina apatia, lasciarsi andare, meglio lasciarsi vivere senza prospettive di futuro.
È il caso del lazzaro sdraiato nella sua sporta e con la corta pipa in bocca, in totale decompressione, dopo che ha mangiato le cinque o sei grane che ha lucrate nel corso della giornata.
Muovendosi con un ambulantato improvvisato di giorno in giorno, variegato, si mette al servizio di un fruttaiolo, ora gabbando un cafone per estorcergli qualche monetuzza, ora ponendosi in testa, per pretenderne l’obolo pecunario, il bagaglio di un forestiero.
Di scena il lazzaro di sempre: accidioso, indolente, rassegnato, fatalista: senza slombarsi con fatiche pesanti vive di elemosina e di espedienti, senza differenziarsi dal lazzaro del Vicereame che, scimmiottando salamelecchi da hidalgo, rimedia qualche monetina da Quijote in gorgiera né da quelli del 1799: in pieno fermento rivoluzionario sulle spiagge di Santa Lucia, Chiaia, Mergellina nudi si arrossavano al sole beati, sonnolenti, al pari del lazzarone di Mastriani, sottomesso, inattivo e inoperoso nella propria sporta.
Tale fissità antropologica sposa la componente spagnoleggiante, travasata per ibridazione e vischiosità nel DNA del popolino, cui osmoticamente si abbina e si congiunge il fariseismo di sub uomini pregevoli, diavoli camuffati da angeli di bontà, dissacratori del divino che piegano alle loro esigenze, per ridurre in schiavitù psicologica e mentale gente in crisi, vuoi per un lutto improvviso, vuoi per una malattia diagnosticamente inguaribile, vuoi per un amore incompreso, renitente a recepire sospiri e patemi di chi ha la sventura di amare senza essere riamato.
Sì, perché i mistificatori della fede, in presunto odore di santità e, come tali, capaci di rendere prodigiosamente possibile anche l’impossibile, si arrogano addirittura la facoltà di accendere la fiaccola dell’amore in chi è troppo distratto e sentimentalmente assente.
Contropartita, tra un Pater noster e un’Avemmaria, l’esborso di danaro con la liturgia che Quit dat pauperibus non indigebit.
È inequivocabilmente chiaro che di santoni e santone stiamo parlando e che le elemosine da devolvere a indigenti e a diseredati scivolano dritto nelle loro tasche.
Oggi, a dimostrazione dell’attualità e modernità del romanzo mastrianeo, sottolineiamo che di tale risma di truffatori a-morali, a-cattolici ne contiamo a bizzeffe, costituitisi in associazioni o sette con un volume di affari redditizio e lucroso, a scapito di seguaci e donatori, perennemente tenuti sotto tiro, per esorcizzare possibili fughe o defezioni.
Nota nel 1738 Isabella Mellone, la santona di Largo delle Pigne, famosa ipocrita femmina, le cui arti furbesche son riuscite ad ingannare sulla sua pretesa santità quasi tutta la popolazione napoletana.
Manipolatrice raffinata, la Mellone raggira non solo analfabeti come Rosella, la spigaiola del Pendino, ma anche individui colti, cui apre la porta della propria casa con la velleità di ostentare una piccola corte di proseliti e di iniziati, discepoli e figliocci, che si rivolgono a lei con l’appellativo di «madre».
Dal colloquio tra la santona e la giovane, alle prime battute pugnace e tensivo, si rimane sconcertati dalla falsità e dalla ipocrisia della sedicente eletta del Signore.
Ambigua, perspicace e astuta, Isabella Mellone, quando apprende che la spigaiola dalla regina Maria Amelia Walburgo è stata dotata di un maritaggio di mille ducati, dispiega le sue qualità camaleontiche e luciferine: con un proteismo da avanspettacolo, pattuisce, con un atteggiamento repentinamente e sorprendentemente duttile e docile, la ricompensa di quattrocento ducati, a suffragio dell’innamoramento garantito e del successivo matrimonio con lo scarpariello, irretito da Ciretta, la bella pettinatrice che, all’opposto di Rosella, possiede arti seduttive degne di una Lesbia o di una Messalina per accalappiare Menicuccio, fresco sposo disinnamorato, convolato a nozze con il progetto di aprire, coi soldi del maritaggio, una bottega da calzolaio.
Ancora e sempre e dovunque il motore del mondo e degli uomini è, senza tema di smentite, la morale benthamiana dell’utile, contrassegnata da appagamento materiale: denaro e amore, per gli amanti del Pendino, vissuto e goduto come appagamento erotico e edonistico.
Al contrario quello di Rosella è l’amore che a nulla amato amar perdona. Pur non condividendo il dente per dente, in lei la carica di istintività primordiale e ferina sfocia nella passione accecante con contraltare l’odio.
Amore-odio-gelosia-vendetta: siamo nel bel mezzo del dramma shakespeariano con identità Otello-Rosella.
La gelosia dell’uno si relativizza con quella dell’altra, il che, a nostro avviso, avvalora la linea di continuità e aggregazione delle storie letterarie europee.
Rosella, al pari di Coletta, non tollera infedeltà al proprio letto; non si piega al voltafaccia del partner, cui ha consacrato, annullandosi in un sentimento totalizzante, ogni pensiero, ogni battito e ogni pulsione del suo cuore, ogni momento del suo esistere.
Per queste donne, offese nella loro dignità non esiste vendetta più acerba e spietata che quella di punire il fedifrago di propria mano, menomandolo in parti vitali del corpo o uccidendone i figli.
Un antropologo di scuola lombrosiana catalogherebbe le micidiali di Mastriani tra i primitivi infraumani, atti a compiere azioni una volta usuali, oggi ritenute delittuose.
All’esame delle alterazioni fisiologiche, patologiche, ereditarie e non, lo studioso ricollegherebbe, a malattie dell’asse cerebrospinale, a lesioni del capo, a tare dell’ intelligenza e della sfera affettiva, alla miseria, all’assenza di freni inibitori la disumanità di Clementina, ex attrice dai costumi scollati, che commissiona, per brama di danaro, la morte dell’anziano amante.
Il proponimento va a buon fine. Il ferito, in stato comatoso, è l’occasione agognata dalla megera per impadronirsi di preziosi e denaro in contante, custodito in un armadio a bombolo, la cui chiave estrae dalla tasca del morituro. Una spoliazione convulsa, disturbata da sprazzi di lucidità del moribondo.
Allora, la sciagurata, senza una briciola di umanità per l’agonizzante, con furore leonino tolse una coppia di forcine dal capo e… la ficcò con tutta forza nella ferita dalla quale avea scostato la fasciatura. Il misero gettò un grido straziante, si agitò in tutta la sua persona, e poi… più niente.
- Sarà molto finalmente! – esclamò l’infame.
Lasciata la stanza con naturalezza, la micidiale continua, da energumena, a carpire quanto più può.
Clementina, Maria Francesca, Coletta, donne con innegabili turbe psichiche, condotte al delitto sotto l’impulso del cervello alterato nella sua chimica; donne che antropologi e criminologi analizzerebbero con un monitoraggio capillare, dettagliato e scientificamente particolareggiato.
In Mastriani niente di quanto è ramificata e vivisezionata indagine lombrosiana.
La sue creature, le sue donne di sana o rotta moralità, Carmela, Blandina, Beatrice, Rituccia, Ceniza, Clementina, Maria Francesca, Coletta germogliano dalle emozioni e dalle suggestioni che gli trasmette la pluralità dei soggetti nei quali si imbatte casualmente negli spostamenti da un capo all’altro della città, per recarsi al giornale o a impartire lezioni ai suoi allievi.
Sono individui che gli penetrano nell’io, gli si attaccano addosso come seconda pelle e gli cantano o contano, senza infingere, il quotidiano uguale a quello di oggi, dai quartieri, dai vicoli, dalle vie, dai borghi, arrestandosi essi stessi a prototipi e a protagonisti di quell’antropologia e di quella demopsicologia, di cui, ricordiamo, ha un’informazione empirica e antiaccademica.
Allora, le creature e gli adagi dei popolani della sanità e dei Vergini; il cicaleccio delle comari di Vico Lieto a Capodimonte; le voci roche e sonore degli ambulanti di Borgo Sant’Antonio Abate diventano l’anima stessa di Napoli, atavicamente amata e bestemmiata, esaltata e denigrata, fonte inesauribile delle sue storie che sono, come quelle di Omero, Pindaro, Sofocle, Euripide, storie di sempre e di tutti i tempi, perché raccontate da un contastorie che del popolo conosce i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi e non rappresentano qualcosa di staccato, di campato in aria.
ANNA GELTRUDE PESSINA