Ho trovato ancora qualcuno che si ricorda di Mastriani. questo nome dirà poco ai settentrionali, ma è noto e amico ai meridionali, specie a quelli nati nei paesi dove i libri di Mastriani arrivarono con Ponson du Terrail, de Kock, Montepin. Piccolo di statura, calvo, con baffi e barba alla Napoleone III, indossava un vecchio vestito nero e un gilè bianco. Siccome aveva la mania delle cravatte, la moglie diligente gliene ritagliava in ogni straccio e in ogni residuo di vestito e di stoffa. Egli si vantava di possederne sessanta. Portava in tasca una boccettina d’inchiostro, e dove che fosse scriveva. Era celebre nel popolino. Qualcuno lo indicava come “l’autore dei romanzi di Mastriani”. Scriveva anche aspettando i signorini cui dava lezione di lingua e di grammatica, oltre che di inglese e di francese, per arrotondare il magro bilancio familiare. Faceva anche brindisi in rima, cantava e suonava, dirigeva bene le quadriglie nei balli familiari. I suoi romanzi sono storie complicate di donne cadute nella colpa per bisogno, di donne che abbandonano il frutto della loro colpa e lo ritrovano dopo molti anni nell’abiezione, di figli spurii che ritrovano i fratelli legittimi, di ricchi e di stranieri che portano di colpo una povera fanciulla del popolo e una traviata al matrimonio, di personaggi che muoiono e risuscitano perché il pubblico reclamava al giornale nuove puntate del romanzo; e poi mezzani, ladri, assassini, venditori di carne umana, tutta l’organizzazione intorno alla colpa e al delitto. Fra gli altri, poiché nella sua fantasia si confondevano i suoi casi personali e quelli dell’umanità, uno dei suoi fantasmi è il padrone di casa, ossessione del popolino napoletano come del povero romanziere. Con una fantasia sbrigliata, in una lingua tra accademica e dialettale, sollecitato dal primo libro che gli capitava sotto occhio, vedeva al modo del comico Altavilla ragazze e carrozze dal fondo della sua miseria. Descriveva alla brava la vita del lusso. ma è questa una prova dell’animo suo, senza invidia e senza desideri malsani. Aveva dei meridionali la facile impressionabilità verso i problemi filosofici e sociali, il risalire dal particolare al generale, e il ridurre il generale a un particolare. Peccato che non fosse un artista e non riuscisse a cucire insieme i suoi personaggi, tanto che i suoi romanzi si possono considerare una lunga digressione sui problemi sociali, intramezzata da brevi descrizioni di caratteri e di passioni che non riescono a mettersi mai in movimento, con quella illusione di vita che è propria dei romanzieri. Nel gennaio del 1891, quando chinò il capo sui suoi fogli, usciva Il Paese di Cuccagna di Matilde Serao, e la Serao lo considerò un precursore. Uno di quegli umili precursori di cui riusciremmo appena a metter insieme cento pagine di antologia, ma che aveva intuito oscuramente il genio naturale dell’Italia meridionale, quello che formò poi la sua tradizione sociale: la Serao, Di Giacomo, Verga.
Trovò nella sua città la dimensione fantastica e il mistero che sono stati quasi sempre le qualità più attraenti di un romanziere. Non appare per nulla gratuito, nella sua opera numerosa e disordinata, che un intrico di personaggi e di avventure, di strade e di luoghi, di smarrimenti e ritrovamenti, accade tra Borgo Loreto, Sanità, Vicaria, Chiaia: davanti alle sue invenzioni non ci prende alcun dubbio che quanto egli racconta si possa svolgere a Napoli: di ciò gli diamo credito illimitato. Anche oggi basta il nome di Napoli, per evocare alla fantasia di chi vi è passato una volta, un mondo molteplice e avventuroso. E tanto che il giudizio corrente su Napoli è diverso da persona a persona, ognuno legge in questa città secondo il suo cuore e il suo sentimento, a meno che non accetti le comode e generiche definizioni che se ne son date da gente estranea e superficiale, la quale scambiò la filosofia del vivere con la spensieratezza, il realismo con la buffoneria, il carattere con la maschera.
Proprio da fatti come questi nasce in Italia la commedia borghese.
CORRADO ALVARO