Non è facile parlare di Francesco Mastriani, autore di una grandezza morale e letteraria indiscutibile. Non intendo inoltrarmi in un ambito critico (quello della letteratura comparata) che presuppone strumenti analitici ben più articolati e professionali dei miei.
Non riesco in alcun modo, però, quando penso alla parabola artistica e umana di Francesco Mastriani, a rimuovere la propensione a ricollegarne l’immagine a quella di un altro suo grande (e peraltro diversissimo) omologo: l’inglese Charles Dickens. Metto – come il Ciampa di pirandelliana memoria – le mani avanti e ripeto: non intendo affatto effettuare un’analisi comparatistica (data anche la contiguità di nascita; il 1812 per Dickens, il 1819 per Mastriani) avanzando la spericolata ipotesi critico-letteraria di un Mastriani come Dickens napoletano, o di un Dickens come Mastriani londinese.
Tuttavia non può risultare di palmare evidenza (coincidenze cronologiche a parte) come, ponendo attenzione alle vicissitudini soprattutto personali, si riscontri un percorso di vita singolarmente somigliante, fatto di drammatiche ristrettezze economiche, disagio e indigenza ecc. ecc.
Come si può non notare come, sia pure da un ambito stilistico, quello della letteratura popolare (“di cui il nostro autore si ripropone gli stilemi, ma non le pesantezze”) per sua natura caratterizzata da una immediatezza bozzettistica, il Mastriani formula e propone, talvolta anticipandoli, taluni temi che saranno poi tipici della cultura “alta” letteraria e sociale del secondo Ottocento napoletano e nazionale, e che avrebbero poi animato la vita politica e civile del secolo successivo.
Come non evidenziare, sia pure nei limiti di una visione conservatrice e tradizionalista, l’attenzione al “mondo degli umili”, di lì a non molti anni tipica del Verga, del Capuana e di tutta la scuola verista?
E condivido la raccomandazione di Benedetto Croce che fornisce un’immagine critica del Mastriani più completa ed esaustiva, aggiungendovi il sollecito a non lasciarsi condizionare da un possibile pregiudizio culturale, quando si rivolge la propria attenzione critica ad ambiti forse un po’troppo stereotipatamente classificati come minori.
Ciò che mi urge sottolineare è la mia esperienza profonda e coinvolgente, provata nell’avvicinarmi come non soltanto studiosa ma attrice a un siffatto personaggio di così grande statura umana e letteraria.
E non provo disagio o imbarazzo per la nudità emotiva, che come attrice ha condiviso e proposto il suo pensiero, interpretando le sue considerazioni sulle tre piaghe sociali: l’ozio, tratto da “I figli del lusso”, la miseria, tratta da “Le ombre”, l’ignoranza, tratta da “I lazzari”, e da “I misteri di Napoli” un’invettiva su camorristi e governanti (ahimè eterna nei secoli).
Tra i tantissimi romanzi ambientati “dinte ‘e quartieri ‘e Napule”, ho approcciato, interpretandone un monologo, tratto dalla edizione teatrale di Annamaria Russo del romanzo “La Medea di Porta Medina”, in cui, dall’affresco pittorico della Napoli borbonica, emerge il personaggio di Coletta Esposito, nella quale Mastriani penetra, quasi facendo una introspezione psicanalitica del personaggio, vittima non solo dell’ambiente e delle traversie subite, ma anche di turbe di personalità, che la conducono al definitivo annientamento di sé.
Che emozione leggerlo, come donna e come attrice! Il riferimento alla Medea di discendenza classica, a mio avviso è parallelo se non marginale all’approfondimento psicanalitico che ne dà l’autore quasi presagendo le teorie di Freud.
E nell’interpretare Coletta, malgrado non ne avessi l’età, ho aderito visceralmente, pur non condividendole, alle sue aberrazioni caratteriali e al tempo stesso fatali.
Come attrice ho anche pensato ai personaggi dei drammi di Luigi Pirandello, che se anche più borghesi o metafisici, erano “maschere nude” idealmente sdraiate, nella “stanza della tortura”, sul “lettino” di un immaginario e non reale psicoterapeuta.
Profondo ed empatico il mio percorso attoriale di studio per interpretare il pensiero di Mastriani, e sorpreso nell’avvicinarmi ad un altro breve testo, allegro e brillante, che sulle prime sembra avvicinarsi al teatro boulevardier di Gerorges Feydeau, “Un’ora di separazione”, e che invece ad una più attenta lettura, mi appare come un possibile, e non inconsapevole, anticipazione del tema dell’emancipazione femminile.
Avere avuto l’onore di essere portavoce del pensiero e dell’anima di un così grande napoletano (che mi auguro venga fatto conoscere agli studenti fin dall’adolescenza) è stato per me un viaggio sentimentale nella “mia Napoli”, “mia” anche se non di nascita ma di appartenenza per discendenza materna.
LOREDANA MARTINEZ