I lazzari è da considerare il primo lavoro di genere storico dell’autore, per cui la trama del romanzo è abbastanza limitata. Il periodo in cui si svolge la storia è quello del burrascoso 1848, quando sulle fatiscenti barricate, vennero infranti i sogni di libertà costituzionali del popolo napolitano.
Il romanzo venne pubblicato la prima volta nel 1865, ovvero dopo l’Unità d’Italia, per cui scritto con liberi sensi, cioè senza le limitazioni della censura borbonica, per cui l’autore è stato molto preciso nel descrivere gli avvenimenti, non solo di quel periodo storico.
Tra i protagonisti principali del romanzo, ci sono i lazzari, cioè quei popolani, sia di parte borbonica, che di quella repubblicana, che si batterono in quei giorni. Nella dedica al romanzo, che l’autore rivolge al fratello Giuseppe, si rivela chiara la sua volontà nel «dipingere al vero l’indole, i gusti, le tendenze, i costumi, il naturale insomma dei nostri popolani». [1] E la risposta del fratello è concorde con quella dello scrittore, «anche se non ne vede ancora del tutto compiuta la trasformazione, da lazzaro ad industrioso operaio». [2]
Senz’altro personaggi come Giacomo Palombo detto Occhio di Bufalo, e suo nipote Biasiello sono frutto della fervida immaginazione di Francesco Mastriani, che con la loro presenza ha voluto, diciamo così, romanzare degli avvenimenti storici.
Siccome il protagonista della storia è un popolano che fu protagonista anche del breve periodo della gloriosa Repubblica Partenopea, diversi capitoli vengono dedicati a quel funesto periodo della città di Napoli (dall’XI al XIV ). E in questi capitoli ci troviamo dei personaggi storici realmente esistiti, come il prete Antonio Toscano, che novello Pietro Micca, diede fuoco alle polveri per far saltare in aria vincitori e vinti. [3] Lady Hamilton e l’ammiraglio Horatio Nelson, da considerare come veri colpevoli della morte dell’ammiraglio Francesco Caracciolo; la regina di Napoli Maria Carolina [4]; il generale Guglielmo Pepe, che salvò la propria vita grazie all’intervento di Giacomo Palombo [5]. Vengono anche menzionati due dei tanti martiri di quel funesto periodo come, Domenico Cirillo e Mario Pagano, che per loro « La repubblica partenopea non fu che una meteora brillantissima, la quale apparve per un istante sul nostro fosco orizzonte». [6]
Ma la maggiore attenzione è rivolto alle barricate che vennero rizzate nella città il 15 maggio 1848. E i capitolo XXIV e XXV sono dedicati a tale subbietto. È chiaro il pensiero dello scrittore che a tale riguardo cita il filosofo Pascal, che considerava gli uomini dei grandi fanciulli. E per Mastriani, «le barricate sono qualche cosa che somiglia agli sforzi di un fanciullo che, per non farsi cogliere e castigare dal babbo o dal precettore, ponga un castello di sedie dietro l’uscio della sua stanza: […] Che cosa possano mai contro il cannone, la bomba e la mitraglia codeste meschine torri di Babele che si domandano barricate […] La guerra alla tirannide non si fa colle barricate, ma bensì colla universale istruzione». [7]
In una nota a pie’ di pagina, l’autore ricorda ai lettori della barricata al Largo della Carità, ne diede dei particolari nel 2° volume dei suoi Misteri di Napoli.
Come in quasi tutti i lavori dello scrittore, anche in questo la conclusione è a lieto fine. Si conclude nel 7 settembre del 1860 quando «il più grande e intemerato tra gl’italiani viventi, Giuseppe Garibaldi, venne a rallegrare di sua presenza queste felice contrade». [8]
Ricorda anche che dopo il Plebiscito del 21 ottobre di quell’anno, il Governo italiano voleva offrire un posto di lavoro considerevole a due protagonisti del romanzo; Biasiello e Peppino. Ma i due giovani, che erano riusciti a procurarsi, nel tempo del loro esilio a Genova una discreta sussistenza per loro e le loro famiglie, rifiutarono l’obolo dello Stato perché convinti che «I veri martiri della libertà non vanno in cerca di guiderdoni e di impieghi». [9]
ROSARIO MASTRIANI
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[1] Francesco Mastriani. I lazzari, Napoli, De Angelis, 1873, dedica «Al mio amatissimo fratello Giuseppe».
[2] Ibidem, dedica «Mio dilettissimo fratello».
[3] Ibidem, pag. 120.
[4] Ibidem, cap. XIV.
[5] Ibidem, pag. 155.
[6] Ibidem, pag.164.
[7] Ibidem, pag. 334.
[8] Ibidem, pag.486.
[9] Ibidem, pag.487
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Si tratta di un’opera importante, anzi fondamentale per il pensiero storico-politico di Francesco Mastriani. per cominciare, la data di prima pubblicazione del romanzo è particolarmente significativa. Siamo nel 1865, l’anno successivo a quello della completa pubblicazione dei Vermi, romanzo saggio-sociologico e storico. Questi Lazzari, già chiaramente definiti “romanzo storico” nel frontespizio, costituiscono il primo lavoro del “genere” per Mastriani, ovvero il primo romanzo nel quale l’autore si pone il problema di aderire a una forma narrativa ancora in gran voga. Nei Vermi la storia serviva da contesto delle tre piaghe sociali che l’autore si proponeva di descrivere puntando l’obiettivo sulla contemporaneità, ovvero sull’Unità d’Italia cui si giungeva con i fatti del 1860 (il romanzo si chiudeva, si ricorderà, con l’ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre). Qui invece la storia contemporanea costituisce il materiale primario, mentre la parte fictional, cioè la parte inventata, è materiale secondario, anzi cornice del romanzo.
Siamo dunque nel ’65. L’Unità d’Italia ha quattro anni. Sulla carta il Regno d’Italia è cosa fatta, risultato di una serie di azioni di guerra, plebisciti e votazioni che aveva infiammato i giovani ed era stato ritenuto volontà popolare. L’unità era ormai decisa e fuori discussione, ma tutt’altro che unanimemente gradita a Napoli, o meglio in tutta quella parte del Regno d’Italia che era stata fino a poco tempo prima il Regno delle Due Sicilie, dove essa suscitava ancora stizza, mugugni e risentimenti, se non ripensamenti addirittura. Ciò non solo da parte di chi l’unità l’aveva apertamente osteggiata, cioè da parte degli ecclesiastici e degli irriducibili “borboniani”, ma anche da parte di chi, dopo tanto esitare, deluso dai Borboni e mosso dall’entusiasmo incrollabile dei giovani che l’Italia l’avevano voluta proprio tutta intera, prima ancora che dal contagioso spirito garibaldino, aveva alla fine deciso di unirsi alle forze nuove del liberalismo e della Nuova Italia. Fra questi è il nostro Mastriani, un monarchico moderato per indole e un progressista democratico per cultura. Quando egli si rende pienamente conto del fatto che la fine imminente dei Borboni non è non sarà tanto una questione militare, ma il risultato di una loro mancata intelligenza dei tempi e conseguente mancata volontà di adeguarsi ad essi, rompe gli indugi con se stesso, ovvero con la sua anima moderata, e passa dall’altra parte. Come abbiamo visto a proposito dei Vermi, dev’essere stato dopo i fatti del giugno 1860 (25 giugno, Atto Sovrano: concessione della Costituzione del ’48, amnistia e libertà di stampa; 28 giugno, assalto a 12 postazioni di polizia) che Mastriani maturò la decisione di abbandonare i Borboni al proprio destino e volgere altrove le proprie speranze. Per un pacifista, moderato (nel senso comune e non politico del tempo) e amante dell’ordine come Mastriani, che fra l’altro aveva già passato i quarant’anni, la decisione di entrare nella Guardia Nazionale non fu certamente una decisione facile. Fu sofferta, ma necessaria. Nelle straordinarie circostanze storiche del momento egli sentì il dovere civico di partecipare attivamente all’azione politica, ben conscio degli enormi rischi che tale scelta comportava. Ne fa fede Filippo Mastriani riportando la lettera che il padre «al quattro settembre dell’anno 1860 […] nello allontanarsi dalla sua cara famiglia sotto l’uniforme della guardia nazionale, lasciò la sua amata consorte»[1].
Non abbiamo la data esatta di quando egli si iscrisse nelle file della Guardia Nazionale nel corso dell’anno 1860, ma possiamo attendibilmente ipotizzarla fra agosto e settembre [2]. Sappiamo però per certo che pochi mesi prima, ancora nel ’59, aveva celebrato le glorie borboniche per il matrimonio di Francesco II con Maria Sofia di Baviera, e che a gennaio del fatidico 1860 aveva dedicato il suo ultimo romanzo, Acaja, all’Aliossa, capo della polizia borbonica (ovvero successore dei vari Speciale, Del Carretto, Peccheneda e Mazza, tutti di infausta memoria) e suo diretto superiore nella redazione del Giornale Ufficiale delle Due Sicilie. Mastriani si mosse dunque con i tempi quando nella sua mente i Borboni erano già caduti, perché “cosa fatta capo ha”.
Cosa fatta capo ha e non si torna indietro. Mastriani – la cosa mi pare notevole – nei suoi romanzi “storici” non parla mai di Civitella del Tronto e neanche se la prende con “l’eroe” di Gaeta, cioè “l’infame” Cialdini che faceva rivoltare lo stomaco ad Antonio Bresciani. Ma pure: fatta, sulla carta, l’Italia, Napoli non gode, soffre. Lo scrittore interpreta questa sofferenza e ripercorre le tappe della epocale sconfitta borbonica: una sconfitta con la storia, con il progresso e la civiltà, che comincia nel 1799 e finisce, veramente, con la lunga reazione ai tumulti del ’48 che rende di fatto il regno di Francesco II (1859-1860), con la sua nuova Costituzione – terza concessione dopo le due bloccate dal padre Ferdinando II nel ’48 e dal bisnonno Ferdinando I nel ’20 – un’appendice devitalizzata. Nel Lazzari Mastriani mette in evidenza la centralità dell’ambiguo atteggiamento di Ferdinando II dopo la giornata delle barricate, ovvero il 15 maggio del ’48. Lo scrittore ricorda che c’era un Parlamento nuovo di zecca con uomini di valore che avevano dimostrato rispetto dell’ ordine costituito e fermezza nel condannare le violenze.
La strada da percorrere era quella della monarchia costituzionale, ma Ferdinando II, pur essendo un buon amministratore, aveva qualcosa in sé che gli impediva di scegliere la strada giusta. Le osservazioni di Mastriani sono a questo proposito ricche di illuminante psicologia: forse a bloccare Ferdinando fu un rigurgito di orgoglio; certamente fu un oscuramento del suo buon giudizio, il risultato del riaffiorare di una sua vena di violenza repressa: il Re Bomba di Messina vede i rivoltosi sugli spalti di Castel Nuovo e torna a gridare ai suoi artiglieri con le micce accese dietro i cannoni puntati: “Buttateli giù, buttateli giù!”. L’episodio entra nella “storia” del romanzo nell’ambito di una riflessione sull’incapacità del re di bloccare i cattivi pensieri assolutistici e i cattivi consigli dei più reazionari fra i suoi ministri/direttori, lasciando che la polizia incrudelisse nella più capillare e feroce repressione anche contro chi non rappresentava neanche lontanamente una minaccia per la monarchia borbonica.
Ma passiamo finalmente alla trama, che è piuttosto complessa per un’opera che nasce “storica” (come da frontespizio: I lazzari. Romanzo storico) e che quindi ci aspettiamo più orientata verso la forma dell’anatomy che quella del novel, ovvero del “romanzo vero e proprio”, nel quale ricordiamo, prevalgono l’intreccio e la caratterizzazione psicologica dei personaggi, e cioè, appunto, prevale la complessità della trama. Questa è inizialmente informata da una storia d’amore, quella di Biasiello e Carmela che incontriamo a Napoli «una sera umida e fredda del mese di dicembre 1847» (è l’incipit del romanzo) [3] in una casetta del vicoletto di Sant’Andrea del quartiere Mercato. Biasiello è un lazzaro, orfano di entrambi i genitori che vive alla giornata come tutti i lazzari, insieme al nonno ottuagenario in un piccolo alloggio («un’unica stanzetta con una finestruola») [4] nel vico Calcari alla Marinella, e cioè anche lui nel quartiere Mercato. Carmela è figlia di un “birro”, anzi di un “capo birro” della polizia del tristemente famoso “direttore” don Gaetano Peccheneda [5]. Il loro amore non sembra conoscere ostacoli, ma attorno ad esso, se così si può dire, avvengono fatti che lo rendono difficile, tormentato e addirittura impossibile prima che torni ad essere un amore felice. Per cominciare, ci sono i pedinamenti di Agnesina, la bella figlia di Lupomannaro (ovvero del ladro camorrista che all’anagrafe corrisponde al nome di Rosario Cavaiuolo), che è irrimediabilmente impazzita d’amore per Biasiello, il quale non si sente però attratta da lei. Se le attenzioni eccessive di Agnesina intorbidiscono alquanto la storia d’amore di Biasiello, e Carmela, esse restano comunque del tutto innocue. Innocue invece non sono le attenzioni sbirresche che don Pietro Moratti rivolge al giovane fidanzato della figlia. Lo fa arrestare e, dopo averlo lasciato in prigione per una notte, lo fa liberare, adducendo che l’arresto altro non è stato se non un depistaggio strategico per fini polizieschi. Gli promette la mano di Carmela e un generosissimo regalo in contanti che gli aprirà la via della felicità coniugale. In compenso don Pietro si aspetta un piccolo favore da Biasiello. Vuole qualche informazione su Giacomo Palombo, detto Occhio di Bufalo, leggendario carbonaro della Repubblica Partenopea del’99 di cui pare si sia riaccesa la memoria. Biasiello potrà avere le informazioni che aiuteranno don Pietro a far carriera nella polizia del Peccheneda interrogando il nonno Bernardo Capacci, uomo di ampie vedute e conoscenze, di grande esperienza e autorità fra i lazzari e i camorristi del quartiere. A Biasiello sembra di toccare il cielo con un dito, la sua felicità è ormai a portata di mano perché il nonno, che lo ama di sviscerato affetto, gli dirà tutto quello che la polizia richiede.
La conversazione di Biasiello con il nonno corrisponde a un rito di iniziazione per il lazzaro. All’inizio della conversazione è un ragazzo superficiale e ignorante; alla fine è un uomo, un patriota informato e convinto. Il nonno rivela di essere lui stesso il ricercato carbonaro del ’99 e dà una lezione di storia al nipote che occupa buona parte del romanzo e che non è il caso di riassumere qui. Ma va chiarito e detto che nel romanzo la voce narrante presenta gli eventi del ’48 e degli anni seguenti, mentre è solo attraverso il racconto del Capacci/Palombo/Occhio di Bufalo che si ricordano le reazioni borboniche del ’99 con i suoi afforcamenti e del ’20 con le sue frustate (e non più di tanto, grazie alla morte della sanguinaria Carolina nel 1814).
La rivelazione del nonno coincide con l’inizio dell’attività rivoluzionaria del maggio del 1848. Un ostacolo di natura formale sulla composizione del Parlamento, o meglio di una parte di esso (La Camera dei Pari) porta alle barricate del 15 maggio. L’evento storico è descritto e analizzato dal romanziere con grande dovizia di dettagli. E alla descrizione degli eventi storici è intrecciata la fiction di Biasiello, salvato da Agnesina Cavaiuolo con il sacrificio della propria vita. Fra loro c’è anche un bacio, il primo e l’ultimo prima che la ragazza esali l’ultimo respiro. Biasiello ferito che bacia Agnesina morente è forse finalmente intenerito dalla sua devozione, anche perché ora è un uomo libero da altri sentimenti amorosi. Si è staccato, infatti, da Carmela quando ha saputo, proprio da lei, che si era resa indegna di lui per aver ceduto alle lusinghe di un cavaliere che l’aveva sedotta e abbandonata.
Morta Agnesina, Biasiello, che pure è ferito gravemente, perde conoscenza ed è amorevolmente assistito dal vecchio nonno e da una sedicente suora della Carità chiamata suor Giorgetta. Lei, appena Biasiello comincia a rimettersi ma prima che abbia ripreso conoscenza, si eclissa. Da vari segni notati dal nonno e sogni fatti da Biasiello, i due capiscono che suor Giorgetta non era se non la bella e pentita Carmela Marotti. Era lei, infatti. Ritrovata dal nonno, è perdonata e sposata dal nipote. “Ma l’occhio e la mano di Peccheneda” li raggiunge. I due sono arrestati, condannati, incarcerati. Il nonno muore in prigione; Biasiello è rimesso in libertà, ma solo per essere esiliato a Genova dove con il lavoro raggiunge una certa agiatezza. Rientrerà con Carmela a Napoli poco prima del fatidico ingresso in città di Giuseppe Garibaldi il 7 settembre 1860.
FRANCESCO GUARDIANI
[1] Filippo Mastriani, Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastriani, Napoli, L. Gargiulo, 1891, cap. V, p. 81
[2] «Il corpo [della Guardia Nazionale] rinasce all’indomani della svolta del 25 giugno, per iniziativa del governo costituzionale, e diventa rapidamente il braccio armato dei gruppi antiborbonici» (Macry, Il mondo alla rovescia, p.87).
[3] Francesco Mastriani, I lazzari. Romanzo storico, Napoli, G. De Angelis, 1873, p.3.
[4] Ivi, p. 15.
[5] A Napoli lo sbirro è “birro” come la spremuta è “premuta”. Sicuramente simile alla “storia” dei Lazzari è quella di un romanzo, successivo, La figlia del birro, ovvero La polizia napoletana sotto Francesco I, del 1887 – in Roma, 11 maggio -16 luglio – che mai vide la luce di stampa in volume.