UN INCONTRO

  Ornatissimo signor lettore, siete stato a Parigi? Poco m’importa il saperlo, come del pari suppongo nulla vi calga il sapere che io vi sia stato; ciò nonostante, sendo io per natura un tantin ciarliero e vanaglorioso, voglio, col vostro beneplacito o senza, raccontarvi così come potrò meglio, perché non so scrivere, qualche cosetta che ho veduto in quella magnifica città, e la prima avventura che mi occorse ponendovi piede.

   Già sapete ch’io sono un giovinotto scapolo, dedito a strozzar pani e a legger romanzi; mi chiamo Orazio, vivo da me solo in Napoli, ma ho molti amici che vengono a partecipare delle mie colazioni, facendo brindesi alla mia salute, ed abbracciandomi ad ogni buassaggine che mi scappa. Il denaro è il sangue del corpo sociale; un uomo senza quattrini è un membro incadaverito. Beato me che son ricco, senza di me che ne sarebbe la povera società? ma la natura compensa tutto; vicino alla cangrena ha posto la morte, che pone termine a’dolori; vicino alla rosa ha posto la spina; e vicino a’ricchi ha posto gli amici, cioè la crapula, il furto, la menzogna, e la beffa; e questi gentilissimi signori in poco tempo avrebber ridotto a secco i miei fondi, s’io non mi fossi affrettato di scrivere a mia zia a Parigi che mi preparasse un paio di stanze nel suo appartamento, volendo ivi trasferirmi per qualche tempo.

   Salgo sul ponte della Cristina; saluto gli amici che piangono di vero dolore per la mia partenza; saluto la lanterna del Molo, e via da Napoli – Tocchiamo Civitavecchia, Livorno, Genova, e sbarchiamo a Marsiglia. Chiuso tra un inglese e un olandese in una diligenza, sento nominare Aix, Avignon, La Rochelle, Lion, Nevers, Tours, Orlèans, Versailles, e cento altri barbari nomi che io non giungo a pronunziare; il capo non mi regge; non capisco il francese, perché noi altri che spendiamo non intendiamo le lingue; dormo un poco in aria e un poco in terra; mangio con certi visi che mi farebbero ridere, se il sonno me ne lasciasse l’agio; finalmente eccoci a PARIGI!!!

   È sera quando mi alzo da un sonno di ott’ore, prima influenza che ha avuto sulle laminette del mio cerebro l’aria parigina. Avendo formato di andar l’indomani a trovar mia zia, che abita nella strada Charlot, mi vesto con ricercatezza, ed esco per ispendere qualche ora ammirando la galleria del mondo sociale, il salone della civiltà europea, Parigi – Per osservar comodamente le strade ed i palagi, voglio prender ad ore un fiacre; esco sulla grande strada, guardo in ogni verso, non passa un’anima; tutto è scuro come di notte in una campagna; avrò forse sbagliata l’ora; sarà forse molto tardi; osservo il mio orologio; sono le due ore di notte all’italiana. Non rinvengo dalla sorpresa – Nella mente mi avea creato di Parigi un’idea così luminosa, così bella! Vedea nell’immaginazione trasparenti cristalli, fanali a gas, lucidissime strade, sontuose botteghe, popolo immenso; carrozze a diluvio; credea che a Parigi fino a giorno si facesse un baccano per le strade, si muovessero fanti e cavalli; si vedessero le più bianche fanciulle, le più eleganti signore!… Amaro disinganno!! – Oh come in quel momento sospirai la brillante Toledo, cui nelle sere di està cinge di bianca veste una luna veramente civetta!

   Camminava da un’ora tristo e pensieroso su i baluardi di Mont Martre e Poissonnière senz’aver potuto imbattermi in qualche misera vettura vuota. Non aveva incontrato che pochi personaggi gravi col soprabito abbottonato fino al mento; sette od otto guardie municipali, che mi avean guardato sotto il muso con la massima sfacciataggine, e qualche elegante bellimbusto che correva, perché a Parigi si vive a galoppo. Mi risolveva a tornar su i miei passi, quando ad un tratto mi passa dinanzi una signora nobilmente vestita. Dovete sapere, signor lettore, che io sono amante del bel sesso; confesso la mia debolezza; d’altra parte una graziosa pelliccia che disegna esattamente, l’ombra d’un busto donnesco, un vago cappellino che lascia indovinare il tesoro che chiude, e tante altre cose rilevanti che nelle tenebre tradiscono una bella donna, attirano l’ammirazione di chiunque ha un cuore maschile sotto il giustacuore. E poi considerato che mi aveano dipinte le parigine come cose sovrumane – Mi posi però a tener dietro i passi di quella signora, non per altr’oggetto che per saperne l’abitazione.

   Parmi avervi detto più su ch’io sono lettore di romanzi; ne ho divorati quanti finora venuti in luce in Italia; epperò vi giuro che ho il capo un pocolino esaltato, tanto più che in articolo amore son tuttavia tironcello. Mi ricordo che una volta invaghitomi d’una crestaia perdetti l’appetito, mi feci secco, camminava a sghembo, parlava a controsenso e sospirava sempre; forse perché sono un ottimo giovine modesto, semplice benché ricco, non so guardare una donna senza tremar tutto – Mi accosto dunque più all’incognita signora, la quale par che niun pensiero si dia della mia ostinatezza a seguirla; il cuore mi palpita orribilmente – Camminiamo da mezz’ora incirca; sento che la stanchezza mi vince; ma la signora mi ha guardato parecchie volte, mi ha sorriso; almeno ho creduto vederlo, perché ogni volta ch’ella mi guarda, i miei occhi si annuvolano di piacere, e nulla più vedo – Finalmente arriviamo ad un bel palazzo; il portinaio si sberretta, e lascia entrare la signora, la quale (oh ineffabile gioia!) voltasi a me, con voce più melodiosa d’un coro di Bellini, mi dice: Favorisca signor Orazio – Al sentir pronunziare il mio nome, esito ad entrare, perché credo la non si sia rivolta a me; ma non vedo altri cui quell’invito possa rivolgersi; mi do animo, e salgo tutto tremante di piacere, non osando profferir parola.

   Ci troviamo in una galleria magnificamente messa, ma schiarata appena da un globo d’alabastro posto nella camera contigua, dove l’incognita è andata probabilmente a deporre i suoi guanti, e il suo cappello – Io credo di sognare; fo tante congetture, tanti pensieri; mi persuado che la signora mi avrà scambiato per qualcuno di sua conoscenza; e mi vien l’idea di svignarmela quatto quatto, alla francese, come suolsi dire; ma eccola che torna, e mi prega di sedere su morbido canapè, ov’ella medesima siede accanto a me – Come intavolar la conversazione? Che cosa dire! Avrei voluto stare quattro canne sotterra, anziché trovarmi in questo misterioso tète-à-tète.

   «Io vi conosco, Signor Orazio, voi siete il più terribile adoratore in tutto il regno di Napoli».

   Uno scroscio di risa nella stanza contigua sconcertò la mia risposta; e mi sorprese moltissimo perché credeva che lì dentro non istesse alcuno.

   «Vi hanno ingannata, bellissima signora; io sono… voi siete…».

   Altro scorcio di risa; divengo in volto una vampa di fuoco.

   «Da quanto tempo siete a Parigi?».

   «Da questa mattina».

   «Quante conquiste avete fatte finora?».

   «Vi giuro, madama, che… io sono innocente… che…».

   Un altro terribile scroscio di risa mi fa perder pazienza; mi alzo insatanassato.

   «Madama, io non soffro di esser burlato; chi è lì dentro che osa rider di me?».

   «Giovanni il mio domestico».

   «Ed egli osa…».

   «Giovanni, un lume».

   In questo il servo, tenendosi i fianchi per le risa, entra con un lume; io getto lo sguardo furioso sulla signora, e riconosco… mia zia Luisa!!!

                                                                                              FRANCESCO MASTRIANI