FRANCESCO MASTRIANI. TOBIA IL GOBBETTO

   Le farneticazioni del baronetto Brighton sul post mortem e sulla destinazione del suo cadavere non sono dissonie o funambolismi di un cervello, a ricordare Mario Tobino, alterato nella sua chimica, se nel lontano 1843, dal Nuovo Cimitero di Poggioreale, vengono, nottetempo, trafugate le salme di due avvenenti donne, di cui il principe di San Mattia è rispettivamente padre e nonno.

   In Tobia gobbetto – del suddetto inedito pubblicato da Guida, intendiamo disquisire – il Mastriani, nello storicizzare l’accaduto, sbalorditivo e, congiuntamente macabro, attiene d’un precedente analogo episodio, che ebbe a protagonista la signorina Emilia F. de’duchi di Casalvecchio: rapita «dalla sala di deposito del cimitero di Poggioreale,[1] vi ritorna, prodigiosamente, dopo qualche giorno. I ladri di cadaveri vogliono si congetturi i morti emigrino dalle bare per regalarsi un periplo della città e, una volta paghi della momentanea materializzazione, recuperino, nel buio eterno, la vita delle ombre. Ma solo il minorato mentale, deprivato dei lumi della ragione, può cadere in una trappola cosi ingegnosa e sottile. Al contrario, l’acutezza e la scienza empirica del popolino alla favola dei morti vagabondi non dà credito: piuttosto illazione su espedienti escogitati dalla camorra per spillare soldi ai parenti dei cari estinti. Non a caso, le spoglie sottratte proditoriamente all’eterno riposo, appartengono a famiglie agiate.

   Mastriani, che enuclea le sue storie dall’osservazione della realtà, quale gli si configura negli spostamenti da casa al giornale e dal giornale alle abitazioni degli allievi privati, acquisisce una conoscenza sostanziale della psicologia comportamentale della sua gente costretta, talvolta, suo malgrado, a interagire e a convivere con malavitosi della peggiore risma. Già i soprannomi di battaglia: Cecatiello, Strangolatore, Sciasciariello, Lupo, Monnezza sono indicatori della brutalità die “guappi” dal coltello facile. Se non vengono assicurati alla giustizia, si uccidono tra di loro, sfidandosi, per uno “sgarro”qualsiasi alla “tirata” all’ultima goccia di sangue. Gli agguati, gli sbruffi, non sono frutto di fantasia, ma aggressioni documentate.

   Mastriani che, frequenta tra i Caffè Aciniello, il Caffè d’Europa e il Caffè Italia anche il  Caffè dei Tribunali, tra avvocati di spicco, apprende notizie di prima mano sui malavitosi caduti nelle retate della polizia processati per direttissima. Della mala don Francesco, attraverso le risultanze delle sentenze, introietta clandestinità, ricatti, misfatti, una serie di devianze che offrono un quadro dolente della città dalla duplice faccia, una tersa, smagliante, pulita; l’altra opaca e nascosta; una Napoli underground, sotterranea dove strisciano i Vermi della tipologia di don Flaminio e di Madama Antonetta, disamorata al punto da brigare per avviare la figlia Blandina alla prostituzione. Una   casbah di vinti e di vincitori: i vincitori imperano, comandano, gestiscono, spiccano condanne a morte: i vinti obbediscono, vuoi per acquiescenza, vuoi per convenienza: la spartizione del bottino riscuote alto indice di gradimento.

   Come perequare il velenifero sottofondo dei truffatori a Tobia, afflitto per la morte dell’adorata Fior d’arancio? Un amore il suo a una dimensione; un amore non corrisposto, ma lui si accontenta di briciole: un sorriso, uno sguardo, il suono della voce, mentre la giovane intona la canzone della Trovatella, messa in musica da lui. Abitudini di tutti i giorni: gli riempiono l’esistenza; un piccolo mondo, il suo, di tutto e di niente: frantuma accidentalmente e lui, senza il supporto della cantatrice, è perduto, smarrito nel caos e nell’indifferenza della città proteiforme. Vaga come una larva, senza meta e inavvertitamente si ritrova nei luoghi dell’anima: Frisia, Posillipo, Mergellina. Disorientato e stranito, inetto e decisionale, è  un  fuscello trasportato dalla irruenza del vento.

   Il destino, il fato agiscono per lui. Meglio, il demone del male, sotto le mentite spoglie di Zappatore, lo immerge, quasi tenendolo per mano. Nell’abisso del non ritorno. Tale la Società della Morte, di cui Zappatore è adepto. L’impatto è  traumatico: ceffi abietti, linguaggio criptico, nomi strampalati: Asparago, Testa di spiga, Carnefice. Non è da meno il suo appioppato all’istante Tammurriello, mutuato dal gobbo a forma di piccolo tamburo. Le regole della Società gli vengono illustrate con un gergo per lui incomprensibile: capta solo che ogni accertato traditore viene passato per le armi. Che fare? Come defilarsela ora «che con ferro arroventato» [2] gli è stato impresso sull’ avambraccio sinistro il marchio che rappresenta un teschio? Lui non può arruolarsi tra delinquenti e spregiudicati nè permettere che la salma di Fior d’arancio sottratta sia sottratta alla venerazione del principe di San Mattia. Perciò, quando Cesira e Maria Egiziaca, alias Fior d’arancio, vengono ricoverate nella grotta del deposito, lui in qualità di aggiunto terrasantiere, è lieto di vegliare quelle spoglie e di esternare alto sua diletta, con dichiarazione di amore “necrofilo”, la piena dei sentimenti, mai espressi.

   Traspare dall’appassionata rivelazione una sensibilità delicata, una confessione che sgorga dal cuore: «… io ti amai con disperata passione; e ti amo  come nessun uomo il seppe amare. Ora tu sei mia, solamente mia, tesoro, gioia, tenerezza di questo povero cuore!…  tu la più bella, la più cara, la più eletta delle figlie della Madonna, tu eri per me tutto 1’universo».[3]

    Tobia ascolta la voce del cuore e va, a parafrasare il titolo di un noto romanzo di Susanna Tamaro, dove lo porta il cuore, vale a dire dal principe di San Mattia, al quale garantisce la restituzione della figlia e della nipote, a patto che l’anziano patrizio faccia sospendere ogni ricerca sugli autori dell’atto criminale. Tutt’altro che placido e sereno il vissuto di Tobia, dopo la restituzione dei due cadaveri. Pare, addirittura, a seguire il corso evolutivo del suo quotidiano, che egli, malgrado la beneficenza del principe di San Mattia, sia nel mirino di forze oppositive, che vanificano ogni tentativo di riabilitazione morale sua e di Marietta che, esponendosi alla vendetta persecutoria della Società’ della Morte, affranca dall’assoggettamento ai padroni Dorotea e Euclerio: la hanno prelevata dall’Annunziata per sfruttarla e sottoporla ai lavori più umili e sfiancanti. Tobia la libera dalla schiavitù, la conduce in un asilo sicuro e intende sposarla con il consenso del principe di San Mattia, che offre alla sposa un maritaggio di trentamila lire e al gobbetto diecimila lire per le spese pre-matrimoniali. Con l’entrata in scena di Marietta, si apre uno spaccato ricorrente nel corpus del feuilleton: quello dell’infanzia abbandonata e dell’adolescenza violata, problema insoluto in Italia e in Europa: affratella Marietta a Cosetta de I Miserabili, a Concetta de Le Ombre, ad Agatina “la sgobbata” e a Caterina “l’idiota” dello stesso Mastriani.

   Le due sorelle, Agatina e Caterina, sono marchiate da anomalia fisica, in particolare “l’idiota”: appena nata, è scaraventata dal padre contro un muro, perché la moglie ha partorito una seconda femmina in luogo dell’agognato maschio. Questione, tuttora, calda, dolorosa; una piaga cancrenosa quella dei genitori anaffettivi, che uccidono le proprie creature. Il pensiero corre a Loris, Evan, Giuseppe, Checca, abusata e fatta precipitare da un terrazzo del Parco Verde di Caivano. Una cronaca triste che affonda le radici nel lontano dell’Italia e dell’Europa e che Mastriani sa cogliere siglando storie paritarie e parallele a quelle dei colleghi transalpini; storie di tutti i giorni, inclusive del filone attualità e modernità, rimasto in zona d’ombra, prima che la scrivente lo rilevasse con un monitoraggio intertestuale tra gli appendicisti del calibro di Sue, Hugo, Dickens, Burnett e lo stesso Mastriani: tutti, con la fame, il disagio, la promiscuità del terzo stato, hanno trattato siffatta tematica a testimonianza che la materia del feuilleton gravita intorno a un ieri che si è fatto oggi e, presumibilmente, si farà domani, come ho sottolineato in un mio recente saggio, [4] a norma di un nihil novi sub sole, sfrondato di valori etici a Napoli come a Parigi, a Londra, a Brasilia, a Buenos Aires. Trattasi di un passato che si internazionalizza e transita nel presente con le stesse aberrazioni di ieri.

   Nè intendo, con siffatta tesi, negare il naturale cambiamento e la naturale evoluzione e trasformazione di creature indigenti, affamate, maltrattate, per le quali, passare da uno stato sociale a un altro, può essere scioccante. Accade a Marietta. Il passaggio repentino e, in maniera disattesa, dalla schiavizzazione alla condizione di donna piccolo-borghese, le offusca la mente, le suscita l’appetito di avere sempre di più, specialmente in amore. Ora che è una signora che indossa vestiti, stivaletti, cappellini e gioielli, quasi si vergogna di mostrarsi in pubblico accanto a un ometto deforme. Non sarebbe errato, a mio avviso, accostarla a Emma Bovary: entrambe sognano uomini

affascinanti, belli, ricchi. Sono creature incontentabili: trascinano i mariti, delusi e ingannati, sull’orlo di un precipizio dal quale non sanno riemergere. A Marietta bastano pochi giorni, dopo il matrimonio, per cadere nelle braccia del cavalier di Luggèro, «occhi neri, profondi e torbidi» [5], fascino di bel tenebroso, alonato di mistero, in procinto di partire per la Sicilia, dove lo chiamano importanti impegni. Potrebbe essere per Marietta una indimenticabile parentesi d’amore se Tobia non ne fosse venuto a conoscenza. Allora esplode la tragedia, di cui il gobbetto si rivela un regista a sorpresa. Colti gli amanti in flagranza di reato, accecato da un ira funesta mena a compimento la sua vendetta, senza risparmiare sé stesso.

   Epilogo tragico. Rimane il dubbio sulla identità del cavalier di Luggèro. che non è nelle nostre intenzioni svelare per lasciare nel lettore quel grumo di curiosità, che lo stimolerà a leggere il romanzo, per dare a Mastriani la notorietà che gli è stata negata, non dalla malignità della fortuna, ma da equivoci e pregiudizi.

                                                                        ANNA GELTRUDE PESSINA

Pubblicato sulla rivista «Letteratura e Pensiero», Aprile-Giugno 2024

[1] Francesco Mastriani, Tobia il gobbetto, Napoli, Guida editori, 2024, cap. VI. pag. 49.

[2] Ibidem, cap.IV. pag.33.

[3] Ibidem, cap.VIII. pp.66-67.

[4] Anna Gertrude Pessina, Francesco Mastriani Un autore dentro e oltre la napoletanità, Manni editore, Lecce 2023.

[5] Francesco Mastriani, Tobia il gobbetto, Napoli, Guida editori, 2024, cap. XVIII. pag. 176.