COMMENTO

  Luigia Sanfelice è forse il più storico fra i romanzi storici non solo perché la vicenda della Madre della Patria, come è chiamata la protagonista, è intrecciata ai fatti della Repubblica Partenopea, ma anche perché in questo romanzo Mastriani conferma, consolida e definisce il suo ruolo di scrittore come figura pubblica con una chiara funzione sociale, una funzione eminentemente educativa.

   Il romanzo viene pubblicato per la prima volta nel 1870 con il titolo di Luigia Sanfelice: esso mette in risalto uno dei personaggi principali del racconto, quello appunto di Luigia Sanfelice, lasciando trasparire anche l’argomento, vale a dire la sfortunata e breve parentesi della Repubblica napoletana durante il 1799. Il titolo ricalca, inoltre, quello omonimo del romanziere francese Alexandre Dumas – La Sanfelice, pubblicato in Italia sulle appendici de ‹‹L‟Indipendente›› – con il quale, probabilmente, Mastriani aveva volutamente ricercato un confronto. Ed è lo stesso Mastriani a citare lo scrittore francese, mentre presenta la propria opera: «Invitato a presentare, sotto la forma del romanzo storico, i fatti del nostro paese sotto il nome di una delle più illustri vittime della borbonica restaurazione in Napoli dopo le rivolture del ‟99, Luigia Sanfelice, stimai

attenermi più alla dipintura degli attori principali di quel lugubre dramma; perocché già la Sanfelice era rinata sotto la fervida e immaginosa penna d’uno de’ più popolari romanzieri francesi, Alessandro Dumas padre. Nel trattare lo stesso subbietto, non mi allontanai dalla storia che in quel che poteva aggiungere maggior colorito al tristo quadro di quella crudele reazione, di cui forse svolgerò, Dio permettendo, qualche altro importante episodio».

   Tralasciando per il momento il rapporto che intercorre tra i due romanzi in questione scritti da Dumas e Mastriani, si rivela più opportuno individuare gli altri elementi che scaturiscono da questa premessa: innanzitutto, l’intenzione dell‟autore di voler restare quanto più fedele possibile alla storia, utilizzando qualche sfumatura fantastica soltanto per rendere più interessante la narrazione agli occhi del lettore, senza comunque alterare la realtà dei fatti. In secondo luogo, va messa in evidenza la volontà del Mastriani, che con questo romanzo si propone non soltanto di rappresentare le vicende della Madre della Patria, ma anche il calvario e il coraggio dei protagonisti principali della Rivoluzione napoletana del ‘99.

   Mastriani dovette riflettere parecchio su quest‟ultimo aspetto, se nel 1876 decise di pubblicare nuovamente il romanzo con il titolo Due feste al mercato. Memorie del 1799, confermando così il desiderio di esaltare non solo le sofferenze della Sanfelice, ma quelle di tutti gli eroi della Repubblica. Nello specifico, le due feste al mercato si riferiscono all’esecuzione capitale di Eleonora Pimentel Fonseca e a quella di Luigia Sanfelice, avvenute appunto in Piazza del Mercato, rispettivamente il 20 agosto del 1799 e l‟11 settembre del 1800.

   Con estrema naturalezza, lo scrittore napoletano descriverà la storia di un popolo inesperto e ancora impreparato per portare avanti una rivolta di quella portata, ma sicuramente coraggioso e determinato. Attraverso la descrizione dei patimenti degli esponenti principali della Rivoluzione, i cosiddetti martiri della Repubblica, Mastriani presenterà al lettore-spettatore la sublime tragedia della virtù civile calpestata dalla violenza e dalla barbarie.

   Il romanzo, dunque, più che la semplice biografia di un personaggio, sembrerebbe esprimere piuttosto il trionfo di un ideale, quello della libertà e dell‟indipendenza da un regime autoritario e soffocante, che con la sua tirannia aveva oppresso il suo popolo, ora giustamente in rivolta. E Mastriani, per rendere giustizia ai protagonisti di questa rivoluzione, li celebra e li acclama con dei ritratti assolutamente avvincenti e travolgenti.

   La storia, in ogni caso, resta la protagonista indiscussa della narrazione e, a testimonianza di ciò, stanno le numerose note inserite dallo scrittore per illustrare e rendere palesi le proprie fonti storiche. L’autore è molto meticoloso nella descrizione di ogni scena o personaggio, e parecchio attento persino nella scelta dei titoli posti in testa a ognuno dei capitoli. Questi ultimi si presentano come entità quasi del tutto indipendenti, mostrando quella dispositio a mosaico tipica di molti romanzi.

   Ancora una volta, sarà lo stesso Mastriani a chiarire al lettore la propria posizione, evidenziando nell’Avvertenza di Due feste al Mercato i tratti distintivi della sua opera, ovvero la storicità del racconto e la molteplicità dei personaggi: «Questo mio storico lavoro fu pubblicato in Napoli per la prima volta cinque anni or sono, con altro titolo che poco rispondeva al concetto dell’opera. Ebbi allora appena il tempo di correggerne le prime pruove di stampa. Poca pubblicità si ebbe il mio libro, avvegnaché importante ne fosse il subbietto. Oggi con titolo più adatto ripubblico il mio lavoro. Sotto la forma del romanzo storico, mi proposi dipingere gli attori principali del lugubre dramma del ‟99 in Napoli, del quale a lungo narrai ne’ Lazzari e nei Misteri di Napoli. Non mi allontanai dalla storia che in quel che poteva aggiungere maggior colorito al tristo quadro di quella crudele reazione.

   Il titolo scelto da Mastriani nel 1876, in realtà, sembra molto più appropriato rispetto a quello precedente, data la limitata presenza del personaggio di Luigia Sanfelice in tutta la prima parte del romanzo. Quest’ultimo, infatti, rispettando perfettamente i canoni del romanzo storico, presenta una trama lunga e complessa, che è stata poi suddivisa dall’autore stesso in tre parti distinte. Nella prima parte si gettano le fondamenta di quel massacro che vedrà coinvolti gli esponenti della Repubblica in seguito al fallimento dei loro propositi e delle loro idee liberali e dopo l’immediata ricostituzione del Regno borbonico; in particolare, viene presentata l’ambigua e torbida figura del cardinale Fabrizio Ruffo, disposto a salvare la vita di Eleonora Pimentel a condizione che quest’ultima gli si conceda prontamente. La donna sceglierà di salvare il proprio onore e di restare fedele ai propri ideali morendo sul patibolo, come una vera eroina della patria, il 20 agosto 1799. La seconda parte pone al centro del racconto la breve esperienza della Repubblica Partenopea, offrendo al lettore degli ammirevoli e brillanti ritratti dei principali eroi della patria; un ampio spazio è dedicato, inoltre, alla celebre e dibattuta congiura dei Backer che, rivelata involontariamente dalla stessa Sanfelice, le permetterà di ricevere l’illustre appellativo di Madre della Patria. Quello stesso epiteto e quel tradimento a danno dei Backer le saranno fatali qualche tempo dopo, quando neanche l’appoggio di alcuni medici liberali – che sosterranno la tesi di una gravidanza falsa – potrà salvarle la vita. Questo, in particolare, è il contenuto della terza e ultima parte del romanzo, che si conclude con la miserevole morte di Luigia Sanfelice l’11 settembre del 1800.

   Esaminando il romanzo nel dettaglio, già dall’ inizio è possibile scorgere i primi segnali dei disordini che di lì a poco si sarebbero verificati, scuotendo le anime del popolo partenopeo: i piccoli battelli, infatti, definiti spregiativamente ‹‹barcacce››, guidate dalle ‹‹ultime classi del popolo››, esprimono il senso dell’approssimarsi di un pericolo che si manifesta in maniera evidente nel personaggio descritto come «sacrilega e scellerata ironia del Verbo Divino››.

   Il pericolo, concretizzatosi nella figura di questo temibile personaggio, altri non è che il già citato cardinale Fabrizio Ruffo, a capo delle bande santafediste in marcia verso Napoli per restaurare il dominio borbonico.

   Dopo una lunga ma necessaria parentesi improntata sul ritratto di questo sinistro personaggio, la narrazione si sposta sulla presentazione di due donne, Eleonora Pimentel Fonseca e Luigia Sanfelice, protagoniste indiscusse del romanzo. Entrambe, presentate con eleganza e ricercatezza formale mentre leggono i versi del patriota Emmanuele De Deo, esaltate tanto nelle qualità fisiche quanto in quelle morali, verranno celebrate come delle vere e proprie eroine della Repubblica Partenopea, portatrici di idee rivoluzionarie e, infine, acclamate vittime della patria. Come già anticipato in precedenza, il cardinale Ruffo, colto da un’irrefrenabile passione nei confronti della Pimentel, le offre l’opportunità di salvarsi dalle accuse di tradimento nei confronti del Regno in cambio di una possibile relazione tra i due. Dopo il categorico rifiuto da parte della donna, Mastriani presenta al proprio pubblico pregi e difetti dei sovrani del Regno, re Ferdinando e la regina Maria Carolina, nonché il ritratto dei loro principali scagnozzi, pronti a riversare ogni

giorno panico e terrore per le strade di Napoli.

   La narrazione, a questo punto, si arricchisce notevolmente di fatti prettamente storici, corredati da una ricca documentazione e da una molteplicità di fonti, che lo scrittore cita puntualmente.

   Dopo un’attenta descrizione degli eventi e dopo il singolare racconto della fuga dei sovrani da Napoli alla volta di Palermo, ha inizio la seconda parte del romanzo, contrassegnata da un popolo allegro e festante per la nascita della Repubblica Partenopea e l’affermazione degli ideali di libertà e indipendenza.

   Un popolo che, in quel momento, stando al racconto dello stesso Mastriani, non conosceva neppure il significato della parola cittadino, ma comprendeva certamente l’importanza di essersi liberato dalla tirannia del proprio re:

– Colonnello Michele, che significa mò questa parola Cittadini?

– Bestione! Queste son cose che oramai le capiscono anche i bimbi lattanti. Cittadino… cittadino… affè mia che non so quel che ciò significa, ma per S. Gennaro, che dev’essere un nome buono, perché i capezzoni l’hanno preso per sé stessi, e il comandante in capo dell’esercito francese si fa chiamare cittadino generale. Capite, bestioni? Sotto quel birbante di Ferdinando, Dio guardi, i signori si facevano chiamare Eccellenze, ma oggi i signori non hanno l’eccellenza e noi non siamo lazzari. Ci chiamiamo tutti quanti cittadini. Capite? Questo nome ci fa tutti eguali. Capite?

   In questo contesto, lo scrittore si sofferma anche sulla descrizione dei principali protagonisti della Repubblica Partenopea, quali Domenico Cirillo o Mario Pagano, con un accento particolare rivolto sempre alla Pimentel, ora redattrice de ‹‹Il Monitore››, il periodico ufficiale della Repubblica. È qui, comunque, che la trama si infittisce e la figura di Luigia Sanfelice assume un ruolo sempre più determinante: la donna ha una relazione con il repubblicano Leonida Ferri, ed è a sua volta amata da uno dei fratelli Backer che, al contrario, auspica il ritorno del proprio re. Proprio per mettere Luigia al riparo dalle conseguenze di un’imminente congiura che avrebbe dovuto rovesciare la Repubblica e riportare sul trono i sovrani, il Backer le consegna un salvacondotto. Ora, secondo il Mastriani, questi lasciapassare altro non erano che dei cartelli che i

congiurati si erano divisi tra loro per mettere in salvo i propri cari coinvolti, per qualunque ragione, nelle manovre repubblicane; in particolare, si fa riferimento ad un pezzo di cartone che recava in rosso la scritta: «Viva il nostro amatissimo re e signore Ferdinando IV e la sua regal prosapia. Cartello di salvezza pel signor…….. Napoli 15 febbraio 1799».

    In realtà, spulciando altre fonti, si apprende che questi biglietti di sicurezza altro non erano che un pezzetto di carta con un suggello nero impresso sopra, tre punti neri sulla stessa, il di più bianco; secondo ‹‹Il Monitore›› n. 19, invece, i cartellini portavano impresse le armi di Ferdinando e il leone inglese.

   La Sanfelice, preoccupata per la sorte dell’amante, deciderà di consegnare a quest’ultimo il biglietto ricevuto con l’intento di salvargli la vita, ma l’uomo si recherà immediatamente dalle autorità per denunciare il fatto, sventando così la congiura e consegnando i Backer alla giustizia.

   L’uomo in questione è il citato Leonida Ferri, che in diverse fonti compare con il nome di Ferdinando Ferri – nella «Rivoluzione napoletana del 1799» di Benedetto Croce e nella «Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825» di Pietro Colletta – appartenente ad una famiglia di magistrati e ben presto convertito agli ideali repubblicani. Da queste stesse fonti, poi, si apprende che, secondo alcuni, l’amante della Sanfelice fosse in realtà Vincenzo Cuoco, autore del citato «Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli del ‘99». Secondo il Croce, comunque, la cosa più probabile è che, in quella circostanza, il Cuoco fosse stato un consigliere e una guida nelle relazioni che la povera donna dovette avere con la polizia e col governo repubblicano.

   La Sanfelice, infatti, non era soddisfatta di aver denunciato, seppur involontariamente, colui che aveva voluto salvarla da morte certa regalandole quel salvacondotto e, chiamata a deporre, si rifiutò di fare esplicitamente il nome del Backer. La donna, inoltre, ‹‹non credette al suo proprio udito quando, invece dello appello di morte cui si aspettava, si udì acclamare salvatrice della repubblica e Madre della patria».

   Quelle acclamazioni e quei meriti che le vennero attribuiti non riuscirono a risollevarla, e la sua angoscia crebbe ancora di più quando seppe della morte dei Backer. Quel gesto d’amore nei confronti del proprio amato, dunque, fu la sua stessa condanna, e neanche i versi che le vennero tributati riuscirono a confortarla.

   Luigia si configura, dunque, come vittima in primo luogo dell’amore, il che la rende particolarmente adatta al romanzo d’appendice e quindi ad un pubblico popolare, ancora interessato a storie di stampo sentimentale.

   In linea col romanzo d’appendice, tra l’altro, Mastriani fantastica sulla morte del giovane Ferri: nella realtà, infatti, dopo la caduta della Repubblica Partenopea, egli sarà soltanto incarcerato e poi costretto all’esilio o, secondo il Colletta, morto in guerra o fuggito in Francia. Nel romanzo, invece, il Ferri sarà la vittima prescelta per vendicare il Backer e la sua stessa testa sarà consegnata direttamente nelle mani della Sanfelice che, al posto dell’amato, all’appuntamento nel tempio dello Spirito Santo troverà un uomo che la accoglierà con queste parole: «Prendi, o madre della patria, e impara, spergiura, come si vendica l’ombra del tuo tradito amante Backer. Eccoti il tuo Leonida Ferri».

    Da questo momento, le sorti della Repubblica e di Luigia Sanfelice si intrecciano indissolubilmente e, alla caduta dell’una, segue l’inevitabile rovina dell’altra. L’esperienza repubblicana, infatti, durò soltanto pochi mesi, capitolando precisamente il 13 giugno 1799.

    Questa stessa data segna l’inizio della terza e ultima parte del romanzo, contrassegnata dapprima dalle stragi compiutesi ad opera del Ruffo e di altri seviziatori quali Fra Diavolo e Mammone. Per comprendere con quanta crudeltà e disumanità le truppe borboniche rientrarono in città, devastando villaggi e uccidendo chiunque si imbattesse sul loro cammino, è opportuno riportare le parole del Mastriani che, ancora una volta, descrivono con partecipazione e precisione quello scenario così violento: «Durarono gli eccidii, gl’incendii, le crudeltà di ogni maniera per varii giorni. Non si udiva per le strade di Napoli altre voci che le grida strazianti delle vittime e i gemiti de’ morienti. Sbizzarrivasi in mille modi la ferocia de’ borboniani, che non facevano eccezione né di sesso, né di età, né degli alti natali, né del femmineo pudore. Venivano i repubblicani snidati da’ loro nascondigli, e, denudati uomini e donne, ad accrescimento di vergogna, di ludibrio e di crudeltà, erano strascinati per le principali strade della città affinchè ognuno potesse scapricciarsi in insulti contro que’ miseri. Lor si lanciavano su le nude carni le più immonde cose e le più abbominevoli ingiurie; insino a tanto che l’una vittima cedesse il posto all’altra su i roghi ardenti che erano rizzati su le strade principali».

   Di quel massacro, Mastriani riesce a isolare e a rivendicare il coraggio e il valore dei repubblicani, che in quel contesto diedero un esempio di eroismo paragonabile a quello degli Spartani nella celebre battaglia delle Termopili. Lo scrittore, infatti, parla di un eroe, il prete Antonio Toscano, che prima di morire avrebbe appiccato il fuoco nei pressi di una polveriera facendo esplodere il Forte della Vigliena prima che i borbonici potessero conquistare anche quella fortezza e incitando, così, i propri compagni a non arrendersi.

    Il passo è di grande importanza, perché il confronto con gli antichi, attinto dal Mastriani dalla «Storia d’Italia» del Botta, conferisce all’impresa repubblicana un carattere epico volto ad alimentare il mito letterario del ‘99. Mastriani, attraverso le parole del Botta e il ricordo del popolo spartano, intende lasciare un modello di forza e di coraggio per le nuove generazioni, invitandole a lottare per i propri ideali e i propri diritti, così come fecero gli stessi repubblicani nel ‘99:

   «Si risolvevano i repubblicani a morire da uomini forti – scrive il Botta –Spartani volevano essere, e Spartani furono!… ma gli Spartani aveano uno Stato ed una Patria, essi non aveano più né l’uno né l’altra. Perciò perirono senza frutto, in ciò molto più da ammirarsi degli Spartani…Udissi tutto ad un tratto nella spaventata Napoli un rumore come di tuono; tremò la terra, pure il Vesuvio non buttava: veniva dal forte Vigliena. Lo aveva il cardinale assaltato con tutte le sue forze: vi si difendevano i calabresi non come uomini, ma come leoni… Un Antonio Toscano che gli comandava e che già stava con mal di morte per ferite e sangue sparso, strascinossi a stento e carpone al magazzino delle polveri, e con uno stoppaccio acceso postovi fuoco, mandò vincitori, vinti e rovinate mura all’aria: atto veramente mirabile e degno di eterna memoria nei secoli: tutti perirono. Questo fu la cagione del tuono e dello spavento di Napoli».

    Ed ecco, in questo modo, concretizzarsi il mito del martire della Repubblica. Tra questi, un ruolo importante è sicuramente riservato prima ad Eleonora Pimentel e dopo a Luigia Sanfelice. L’ultima parte del romanzo, infatti, è dedicata principalmente al loro arresto e alle successive esecuzioni capitali.

    In realtà, mentre la Pimentel salirà sul patibolo con onore e fierezza, diversa sarà la sorte della Sanfelice che, pur di salvare la propria vita, affermerà di aspettare un bambino. Secondo una legge del tempo, infatti, se una donna si fosse trovata in stato interessante al momento dell’esecuzione, la condanna di morte sarebbe stata sospesa. Bisognerà, a questo punto, precisare che la Sanfelice non era affatto incinta, ma in preda al panico la donna dovette optare per la perdita del proprio onore, tentando così di sottrarsi alla morte. Inizialmente vi riuscì, grazie all’appoggio dei medici che non riuscirono a smentire la falsa gravidanza, impietositi da quella povera donna. I sovrani, rifugiati ancora presso la corte di Palermo, erano furiosi per non essere riusciti a smascherare quella menzogna, e non poterono fare altro che rassegnarsi all’idea di dover aspettare qualche mese prima di veder giustiziata la Madre della patria, che aveva intenerito persino i medici di corte a Palermo. In realtà, si suppone che i medici siciliani avessero rivelato l’inganno della gravidanza e che i sovrani avessero immediatamente spedito a Napoli la Sanfelice per essere finalmente giustiziata.

   Nemmeno l’arciduchessa d’Austria Maria Clementina, infatti, riuscì a strappare la Sanfelice dalle grinfie della morte: la principessa, partorito il suo primo figlio maschio, secondo una consuetudine del Regno avrebbe potuto chiedere al re tre grazie, ma una sola fu la sua richiesta, ossia che venisse risparmiata la vita della Sanfelice. Quella supplica venne totalmente ignorata, anzi, non fece altro che alimentare l’odio di Ferdinando e Maria Carolina nei confronti della povera Sanfelice, condannata ormai al patibolo.

   Le ultime pagine del romanzo, dunque, si concentrano sul martirio di Luigia Sanfelice, che appare come una vera e propria vittima del dispotismo borbonico; con uno spettacolo raccapricciante e sconcertante, Mastriani presenta e denuncia ai propri lettori il trionfo della tirannide: «Un grido straziante fu udito… E poscia mille altri gridi d’orrore ed’imprecazione contro il boia mal pratico. Invece di svellere il capo della vittima, l’infame le avea divelta una spalla. Il popolo fremente lo avrebbe ucciso, se non fosse stato paralizzato dall’orrore. Altissime e indistinte voci colpirono il suo orecchio. L’assassino interpretò queste voci come impazienza di veder sacrificata la vittima… Trasse allora dalla cintura di pelle il suo coltellaccio da beccaio, e… Quel sangue sprizzò fino al trono di Dio, che maledisse ai tiranni della terra ed alla loro esecrata genia».

 L‟11 settembre del 1800, una Luigia Sanfelice stremata e impaurita saliva a stento le scalinate del patibolo per essere letteralmente dilaniata dal suo carnefice; così si chiude questa triste pagina di storia segnata dal sangue e dalla violenza.

                                                                                               ROSARIO MASTRIANI