Si precisa subito che a Napoli il termine “genio” acquista una connotazione antropologica, particolarmente legata alla città, di cui tutti parlano ma che pochi conoscono: “genio”, a differenza dell’alta concezione rinascimentale, è uno speciale stato d’animo, che si armonizza profondamente con la vita e, in quanto tale, è capace di provocare reazioni e situazioni positive, spesso inedite e impreviste. Per il napoletano la realtà è un valore relativo e, sebbene i colleghi critici si affannino ad affermare il realismo, alquanto inequivocabile, della nostra letteratura, essa, al contrario, risente ab imis della tendenza biologica dell’homo neapolitanus di andare prima ed oltre la realtà, rifugiandosi spesso nel sogno, la cui etimologia partenopea si confonde non a caso con sonno. In letteratura, forse la prova più evidente è fornita da Giuseppe Marotta, che, tranne rari casi, nei quali si comprende quello dello scrivente, ha rischiato, come spesso accade da noi, non solo di non essere capito ma di essere addirittura frainteso, banalizzato e riciclato in uno pseudo realismo di facciata, evidentemente creato per soddisfare le esigenze dei lettori sempre più avidi e ardenti, trascurando elementi meno evidenti ma più rilevanti, come un sotteso ermetismo.
A proposito del “genio”, mi piace ricordare mio nonno, il quale, avendo rifiutata la tessera fascista, si trovò senza il lavoro di capostazione che svolgeva in città e a mantenere una moglie e molti figli. Ebbene, non si perse d’animo e aprì un accorsato negozio di camiceria in via Duomo, che gli consentì di fare dei suoi figli dei professionisti, a volte affermati e autorevoli. Quando però non era “di genio” (di qui il riferimento al titolo di questa prefazione), invitava i suoi figli ad andare ad aprire il negozio, perché “quanno ‘o viento nun spira, ‘a varca nun va” (quando il vento non soffia, la barca non avanza), dove il vento, al quale ho dedicato una silloge poetica, si identifica pienamente con quel “genio”, di cui ho tentato di spiegare il senso e il valore per una civiltà, quella meridionale, ancora tutta da studiare e capire fino in fondo, soprattutto a livello socio-psicologico.
Francesco Mastriani era uno scrittore di “genio” e conferma pienamente l’idea che la vita ha valore solo se diventa arte, letteratura, capace di spiegare, per quanto può, ciò che succede, non accade, come dicono altri, intorno a noi, ma anche di andare oltre, grazie proprio a quel “genio”, che, se diventa arte, letteratura, è capace di compiere miracoli, che nessuna commissione per la santità (mi si perdoni la blasfemia) potrà del tutto spiegare.
Anna Geltrude Pessina, scrittrice multiforme e prolifica, napoletana verace, è tornata al suo e nostro Mastriani con questo massiccio volume, che segue un altro, di gran lunga più contenuto, prefato sempre dallo scrivente ed edito dall’editore, amico scomparso e rimpianto, Tullio Pironti. Davide e Golia quindi, ancora una volta, si confrontano, ma, nel caso specifico, si integrano grazie anche ai numerosi interventi critici della Pessina e di chi scrive nei vari convegni, organizzati dagli eroici eredi del narratore napoletano, i quali grazie alla munificenza e disponibilità di associazioni e personalità, colte e intelligenti, finchè hanno potuto e, spero, ancora potranno, hanno ridato luce e splendore al loro avo, battendosi fortemente perché Napoli, città in questo deficitaria, riconosca e valorizzi in ogni modo il “genio” di questo suo figlio, che non l’ha mai tradita e, come questo libro ampiamente e acutamente dimostra, a lei ha consacrato la sua vita e la sua letteratura.
Ma veniamo alla sostanza delle cose, cercando di individuare la specificità del “caso Mastriani”, evitando luoghi comuni ma anche accademiche ripercussioni critiche, che rischiano, più che di centrare, di rimuovere l’obiettivo, con risultati non del tutto confacenti né all’autore né alle sue opere, tra le più prolifiche che la nostra letteratura conosca.
La Pessina, con acume critico, si sofferma su un tema ricorrente, che le è particolarmente caro e che aveva già sinteticamente messo a fuoco nel precedente volumetto: quello del feuilleton, come elemento di congiunzione tra distanti contenuti letterari. Ora, Napoli è la città della cronaca, destinata forse a diventare storia, e Mastriani da buon napoletano, non poteva accontentarsi dei venticinque lettori lombardi del Manzoni. E questo perché? Perché egli, da buon napoletano, come il futuro Eduardo, conosceva perfettamente la psicologia dei suoi lettori, i quali, oltre la realtà, gli chiedevano lo stupore, la meraviglia. Di qui l’estremismo narrativo delle sue opere, che trasbordano nel noir, persino nell’horror, anticipando future sperimentazioni letterarie, ma collegandosi anche, si suppone involontariamente, a un apparente assurdo e a un certo grottesco, che aveva animato la letteratura precedente (si pensi per tutti al mio Masuccio Salernitano e al suo Novellino), ma che anche, comunque, faceva parte della storia (questa volta, quella vera) di una città estrema, dove non accade nulla ma in un attimo può succedere tutto, come basterebbe a dimostrare il Vulcano che le si prospetta davanti e le ricorda come la vita possa diventare minacciosamente tragica e incontrollabile.
Mastriani – e la Pessina, senza mai cadere in un folklorismo di maniera, lo dimostra – affonda le mani nelle macerie morali e nelle miserie materiali di una città, che purtroppo nella criminalità cerca di riparare i suoi mali endemici, di cui molto si è scritto; ma Mastriani lo fa da narratore, amoroso e insieme spietato, soffrendo ma anche denunziando ciò che in varie forme si svolgeva, e in parte ancora si svolge, nel suo e nel nostro tempo. L’ignoranza, la miseria, l’assenza delle Stato inducono a creare un altro Stato, dominato da regole, fondate su una sua interna e impenetrabile giustizia, inflessibile e spesso sanguinaria.
In tal senso, la Pessina offre una interessantissima mappa antropologica e criminale della città, di cui lo scrittore mostra di conoscere ogni angolo, ogni quartiere, ogni rione, perché Napoli resta non solo la più artigianale, ma anche una delle più rionali, di altre, molto più note città, con la differenza, riservata forse oggi ad alcune località dell’hinterland, che l’accesso a questi periferici spartiti urbanistici della capitale del Sud era talvolta interdetto ai cosiddetti “forestieri”, abitanti della stessa città, tranne qualche rara eccezione, come per esempio il grande matematico Renato Caccioppoli al quartiere quasi marino del Pallonetto.
Quando si è detto sembrerebbe smentire il concetto iniziale, iperrealistico, di una città, che non si accontenta della realtà. Ci sarebbe, in tal senso, la testimonianza dello stesso, modesto, Mastriani, il quale rivendicava a se stesso e non al celebrato Emile Zola la novità del realismo; episodio, che ricorda da vicino un altro, molto meno noto, di Roberto Bracco, il quale invocava Francesco Bruno, autorevole giornalista e critico, a cui lo scrittore ha dedicato vari studi, di proclamare su uno dei giornali ai quali a Napoli attivamente collaborava che “I pazzi” li aveva inventati lui, non il Premio Nobel Luigi Pirandello.
Ma non è propriamente così, perché come si accennava all’inizio, la scrittura mastrianea riporta a un universo letterario, che con la realtà certamente si misura, ma per precederla o superarla, in nome di una visione tragica della vita, che affonda le sue radici in fonti lontane. Basterebbe a dimostrarlo La Medea di Porta Medina, la quale dimostra la solida formazione classica del nostro autore, professore di materie antiche presso il liceo “Cirillo” di Aversa, dove tra l’altro la Pessina e chi scrive sono stati relatori ufficiali in uno dei diversi convegni sullo scrittore napoletano.
Si vuol dire che sarebbe del tutto fuorviante immaginare, come spesso si è fatto, un Mastriani, scrittore naïf e primitivo; semmai la naiveté e la primitività, a volte bestiale, egli la riscontrava, con rammarico e raccapriccio, negli abitanti di una città culturalmente nobilissima, che egli, come chi scrive, amava svisceratamente, ma nelle cui viscere, con una orridità narrativa, di cui sarà difficile trovare eguali, affondava il suo bisturi sociologico, mai però, come accade nel più puro realismo, fine a sé stesso.
C’è, si vuol dire, in lui, e la Pessina lo documenta e lo conferma ampiamente, un oltre, di fronte al quale la realtà entra in crisi e quasi non trova posto per rappresentarsi, e il suo stesso linguaggio, e il merito di averlo evidenziato va ancora alla nostra autrice, sostenuta da qualche meritoria ricercatrice, come di quello di altri scrittori napoletani, supera e viola i confini di una semanticità canonica e convenzionale, per sperimentare orizzonti onirici e selvaggi, che fanno di lui un precursore di molte future sperimentazioni linguistiche. Non poteva, del resto, essere diversamente per uno scrittore, che, oltre una cultura frequentata come fonte di vita, si affidava ad una sensorialità energetica, che nella nostra città è particolarmente viva e che lo stesso Pirandello, a livello metodologico generale, aveva avvertito, quando scriveva e quando sosteneva di non avere scritto i suoi capolavori, ma di essere stato scritto. Espressione apparentemente enigmatica, ma che riporta efficacemente alle radici della scrittura, la quale è spesso regolata da leggi non scritte, da forze non catalogate e non ancora scoperte.
Mastriani è un animale letterario, che, forse più di ogni altro, esprime la biologicità di una scrittura, che aderisce pienamente alla pelle screziata di una città spettacolare, in cui, a differenza di altre, la scena può essere ogni giorno diversa e occorrerà ancora indagare su questa doppia prospettiva di realtà e visionarietà, che anima e affolla i suoi scritti.
Con questo volume, costato anni di ricerche e di fatiche, la Pessina ha voluto censire il terreno, dal quale ripartire per nuove investigazioni e scoperte, offrendo al lettore un panorama quanto mai ampio e articolato della produzione mastrianea, con affondi critici, degni di essere ripresi e reinterpretati, alla luce del personaggio, fornendo prezioso suggerimenti ad esegeti, pure acclarati, che ancora non sono riusciti ad inquadrarlo e per fortuna a costringerlo in un ipotetico ismo (e forse non ci riusciranno mai).
Il carattere organicamente disorganico di questo intervento asseconda, comunque, senza che l’autrice del corposo volume lo sappia, la sua stessa natura di scrittrice, che da anni lontani lo scrivente ha avuto modo di seguire e affiancare, in un plurilinguismo sperimentale e in un rapporto stretto tra letteratura e teatro, che fanno certamente di lei la rappresentante originale di un’avanguardia consapevole e solitaria.
Sosteneva Flaubert che “Madame Bovary c’est moi”, chissà che non si possa affermare la stessa cosa per la nostra autrice e il suo amato Mastriani, nel quale avrà certamente trovato qualcosa di sé stessa.
Francesco D’Episcopo