Signori, mettiamoci sul serio, come disse il filosofo Grozio pochi momenti prima di morire; non già che noi avessimo la voglia di morire, operazione che rimettiamo ad altro giorno, se ne avremo il tempo. Mettiamoci sul serio, giacchè è nostro proponimento d’intrattenervi sopra un subbietto di alta importanza, qual si è l’educazione. Abbiamo in animo di dire francamente il nostro pensiero, senza che ci facciano autorità tutt’i passati e presenti scrittori che di questa materia han trattato. Dichiareremo la nostra opinione schietta, per quanto strana e novella essa possa parere ai più. Siamo in un tempo in cui l’escrescenza de’lumi fa veder meglio le cose che un secolo fa; siamo, la Dio mercé, in tempi in cui possiamo schiccherare tutto ciò che ci salta in mente, senza tema che un reverendo ci mutili le frasi o ci atrofizzi i pensieri; onde ei bisogna che la verità e la ragione trionfino su le vecchie idee abbarbicate senza esame e senza scrutinio.
Veniamo a noi. Esporremo i nostri pensieri così alla buona, senza gran paroloni e senza lunghi raggiri di frasi. Gli scilomi letterarii e le discussioni accademiche sono la cosa più seccante di questo mondo, dopo il Simon Boccanegra del Verdi e le note diplomatiche del gabinetto francese. Noi detestiamo tutto ciò che ci fa perdere il tempo, e ci proponiamo, fra le altre cose, una gran riforma al dizionario universale, per l’abolizione de’due terzi delle voce inutili e delle parole soverchie. A questo proposito diremo che tanto una lingua è più bella e più dotta e più civile e più morale quanto è più povera, imperciocchè quanto meno si parla e si scrive, tanto più si acquista di sapienza e di felicità. Colui che non dice che quattro parole in tutto il corso del giorno, come un alto personaggio, è reputato un fior di senno e di virtù; e, se quest’uomo ha la ventura di non sapere scrivere nemmanco il suo nome, sarà vieppiù tenuto in concetto di pensator profondo e ipercritico da fare stare a pasta tutti gl’imbrattatori di carta.
Cominciamo il nostro trattatello di educazione collo stabilire in massima che non ci atterremo a nessuno dei sistemi seguitati finora, e tanto meno a quelli che han sognato il filosofo di Ginevra, Locke, Tommaseo ed altri. Qualche cosa di buono si trova sempre nelle pagine di questi spettabili barbassori; ma bisognerebbe avere molto criterio per sceverare la farina dalla crusca. Onde pognamo per base che le scritture di questi miei padroni colendissimi non si hanno a leggere, anche perché tra il loro secolo (parliamo de’due primi) e il nostro, ci è un piccolo secolo di differenza e di distanza; e quelle cose che potevano essere attagliate a quei parrucconi dei nostri antenati ed alla razza pecorina, a cui i nostri padri appartenevano, non convengono più alla razza leonina, cui abbiamo l’onore di appartenere noi altri.
Persuadiamoci che il progresso ci sta, e bisognerebbe essere miope in terzo grado per non vederlo. Noi non vediamo altro per le strade che il progresso camminare col sigaro in bocca, e con un revolver in tasca; lo vediamo ne’teatri dove per lo più si addormenta placidamente ascoltando una tragedia, per far la sua digestione; lo vediamo nei concerti e nelle accademie musicali dove sbadiglia fino a rompersi le ganasce; nelle sedute di molte accademie dove prepara i suoi possenti narcotici letterario-scientifici; nelle feste da ballo dove, col cristallo conficcato nell’occhio, si diverte a guardare le erculee fatiche dei suoi schiavi, che egli fa sudare fino al deliquio.
Dunque il progresso ci sta; e quelle cose che erano buone un anno fa, or sono roba rancida e stantia. Il voler dunque educare la vegnente generazione a quel modo onde noi siamo stati educati è mattezza, è imprudenza, è caparbietà. Dunque, compiacetevi, signori e signore, di prestarmi un orecchio, perché io comincio… e perora finisco.
FRANCESCO MASTRIANI