LE LETTERE IN NAPOLI

    Allorché Dio vuole far passare un’anima per tutti i crogiuoli delle più dure prove e delle più crudeli sofferenze, la condanna al purgatorio della intelligenza. Che l’ingegno sia dono di Dio è innegabile, e quello che lo hanno ricevuto esser gliene debbono grati; ma è pure innegabile che questo dono è accompagnato da una vita di sofferenze, di privazioni, di stenti, di umiliazioni, di torture, di disinganni, di amarezze e di lagrime. Che se alcuni uomini d’ingegno ebbero dovizie e favori gli è perché fecero del loro ingegno vergognoso mercato di transazione colla loro coscienza. Non temiamo di asserire che, nelle condizioni attuali della società, il letterato onesto non può avere molto amica la fortuna.

   Il mondo si lascia governare dalla impostura; esso paga, onora e rispetta quelli che meglio sanno ingannarlo. I cerretani d’ogni maniera, i saltimbanchi, i ciurmadori si aprono la via nel mondo. Quelli che hanno ricevuto dalla natura il dono di non arrossare giammai sono i predestinati a far fortuna in questo mondo che è certo il pessimo fra tutti i creati da Dio.

   Che cosa volete che faccia l’onesto letterato in questo guazzabuglio che si chiama società? Che parte vi rappresenterà egli mai? Chi gli darà retta? Gli onesti, i buoni, gl’intelligenti gli daranno un tributo sincero di lodi e nient’altro; l’infinita schiera degli asini nol comprenderà o il dirà matto.

   È indubitato che, a malgrado della nostra progredita civiltà, noi siamo in certe cose in peggiori condizioni di quelle in cui erano i nostri avoli. Negli scorsi tempi, i ricchi, di quelli almeno che avevano qualche coltura dello spirito, si procuravano il piacere di circondare i letterati e gli artisti con quelle agiatezze che il mettessero nello stato di lavorare senza il torturante pensiero di buscarsi il pane quotidiano. I Mecenati non erano rari, e parecchi nomi passarono alla posterità senz’aver fatto altro di buono che di essere accorsi in aiuto dello ingegno povero e sventurato. Il secolo passato fu ricco di Mecenati; e, se molti di questi lasciarono i loro nomi alla storia letteraria acquistando bella fama di protettori delle lettere e delle arti, non poco disdoro ne venne ad egregi uomini dotti che o non vendettero la loro penna al potere ed all’oro, o di soverchio si fecero elogiatori de’loro Mecenati. La gratitudine è bella virtù; ma non dee certo trascendere in bassa adulazione. La penna, strumento potentissimo di civiltà, non debbe giammai servire a personali interessi; essa non debbe mai tramutarsi né in pugnale né in turibolo. Noi ammiriamo le opere del Metastasio, del Monti e di altri vigorosi ingegni; ma non possiamo perdonar loro i leziosi incurvamenti a’loro cesarei padroni. Il Tasso ebbe amaramente a pentirsi di aver chiamato magnanimo quell’Alfonso, che in contraccambio chiamò lui matto. Oggidì i letterati non possono avere la tentazione di chiamare magnanimo nessuno, perocchè il tempo dei Mecenati è finito. I ricchi pensano ad ingrassare le loro Frini, i loro cavalli e i loro cani; e, se vedessero novellamente il Tasso a vendere le sue ultime camice, o il Vico a morire su la paglia, credete che se ne inquieterebbero di molto?

   I governi liberali hanno l’obbligo di valersi di tutte le intelligenze che sono nell’ambito del territorio dello Stato. Gli uomini che hanno dato saggio di sé al paese non debbono pregare il governo perché li occupi e li sostenga; ma il governo invece dovrebbe pregare questi uomini di occupare quei posti che meglio si addicono ai loro studi ed alle loro particolari attitudini. Che il dispotismo perseguiti l’ingegno e lo disanimi e lo faccia crepar di fame, è logico, è conseguente, è ammesso dal più ovvio buon senso; ma che ciò facciano anche i governi liberali, e ciò che non può intendersi né spiegarsi.

   Ha nella vita momenti terribili, in cui l’anima, per quanto piena di fede in Dio, si avvilisce sotto i colpi della ria fortuna. In tal caso, o recalcitra, e il pensiero corre a’più funesti consigli della disperazione, o si abbandona; e l’uomo rimane inerte, stupido, diremmo quasi indifferente alla stessa acerbità di sventura.

   Ma, al di sopra dell’uomo, della società, del mondo, al di sopra delle umane vicende, è Dio: l’anima del giusto, del pio, dell’onesto, non può sconoscerlo e rinnegarlo, anche quando si contorce nelle spirali di quel serpe che si chiama dolore, e anche quando si avvolge nei dubbi crudeli che le umane ingiustizie gittano nella mente e nel cuore per ribellarlo contro l’istinto, la ragione e la Fede.

                                             FRANCESCO MASTRIANI