PER NICOLA GAETANO TAMBURINI
Uno dei tanti argomenti che rivelano l’unità dell’umana intelligenza nelle sue varie graduali manifestazioni è per l’appunto il veder sorgere sotto qualunque zona di cielo ed in ogni stagione, di tanto in tanto, qualche rara individualità, cospicua rappresentatrice di un’idea, non che vivente di patriottismo. Codeste individualità non sono mica esseri nella circonvoluzione dell’anima, come dice Dante, non aggirano unicamente se in se stesse; ma con la forza impetuosa del torrente che ruina, con la gagliardia e rapidità della folgore, comprendendo l’individuo, la nazione e l’umanità, li abbracciano e li baciano in un fervido rapimento d’amore. Tal fu Edgardo Quinet, intelletto potentissimo, cuore eminentemente gentile, chiamato da Antonio Franchi conoscitore e amico vero d’Italia.
Ebbe culla in Ain di Bourg il 17 Febbrajo 1803; passò la trienne puerizia con sua madre e suo padre attraverso le schiere sul Reno ed in mezzo ai vincitori di Austerlitz: qui sentì il primo palpito, qui imparò a dire il santo nome di patria. Condusse la vita di sentimento, e travagliato da quell’arcana forza ch’eroizza gli uomini e li solleva a destini eccelsi ed immensi, sospinto e risospinto da mille vigili cure d’arte, di scienza e di nazione, pienissimo del concetto infinito dell’umanità espicantesi, fu cacciato addentro ai vortici di Parigi. Ed ecco quell’anima vasta, quanto l’idea umanitaria cui caldeggia, bella come il candore della patria fede, si armonizza allo spirito di Michiewitz: questi tre chiari intelletti, come corde unisone, rispondono di soavità e di grandezza emancipatrice.
Il Quinet è allievo della mente italo germanica, e poeta e filosofo; intelligenza che vede per intensità e per estensione quanto possa uomo. Egli vedeva nel campo della sua mente e nello spazio del suo cuore una lotta continua della ragione con la fede, dell’umana famiglia con le religioni: onde la sua trilogia epica Ahasvero, Prometeo e Napoleone. Il Quinet è l’anello tra Gohete e Guerres; non tende all’immobile individualismo del primo, né all’insolente e talvolta gelido sarcasmo del Voltaire, né alla negazione assoluta del secondo. Il suo lavoro sugli schiavi, sul genio e sulle religioni, ed altre opere di grave momento, dimostrano l’ampio acume del suo intendere in filosofia, in religione, in legislativa ed in politica. Indefesso cultore di speculativa e di letteratura, percorreva, con l’anima giovine di aspirazioni dilettose e di vita ubertosisima, la Germania: qui si aggraduiva l’amicizia onorata di Niebuhr, Schleger, Tieck, Goevres, Uhland, Danb e massime Federico Creautzer, che lo iniziò nel jeratico simbolicismo. Percorreva l’Italia; e qui, visitando le ruine de’vecchi castelli, mirando la pompa delle città e l’estetica degl’innumeri monumenti, conosceva ed amicavasi il più grand’essere, la Natura. O Quinet, la sola Italia ti poteva educare a tanta gentilezza di sentire, a tanta profondità di meditare! da questo pellegrinaggio d’amore e di fede scaturiva, come da limpido rivo, un pensiero che immantinente convertivasi in libro – Alemagna ed Italia. In somma, Quinet è degno cittadino di tutte le nazioni, uomo di mirabile evangelismo, credente ai più luminosi destini della progressista umanità.
Questa è l’ombra del bravo e maestro pennello del Tamburini. Costui caldeggiando mai sempre l’eterno pensiero che tanto affratella e tutto toglie alla diseguaglianza, ispirandosi alle soavi melodie del Dante, alle austere elucubrazioni del Bruno, Campanella, Rossi, Vico, Romagnosi e Filangieri, s’incontrava con l’anima sorella di Edgardo Quinet. Nicola Gaetano Tamburini, venerando ingegno ed amatissimo cuore, diffonde il lume del Sofo d’Ain di Bourg con l’arte tutt’amore e tutta gentilezza. Senza invidia di chicchessia, con la lucidità di chi ben vede, con l’acutezza di chi ben considera, con l’ardore di chi ama e con la lodevolissima favella di chi è alunno d’Alighieri, il Tamburini fa un egregio ritratto della Mente Chinettiana. Sentì lui stesso «Amor mi mosse… ‒ Parte di questo libro (la mente di Edgardo Quinet) fu pubblicata nell’appendice del giornale l’Arnaldo: quegli articoli furono accolti con amore dalle anime che credono alla umanità, e colla viva fede e coi voti ne affrettano i destini, il compimento de’tempi e della santa impresa – Gli splendidi lavori dello Chassin mi dettero e la ispirazione e l’ardimento: ho fatto passare per il mio cuore quelle pagine che narrano del suo grande maestro le divinazioni, l’interno lavorio, e i principi rivelati. Nel modo che fa il pittore tolsi dalle opere del Quinet il concetto, dallo Chassin i contorni di quella grande individualità, dal mio cuore e dall’anima consenzienti il colorito, la espressione, il movimento e la ragione dell’arte ‒ Studiando le opere di Quinet mi appare l’Umanità vincitrice di tutte le lotte morali del suo passato, ed in quelle vittorie l’Italia che, ricomponendosi a nazione, si fa esempio ai cento popoli che il Cristianesimo quai Lazzari ritoglie dai secolari sepolcri. Nel libro dello Chassin mi sono sentito, mi si permetta il paragone, pittore: ho voluto dipingere in que’gran quadri che la fede sola sa fare: ho voluto tradurre in imagini un di quegl’ideali che potrebbe essere l’intelligenza amorosa di un’intera generazione. So che tutto ciò volevo fare; so ancora che tutto ciò non ho potuto fare. Eppure il lungo studio, ch’è meditazione, il grande amore ch’è ispirazione, l’entusiasmo ch’è creazione, diretti tutti a generoso intendimento per la dritta via tracciatami da tanto duca e maestro mi denno valere qualche cosa… ‒ Leggendo le rivoluzioni d’Italia del Quinet ho pianto: tra i moltissimi libri che ci vennero dallo straniero, quando le male signorie, facendo per l’ultima miserando scempio della nostra patria, si provarono persino di sperderne la memoria, in quello solo trovai un’anima profondamente innamorata di noi: in quel libro l’Italia pentita, confessando le sue colpe, ed espiandole col ritornare alla coscienza di sé stessa, coll’aspirare a gloriosa meta negli ordini del pensiero e dell’azione, presentì la fine delle sue sciagure, e si fece perdonare gli antichi trionfi, le conseguenti umiliazioni, le ire, le discordie, le divisioni fatali, fra quei che un muro ed una fossa serra! I savi consigli e gli amorosi ammonimenti che senza alcuna pretensioni vennero porti dal libero pensatore francese, lo costituiscono uno del bel numero de’rigeneratore del nostro paese, il quale nel coronamento del sublime edificio, nel nazionale banchetto, vorrà per fermo che anche il suo nome s’abbia condegna onoranza» ‒
Io non poteva chiudere meglio questo piccolo cenno che con le medesime parole del ch. Tamburini, perché tutti veggano se possa sentirsi di più, se possa dirsi e farsi meglio. Italiani, il protagonista dell’opera, e chi n’è l’autore, sono italianissimi, cosmopoliti, hanno cuore e cervello, ispirazione e intendimento: leggete, e da voi men verrà grado non poco ‒ Lodo e gratitudine al caro fratello Tamburini, che credente alla fede umanitaria, saldissimo al domma d’una vita integerrima, strenuo cultore di scienze e di arti, invaghito dell’ingegno sereno ed acuto del Quinet, s’irradia di luce. D’affetto s’infiora, e per tutto spandendo il suo nome compone l’inno della riconoscenza, del trionfo e della gloria.
FRANCESCO MASTRIANI