Siamo, come vedete, in su lo spirar di Aprile; e tutte le cinquantaquattromila zitelle napoletane aspettano con ansia il quattro Maggio. Quando diciamo zitelle, è un mo’di dire, giacchè anche le vedovette (e le maritate per loro particolari ragioni) sperano ne’mutamenti domiciliari che avvengono in questa memorabile data del 4 Maggio, creata dalla sacra ed inviolabile Proprietà, e che dà un piccolo sapore del finimondo.
Lettrice amabilissima, confessate che è pure una dolce commozione quella che proverete nello schiudere la prima volta i balconi e le finestre della vostra abitazione. Forse da qualcuno de’balconi o delle finestre adiacenti potrà spuntare il roseo destino della vostra vita, l’anima gemella che dovrà fissare i vostri affetti, l’angelo che dovrà infiorare il vostro esilio in questa valle di lagrime, in cui chi non è figlio illegittimo paga per avere un posticino da piangere più o meno comodamente. Ma parliamoci un poco più prosaicamente, perciocché io detesto la poesia, come la cosa più noiosa di questo mondo. Da qualcuno di que’balconi o di quelle finestre o di quelle terrazze che circondano il vostro domicilio potrete acchiappare un merlotto, cioè una di quelle creature di genere maschile, la cui specie si va perdendo ogni giorno vie più, le quali nascono colla protuberanza di marito, ovvero colla bosse conjugale, come direbbe un seguace del sistema di Gall. Come vi palpita il cuore in que’primi momenti che gli occhi vostri neri (me l’immagino neri, perché io vado pazzo per gli occhi neri) si volgono prima di rimpetto, e poscia a dritta e a sinistra, sopra e sotto, ed in tutt’i versi, per una preliminare e rapida ricognizione della piazza.
Confessate mo a quattr’occhi, angioletti miei, che il vostro primo pensiero, la vostra prima azione nel prendere possesso della nuova dimora, è il correre colla patella in testa fuori al più vistoso balcone, per avvisare i vicini che vi è un novello pericolo pei loro cuori. Voi v’incaricate pochissimo di quelle cose interne, che hanno formato l’oggetto di lunghe discussioni tra il vostro papà e quella iena assetata di carte da venti lire che si chiama padrone di casa (Vedi i miei articoli ad hoc), e che formano altrettanti scalini di quella specie di forche caudine che si addimandano polizze di fitto. L’esterno è il vostro affare, l’esterno è quello che voi cercate, l’esterno è il campo delle vostre speranze, de’vostri sospiri, de’vostri attacchi. E avete ragione. Voi siete nate per far l’amore, e dovete compire la vostra missione sulla terra.
Non conosciamo noi una razza di gente più insopportabile di quegli utopisti atrabiliari, che si fanno una legge di biasimare tutto ciò che fate, come se voi poteste fare altra cosa che il buono e il bello. Non date retta a nessuno, e occupatevi a piacervi sempre come meglio potete e sapete. Ed oggi che il matrimonio si è fatto civile, voi dovete sperare assai più che quando era incivile.
Dunque il quattro maggio ci è addosso. Pochi altri giorni, e avremo il solito spettacolo di quel gran ballo eseguito da’mobili e da’facchini, corifei di questa giornata.
È già cominciato nello interno la grande operazione che si compirà alle esterno.
I misteri dell’economia domestica si preparano a svelarsi agli occhi de’profani; il lusso e la miseria si accingono alla gran lotta in cui sempre l’ultima è vittoriosa, a malgrado della apparenze. La febbre de’mobili invade il sangue de’più modesti impiegatucci, pe’quali la compera d’un nuovo mobile assorbe il soldo di un mese.
Cinque mutamenti di domicilio equivalgono ad un incendio, disse un uomo che se ne intendeva; e noi soggiungiamo che ogni mutamento di domicilio equivale ad una visita di ladri. I nostri progenitori (permettete) erano un poco più assennati di noi. Benché non avessero il gran vantaggio di avere tanto scibile in corpo quanto ne abbiamo noi, non cambiavano i loro domicilî che ad ogni novella mezza dozzina di figliuoli che metteano al mondo; imperciocchè in que’tempi arcadici non ci era la smania di muoversi, di agitarsi; non ci erano le malattie nervose; ed i mobili, che non erano così fragili e nervosi come quelli che noi fabbrichiamo, rimanevano immobili per un piccolo mezzo secolo, senza che ogni anno un temerario facchino ne sturbasse la maestosa quiete e li profanasse con le indiscrete sue mani.
Ma oggi noi non possiamo stare en place: abbiamo fretta di sloggiare dalle nostre case, siccome (perdonate) abbiamo fretta di sloggiare da questo mondo. Oggi che il tempo e la distanza si abbreviano con tutt’i mezzi che abbiamo in nostro potere, noi sentiamo il bisogno dell’irrequietezza, del moto, del nuovo. Un anno è anche troppo per istare in una casa; e tra qualche tempo i fitti di casa non si faranno che mese per mese, siccome abbiamo fatto voti in un nostro recente articolo sul fitto delle case in Napoli.
Tempo verrà (e noi crediamo non sia lontano), in cui, visto l’incomodo di trasportare i mobili ad ogni corto intervallo da un polo all’altro della città, le case si fitteranno con tutte le suppellettili, le quali saranno per conseguenza di proprietà del padrone di casa. Allora avverrà che per cautela della rispettabile classe dei proprietarii, il pigionale si assoggetterà alla cristallizzazione perpetua durante il tempo dello affitto, e non potrà muoversi dal suo quartiere per tema che non cagioni sensibili deterioramenti delle suppellettili.
Sabato prossimo noi ci sottragghiamo al feroce dispotismo di un proprietario per cadere nelli artigli di un altro. Tempo verrà che ogni buon cittadino avrà il suo tetto pel quale non pagherà pigione; e allora comincerà davvero il regno della fratellanza, della eguaglianza e della libertà; le quali parole oggidì sono una sanguinosa ironia sotto il regno de’padroni di casa.
Dal cinque Maggio in poi le relazioni e le amicizie si mutano, si alterano, si cancellano per dar luogo ad altre novelle che la prossimità delle abitazioni fa nascere e che l’anno venturo saranno parimente cancellate o dimenticate o raffreddate per quelle che nasceranno dal nuovo domicilio. Trasportando con noi i nostri amici o almeno gran parte di loro, e adduciamo la distanza delle case rispettive a pretesto del raffreddamento della nostra amicizia.
Ma favoritemi dire, di grazia, in che consiste questa pretesa amicizia, e se vale davvero la pena di tanto rammaricarsi di averla perduta? Mettiamoci la mano sulla coscienza, e confessiamo che noi non abbiamo amici, e né siamo noi stessi amici di nessuno tranne che di noi medesimi. È cosa deplorabile e vergognosa che da circa seimila anni dacché il mondo è mondo non abbia la storia dell’uomo a contare che tre o quattro amicizie, come quelle di Oreste e Pilade, di Damone e Pitia, di Eurialo e Niso, ed anche io non metterei la mano sul fuoco per giurare che questi signori sieno mai stati al mondo, o che non si siano fatte le corna l’un con l’altro. E quanto è più deplorabile per le donne, per le quali né la storia né la favola ha un tale esempio a citare che possa stare a livello di quelli summentovati per gli uomini.
Or dunque, se non fosse la noia che ci perseguita e il bisogno che sentiamo che altri ammazzi con noi la più cara stoffa della vita, il tempo, noi ci brigheremmo assai poco di fare delle amicizie. Andate a chiedere il più leggiero servizio pecuniario al vostro più vecchio e caro amico, e tosto vi si muterà tra le mani, diventando il più spietato vostro nemico. Queste cose ch’io dico sono più vecchie dell’uomo; ma, per quanto viete e rancide lo sieno, l’uomo sembra che non vi presti mai fede, ed ha il coraggio di non arrossire quando stringe la mano di un suo simile, e gli si protesta amico sincero e sviscerato. La civiltà dovrebbe ormai vergognare di tante bugie affastellate colla sicurezza di non esser mai credute.
Sloggiate quindi in santa pace, amabilissima signorina, i cui begli occhi sono rivolti su queste mie righe. Se siete ancora in disponibilità, come tanti poveri figli di mamma, sperate nel nuovo domicilio; se avete qualche precedente, temete il cambiamento dell’aria.
Il quattro Maggio è un giorno funesto ai vecchi amori; ma le vostre virtù, i vostri vezzi la vinceranno; ed il quattro maggio del 1867 sarà per voi l’alba gioconda del più lieto e roseo avvenire.
FRANCESCO MASTRIANI