La seguente relazione, la professoressa Anna Geltrude Pessina, l’ha enunciata durante una tavola rotonda dal titolo «Attualità e modernità nelle opere di Francesco Mastriani a 200 anni dala sua nascita», che si è tenuta il giorno 17 febbraio 2020, presso la sede dell’ Associazione «Arcobaleno» di Torre del Greco.
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Nel ciclo delle conferenze su Francesco Mastriani, a duecento anni dalla nascita, credo di essere stata la prima e convergere e a fare convergere l’attenzione su situazioni, fatti, vicende riportabili e raccordabili al nostro contesto, in quanto tutta la parabola dei feuilettons mastrianei non si impantana nelle stratificazioni di un sostrato socio-ambientale-antropologico senza proiezione di futuro, perché quel passato si proietta nel nostro presente con le stesse aberrazioni di ieri, quasi a significare che le coordinate della storia interagiscono con malversazioni e devianze, odio e vendette, veleno di quel e del nostro quotidiano.
È una connotazione, un filone nuovo che ho colto nei miei studi su Mastriani; un filone che non ho trattato nel mio saggio del 2013 Francesco Mastriani: un escluso. Per quella stesura focalizzai la mia ricerca su carattere, personalità, sapere globalizzato, diatriba su Mastriani verista o non verista, sul suo socialismo evangelico, sulle motivazioni che, tuttora, lo escludono dalla cultura ufficiale e dal nobile castello letterario.
Indubbiamente, per la composizione del saggio lessi le opere più rappresentative dell’iddio dei romanzieri da I misteri di Napoli a I Vermi, Le Ombre, La cieca di Sorrento, La sepolta viva, che già arricchivano la mia biblioteca. Reperii La Medea di Porta Medina e Ciccio il pizzaiolo di Borgo Loreto su una bancarella in via Costantinopoli, a Napoli.
Ebbene in quel primo studio non intercettai il problema dell’attualità e modernità, che, pure, nel pizzaiolo di Borgo Loreto è il nodo controverso dell’indagine giudiziaria su Ciccio innocente, afforcato con l’accusa di avere abusato di un bambino di sei anni e di averlo ucciso, a violenza effettuata. Un crimine, oggi più di ieri abbominevole, perché i casi dell’innocenza violata si sono, a dir poco, raddoppiati nel mondo laico e in quello non laico.
Ma, è stato lo studio degli inediti, non più tali per il certosino lavoro di recupero di Emilio e Rosario Mastriani, che mi ha aperto la strada su questo aspetto della narrava mastrianea, dapprima trascurato. Me ne rammarico e corro subito ai ripari, ritornando sulla tematica in discorso, che considero un po’ come una mia creatura, dimostrando come l’attualità e la modernità di Mastriani rimbalzino dalle pagine di un passato che si fa presente, attraverso un’esegesi impostata a raffronti comparativi tra i capolavori, che definirei storici, e quelli apparsi di recente sul mercato librario.
Malgrado, la varietà dei titoli e dei contenuti, tutti evidenziano una decisa, incontrovertibile linea di continuità tra i feuilettons, che fecero la fortuna del Roma, prima di essere raccolti in volumi, e i nuovi editati, coevi alla maggiore produzione mastrianea, ma a noi giunti con un ritardo di oltre un secolo rispetto alla morte dello scrittore, datata 6 gennaio 1891.
Linea o fil rouge di continuità consente a don Francesco una visione a trecentosessanta gradi, con un angolo di apertura che, dalla città con/in lui consustanziata, spazia ai Comuni viciniori, alle zone limitrofe, oggi, per anglomania, hinterland.
Cardito, Casoria, Castellammare di Stabia, Portici, Resina, San Giovanni a Teduccio, area vesuviana, oasi baciata da Cerere e da Bacco, ingentilita da antichi manieri: stanno a testimoniare la passata civiltà dei feudatari e dei signorotti: urbanizzatisi, avevano adibito le proprietà avite a residenza di villeggiatura o a raduno di nobili, amanti della caccia. Quando non erano utilizzati dai rampolli scioperati e libertini per incontri libidinosi con giovani povere, innamorate, ingenue, soprattutto affamate, che scambiavano la tattica di abbindolamento per amore sincero.
Manigoldi di tutte le età della storia. Un prototipo? II conte Ascanio Orsini. Sotto le mentite spoglie di Luigi Vercillo, scritturale di bello aspetto, è il seduttore di Rituccia Damiani, quattordicenne, aspirante sarta, prima di quattro fratelli, cui durante la detenzione del padre e, dopo la dipartita della genitrice, funge da madre.
Per porre in essere il turpe misfatto, Luigi deve vincere remore e ritrosie dell’ adolescente, che accondiscende alla gita fuoriporta, rassicurata dalla presenza in villa di una zia. L’inganno è abilmente tessuto: in esso Rituccia cade come uccello nel visco.
L’arrivo a Cardito, per la neofita dell’amore, ha il fascino delle mille e una notte: villici che danno dell’Eccellenza a Luigi e gli si inchinano e scappellano; la proprietà ubicata in un luogo amenissimo; all’interno gli specchi, le consolle, gli argenti, i cristalli, la tavola apparecchiata con ricercatezza mistificano la violenza ordita con modalità subdole.
Frastornata dalle lusinghe del sedicente innamorato, Rituccia cede ai sussulti del cuore, ai richiami della carne, respinge la voce della ragione.
Di lì a qualche giorno Luigi, alias il conte Ascanio Orsini, della sua preda non ricorderà né volto né nome.
Sono piaghe cancerose con germi una solitudine irrazionale, che fa di ogni adolescente psicologicamente fragile un’esca nelle mani di violentatori, che appagano l’inveterato narcisismo nello stupro e nella fuga repentina. Di sfondo il sottinteso sadiano della natura malvagia, il trinomio depravazione-indigenza-inedia: abbacinate, le sventurate cadono nella trappola di accalappiamento del libertino di turno. Un sogno! Al risveglio, al clou della frustrazione, smaterializzano in Ombre (1).
Ieri. Oggi, sole, con le loro problematiche esistenziali, ragazzine, che profumano ancora di latte e di talco, chiudono la partita con la vita in ambienti fatiscenti, tra cumuli di immondizie, assistite da sconosciuti occasionali: concertano di non ricorrere all’assistenza ospedaliera,per non essere coinvolti in un pasticciaccio di droga e di abusi sessuali.
Altre volte l’hinterland si prestava a territorio dove, elusa l’interferenza di conoscenti intriganti, si portavano a compimento vendette brutali, atroci al punto da fare accapponare la pelle.
Il pensiero corre alla morte orrenda di Cesarina, di appena tre mesi: boia e carnefice la madre Coletta Esposito, meglio conosciuta col nome di Medea di Porta Medina (2), dal rione dove esercitava il mestiere di cambiatora.
Lo scenario dell’infanticidio, descritto da Mastriani con perizia di particolari, è raccapricciante: di momento in momento il climax della disumanità, dell’anaffettività di una madre si fa spasmodico; una madre che, per amore non ricambiato, metamorfizza in bestia brutale, belluina come quelle che si azzuffano nel caldo dei deserti africani e asiatici.
Luogo dell’infanticidio Casoria, Comune a Nord di Napoli. La scelta del sito non è occasionale: lì, Cipriano Barca, uomo della vita di Coletta, sta per sposare Teresina.
Coletta, invasata da odio satanico, intende punire l’amante fedifrago colpendolo nell’affetto più caro: quello di padre che, durante la celebrazione del matrimonio, vede catapultato ai suoi piedi il cadaverino della figlioletta, prima strangolata dalla madre, poi, a tentativo fallito, scaraventata con la testina a terra.
Coletta è l’anti-Albina Rionero: per proteggere la piccola Beatrice dalla furia omicida di Nunzio Pisani, che, dopo il furto dei preziosi, si avventa su di lei per violentarla sotto la minaccia di un pugnale, Albina fa da scudo alla bimba e riceve nel seno il colpo… destinato alla figlia. Ancora triste attualità ne La cieca di Sorrento. Il furto, il naufragato divisamento di violenza carnale, il villino di Portici, quella notte abitato solo dalla giovane madre e dalla pargoletta, le strade deserte e imbiancate di neve, l’uccisione di Albina, il pianto convulso di Beatrice non sono da stipare nel l’archivio della memoria: sono, ancora, purtroppo, il nostro presente.
La sera del 23 gennaio 1827 è la sera del 2 marzo 2006, in località Casalbarolo, dieci minuti da Parma. La famiglia Onofri sta cenando quando due banditi mascherati fanno irruzione nella casa. Uno dei due punta una pistola alla nuca di Tommy, diciassette mesi, in lacrime sul seggiolone; l’altro intima agli Onofri di dargli dei soldi. I coniugi raggranellano € 150,00. Non contenti, i due malfattori li legano con nastro adesivo e li fanno sdraiare sul pavimento. In un batter dì occhio si dileguano. Nella stanza il silenzio è assoluto. È cessato il pianto di Tommy. I delinquenti lo hanno rapito. Il suo cadaverino sarà ritrovato il 2 aprile, a distanza di un mese.
Sì! Coletta non è Albina, ma non è neanche Filumena (per intenderci Marturano). Filumena afferra a volo quando don Domenico sta per mollarla e allora gli sbatte in faccia, vivi non morti, i figli del lupanare, per i quali richiede il riconoscimento di paternità. Certo i mutamenti del costume hanno il loro peso. L’infanticidio di Coletta
è datato maggio 1793; Eduardo sfoglia il registro del Neorealismo: la città in ginocchio, la miscellanea delle truppe di occupazione. I lutti, i saccheggi, i baiti, il contrabbando. La guerra forgia, aguzza ingegno e intelletto, cambia la pelle. Di pelle, dalla cintura di vico San Liborio, Filumena ne ha cambiata: l’esperienza introiettata le garantisce la vittoria nel dèrby contro il Soriano.
Sì! Coletta non è Albina Rionero, non è Filumena Marturano, è Medea. Entrambe passionali, il loro è l’Amor ch’a nullo amato amar perdona e che fa esclamare all’eroina euripidea: Ah, che grossa disgrazia a questo mondo è l’amore e alla Medea di Crista Wolf: Così mi consacrai a Giasone, senza riserve. Donne contro! eroine tragiche! Quando, però, è il caso di evidenziarlo,Questo amore/ così violento/ così… disperato / si ricrea, fermando gli occhi su un’altra donna, le viragini del sentimento istintivo, fiero e ardente, trasformano in dispensatrici di morte.
Cardito, Casoria e rimanenti aeree vesuviane, più che contrade ridenti della Campania felix, nei romanzi di Mastriani si configurano cordone ombelicale, estensione e prosecuzione dei guasti della città, bypassati dai vicoli del ventre a un hinterland che, rinnegata la poesia della vita semplice e onesta di un dì, è lacerato dalle stesse problematiche della metropoli; problematiche con radici abbarbicate nel degrado socio-ambientale, nelle angustie economiche del quotidiano, nell’eclissi dei valori, nella profanazione della religione tradizionale a vantaggio di un fanatismo, che sfocia in incontestabili manifestazioni di xenofobia, quando i popolani, incolti e ignoranti, decidono di uccidere Ismaele, figlio di Ninive, dispregiata stella gialla (3).
È il 1794, contrassegnato da una violenta eruzione del Vesuvio. Teatro della calamità naturale, e della traversia ad essa connessa, la località La Pagliara, nei pressi di Resina. Lì, Ninive, con i figli Rachele e Ismaele, si è imposto lo stato di semiclandestinità, per scongiurare ulteriori persecuzioni dell’odio razziale.
Accusata del trafugamento di una statua del martire Gennaro, le viene imputata la colpa della devastante eruzione. Sono illazioni alchemiche del popolino, rozzo e superstizioso, è l’hate speech della blasfema Maria Agnese: sobilla la ciurma al grido di: Morte al figlio della Giudea… si sgozzi il piccolo! Questa, a suo avviso, la soluzione per placare il Santo.
Fatta irruzione nella casina, Ismaele, prelevato dalla cisterna in cui la madre, nella speranza di salvarlo, lo ha nascosto, è sgozzato dallo Sgargiato, un beccaio di malaffare, con bottega al rione delle Fontanelle.
Corre, come si diceva, l’anno 1794, tempo non sospetto di sterminio e di olocausto, di genocidio e di soluzione finale, pure l’ottuso odio selvaggio dei villici, magistralmente sbozzato da Mastriani, ha nodi di connessioni e convergenze con la belluinità di Hitler, con l’eccidio delle Ardeatine, ordinato da Kappler, con il golpe nel Cile, con la pulizia etnica nell’ex Jugoslavia, sintomo, indizio di follia collettiva, di perdita di lucidità, costante fenomenologica da quando, a ricordare Giovanni, gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Ad assistere impotente allo sgozzamento della propria creatura, a Ninive si spezza il cuore. Quale la sua reazione ? La vendetta? L’applicazione della legge del taglione? A una madre con il cuore schiantato si può suggerire il manzoniano, evangelico: Perdona in maniera da non poter mai più dire io gli perdono? Indubbiamente, sì! Ma chi è stroncato da dolore indicibile, avrà la forza di perdonare? Ninive questa forza non ce l’ha. Il dolore in lei non è catartico, alimenta odio viscerale che appagherà il suo sitire sanguinem quando avrà inflitto alle madri delle Fontanelle la stessa piaga che è stata aperta in mezzo al petto.
Di qui la decisione di rapire e di uccidere i neonati, strappati dalle culle durante momentanee assenze delle madri e di adescare i più grandicelli con promesse di giocattoli e leccornìe.
Anche Ninive trova il suo archetipo nella barbara della Colchide, i cui figli, nella rilettura di Crista Wolf, vengono lapidati dal popolo di Corinto, su cui la maledizione di Medea si abbatte come una sciagura più nefasta della folgore di Giove: Che possa toccarvi una vita terribile e una misera morte. Che i vostri pianti possano salire al cielo senza commuoverlo. Io, Medea, vi maledico.
Ninive va oltre la maledizione. La soddisfazione di praticare il male, di dare morte non può attendere: deve concretizzarsi fattivamente e operativamente. Perciò, tagliata la gola a esserini inermi e indifesi, nottetempo, con il collo reciso, li abbandona sull’uscio delle casupole dei loro genitori.
Violenza! Ancora e sempre violenza! esercitata sui minori. Oggi, violenza su Lorenzo, di appena tre anni, scaraventato dalla madre a terra; su Checca, abusata e fatta volare dall’alto di una delle case del Parco Verde a Caivano; su Loris, strangolato dalla mamma con fili di ferro; su Giuseppe, picchiato a morte dal compagno della madre, a Cardito.
È il Nihil novi sub sole di Mastriani, di inconfutabile e scottante attualità, bypassato nel nostro quotidiano.
A noi annichiliti e senza parola non resta che riandare al più non disse e rimase turbato
Anna Gertrude Pessina
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(1) Dal romanzo Le Ombre.
(2) Dal romanzo La Medea di Porta Medina.
(3) Dal romanzo La jena delle Fontanelle.