La controra

   Dal romanzo inedito di Francesco Mastriani La spigaiola del Pendino, pubblicato da Guida-Editori, Napoli, 2017, dalla pag.93 del capitolo Il miracolo di Madre Isabella, abbiamo tratto questa interessante digressione dell’autore sulla controra. 

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La controra

     Per mala sorte, le ventidue ore, secondo lo antico orologio, nel mese di giugno equivalgono alle sei del pomeriggio.

Quella controra di està dovè sembrare una eternità alla bella figliuola della vecchia Maria Giuseppa.

La controra è una specialità nelle costumanze di questa molle e accidiosa città di Napoli; e nel secolo passato una tal costumanza era più caratterizzata.

Imperciocché non ci era classe in tutta la cittadinanza, la quale non desinasse allo scoccare del mezzodì, sistema igienico per la sanità del corpo, ma non fatto per rendere prospera e grande una nazione.

Crediamo apporci asserendo che da certe usanze, di poco rilievo in apparenza, dipendono appunto la prosperità e la grandezza di una nazione.

Il desinare a mezzodì toglie al lavoro complessivo due o tre ore il giorno, le quali, messe a calcolo alla fine dell’anno, danno un capitale di tempo che, ridotto in danari, forma una somma considerabile.

Non si dica che anche dopo il desinare si può lavorare. Il lavoro immediato dopo il maggior pasto della giornata è pesante, imperfetto, nocivo snervante.

Aggiungete a questo (pe’ napoletani) l’abuso delle paste, che induce a inerzia, a torpore, a sonnolenza. Come si può lavorare, sia con la mente sia con la mano, con mezzo rotolo di maccheroni sullo stomaco?

Ecco pe’ napolitani la necessità della controra nella estiva stagione.

La controra è quello intervallo che passa dal desinare del mezzodì all’ora in cui si ripiglia generalmente la vita attiva.

I gradi di calore avanzati in quelle ore, e la inerzia in cui l’azione della digestione gitta l’umano organismo, hanno creato in Napoli la controra.

I nostri avoli, i nostri progenitori godeano veramente di questa dilettevole tappa nella lunga giornata d’està.

Che i nostri lettori si trasportino con l’imaginazione nella piazza del Pendino in una controra di giugno ne’ tempi arcadici e patriarcali del re buon uomo.

Eccone il quadro.

Agl’incessanti romori de’ mestieri fragorosi che si erano uditi nella piazza del Pendino e vichi adiacenti, come quelli del falegname, dello scarpellino, del calzolaio, del fabbro ferraio, del battitore, dello armaiuolo, dell’ottonaro, del marmittaio, del calderaio, del cassettaio ed altre svariate e sonore voci de’ venditori d’ogni genere, sia permanenti, sia transitorii nelle ore del mattino, come il pescivendolo, il fruttaiolo, il ciambellano, l’ortolano e simili, succede, al tocco del mezzodì, diremmo quasi, una sosta nella vita industriale.

Tutta la piazza è inondata di accesissimo sole, del sole di giugno, che in taluni anni in Napoli ha fatto montare in quell’ora il termometro a 32 gradi.

L’astro infocato comanda l’ora del silenzio e della quiete.

Il bisogno del cibo e del riposo è universalmente sentito.

All’ombra d’una baracca o sotto un portone si gitta a giacere il muratore che fa il suo pranzo con un pezzo di pane e una cipolla, annaffiandolo con una caraffa di paesano: poi si distende bocconi, acciocché il vivo riverbero del sole non lo accechi; e si addormenta profondamente come nel più soffice letto.

Sotto l’Arco del Pendino ecco sdraiato nella sua sporta e con la corta pipa in bocca il lazzarone, che ha mangiato le cinque o sei grana che ha lucrate nel corso della giornata. Siate sicuro che non si alzerà da quella sporta fino alle ventidue ore.

E sapete voi com’egli si lucra pel consueto quei cinque o sei grani al giorno? Sentite:

Si alza allo spuntare del giorno; si lava la faccia e le mani nella fontana, e il suo abbigliamento è bello e fatto, giacché per coricarsi non ha d’uopo di svestirsi delle mutande e della camicia, uniche vesti che egli indossa. In quanto a’ calzari, non ne ha bisogno, perché le piante de’ suoi piedi sono divenute più sode di grossi suoli. Se si sente leggermente indisposto, non consulta medici, non entra in una farmacopea; ma si scarica nello stomaco a passare tre o quattro bombole di acqua solforica, che passa incontanente pe’ canali urinarii; accende poi la pipa e col tabacco smorza il primo appetito; è questa la sua consueta colezione.

Se sente il bisogno di fare un bagno, non paga il camerino; ma se ne va difilato in riva al mare; si toglie la camicia e le mutande; e, rimasto al cospetto del rispettabile pubblico come il padre Adamo prima del peccato, si tuffa nelle acque più o meno limpide, e quivi resta a sguazzare per una buona oretta. Qualche volta, facendo il bagno nelle acque del Molo, si arrampica su la poppa o la prua d’un bastimento; e di là si rituffa a cofaniello nel mare, e da là la calata a qualche suo compagno.

Fatto a tal modo il bagno, pensa a provvedersi del suo pane quotidiano, cioè del suo mezzo rotolo di maccheroni che formano tutto il suo desinare.

Ed eccolo mettersi in movimento per le piazze e per le vie. Qua si pone al servizio d’un fruttaiolo, e lo aiuta a mettere le frutte nelle ceste; colà piglia, senza chiederne il permesso, il baule d’un viaggiatore, se lo caccia sul capo, e via, costringendo il forestiero a corrergli appresso, altrove ingarbuglia un cafone e lo raggira per ghermirgli qualche monetuzza.

E quando ogni altra industria gli faccia difetto, non si fa scrupolo di far volare dal basto d’un somaro una coppia di mele, e dalla cesta di un ortolano due rape.

E, se il cafone o l’ortolano non trovi di suo gusto il dono forzoso, gli assesta due pugni in testa e due sergozzoni sotto il muso; e la faccenda è aggiustata.

Fatto così il suo pranzo, egli non pensa più che a bearsi ne’ dolci ozii della controra.

In questa ora di calma tutti riposano.

L’artefice ha appoggiata sul suo tavolo di lavoro la fronte inondata di sudore; e dorme.

Il mercadante ha chiuso a chiave la bottega e se n’è andato a casa a dormire.

Le voci del mattino sono cessate; e, per le vie, per le piazze non si sentono che le voci particolari, o, per meglio dire, i canti malinconici della controra, come per esempio il canto monotono della spigaiola, delle venditrici di acqua solforosa, di spassatiempo (così in Napoli si qualificano i ceci, le nocciuole ed i semi di popone infornati), di telline, di gamberi e rancetielle, e ciascuno di questi canti ha una melodia particolare che induce alla triste mestizia, alle tenere rimembranze della infanzia, quando le stesse voci si udivano in quelle dilettose ore che divideano la scuola del mattino da quella del giorno, cioè nelle ore appresso il mezzodì.

Figuratevi che cosa dovesse essere la controra nello scorso secolo, sotto il regno del primo Borbone, in que’ tempi d’ interna pace, di semplici costumi e di discreta prosperità.

Come si digerivano bene i maccheroni nella placida chilificazione d’un sonnellino non turbato da importuni romori, tranne forse dallo insolente fischio di quello eterno alato motteggiatore che è il merlo!

Con tutto ciò, la controra di quel giorno di giugno dell’anno 1738 fu delle più penose alla povera Rosella, che aspettava con impazienza che si facessero le ore ventidue, ora in cui il suo Minicuccio si avea a trovare a casa di Madre Isabella Mellone.

Lo scarpariello fin da qualche ora innanzi il mezzodì era rientrato nella bottega col suo deschetto, e ciò perché il sole ardente non permettea che si stesse allo scoverto.

 

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