«La Cronaca Partenopea» di Napoli
Non ha avuto un solo giorno di riposo, in questi ultimi venti anni.
Ha prodotto febbrilmente, giorno per giorno, instancabile, per sostenere la sua esistenza, così come il più umile dei manovali.
Non aveva neppure il tempo di pensare. Doveva buttar giù, l’una dopo l’altra, le sue appendici, senza tregua, senza riposo, senza pensarci su: un lavoro ingrato, che ogni altro avrebbe esaurito e presto logorato. E non ne ricavava neppure il necessario: è vissuto nella sua povertà vereconda, in un estremo rione di Napoli, ad un terzo piano di un palazzetto modestissimo, in un quartierino più che modesto, povero.
Era ammalato da oltre un anno, ma non ha potuto riposarsi, forse nemmeno curarsi.
Si è spento, lentamente, senza imprecazioni, senza maledire nessuno. Era una cara persona, senza fiele, senza acrimonia, forse senza coscienza del suo qualunque valore. Strappava la vita, a frusto a frusto, lui che ha scritto forse trecento volumi che hanno avuto vero successo tra i suoi molti lettori.
Non era un grande artista, forse nemmeno un artista nel senso alto della parola; ma altrove con la grande popolarità che godeva, avrebbe potuto vivere agiatamente e lasciare alla famiglia, più che un nome onorato, più che lo sterile compianto di tutto un popolo, una fortuna più o meno cospicua. Scrivendo per bisogno, il bisogno ammazzò in lui i germi dell’artista, che si rivelarono fin da quando pubblicò La Cieca di Sorrento, Il mio cadavere, Federico Lennois.
Ha descritto, a preferenza, nei suoi cento romanzi, il popolino, con le sue passioni, con i suoi appetiti, con le sue bramosie, con le sue buone e con le sue cattive qualità; è sceso nei bassi fondi delle nostre popolazioni, ritraendoli a colori forse grossolani, con una forma ibrida, schietta e speciale, che dall’arcaismo scendeva al dialetto, qua e là elevandosi fatidica, solenne, sentenziosa.
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«La Montagna» di Napoli
Ora l’hanno composto nella tomba, dopo una vita tumultuante nell’angoscia e nelle strettezze: l’ultima manata di terra è stata gettata sulla sua fossa; ma l’ultima parola non è stata ancora detta sull’illustre estinto.
Adesso soltanto s’incomincia a studiare chi ei fu e quale sarà il suo posto nella storia letteraria di questo secolo.
Io non so; ma credo che, se Emilio Zola lo avesse conosciuto, l’avrebbe salutato maestro, perocchè appunto il Mastriani fu quegli che, prima di lui, scrisse qui il romanzo verista, fotografando le virtù e i vizii di questo popolo fantasioso, le dovizie e le indigenze, i capricci e le passioni. E di questo popolo ebbe anche i pregiudizii.
Innanzi alla sua bara si disse che era un socialista: io che lo conobbi da vicino posso negare recisamente questa affermazione.
Francesco Mastriani non era un socialista. Se egli gridò contro le nequizie degli uomini non ebbe le nostre aspirazioni.
Non poteva averle. Impastato di quella argilla, educato nella sua puerizia come educavasi mezzo secolo fa, non seppe – nell’età virile – spezzare le catene dei pregiudizii ed accettare i progressi e i risultati della scienza.
Rimase fanciullo, e come fanciullo era ingenuo e buono.
Intravide però i bisogni del popolo napolitano, lo studiò ardentemente nelle sue intime fibre, lo vide povero, e i suoi palpiti ritrasse negli scritti, lasciando qua e là qualche strale contro chi la nostra Napoli dilaniava e sfruttava.
Fu per questo un socialista?
Ma non conviene dir altro su questo punto. Noi tutti quanti, giorno per giorno combattiamo la terribile lotta per l’esistenza, innanzi alla recente urna c’inchiniamo mesti e riverenti, perché racchiude le ossa di un uomo che lavorò e sofferse nella sua vita perigliosa.
Francesco Mastriani fu un indefesso lavoratore, ecco tutto, né chiedete di quale scuola abbia fatto parte.
Romanziere fecondo, ma sventurato, passò inosservato fra le genti, spesso scacciato da chi aveva il dovere di aiutarlo. Solo Giovanni Brombeis – questo ignoto benefattore che vive di lavoro dei nostri palpiti – accolse pietoso l’opera del Mastriani, e, quando gli altri amareggiavano il tozzo di pane che scarsamente gli sfruttavano i suoi lavori – egli, l’ignoto benefattore, lo chiamò a scrivere appendici sul Roma.
Così Mastriani poté trarre innanzi la sua esistenza, e il Roma che, solo lo aiutò nei giorni di tristezza, oggi pensa anche alla sostentazione della sua famiglia, checché ne dica una stampa malignamente sciocca che sguazza nell’oro dei fondi segreti, rubato agli operai del pensiero e del braccio.
Scrisse il Mastriani cento romanzi circa, dopo aver tentato le pene, e i napoletani non potranno mai dimenticare la Cieca di Sorrento, I Vermi, Le Ombre, e parecchi altri stampati nel Roma nei cui ufficii vedevo spesso, tempo fa, rincantucciato dappresso ad un tavolo, il povero vecchio a scrivere le solite cartelle quotidiane, levando qualche volta lo sguardo e scambiando qualche parola con quell’anima candida di Giovanni Brombeis.
Poi, d’un tratto, non l’ho più visto. La salute deperiva di giorno in giorno; il male diventò a poco a poco gigante, fino a spegnere la trambasciata vita di lui.
Morì nella povertà in cui visse, come in Italia accade a chi lavora – morì, forse, reclinando il capo sugli ultimi scritti.
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«L’Italia Teatrale» di Napoli
Autore drammatico non molto fortunato, e fortunatissimo romanziero drammatico e drammatizzato a iosa, ha lasciato la nostra valle di lagrime, compianto da tutti dopo morto, ma in vita abbandonato fin da quelli che ora sono i primi a piangere e a posare.
Uomo integro, buon padre di famiglia e ottimo cittadino è andato a godere la pace che si aspettava la sua travagliata esistenza. Pace! Sfuggiva a tener bordone ai vizii dei nobili, ed ecco i suoi romanzi democratici e simpatici: aborriva la nostra società mal reggentesi, ed ecco il socialista nel romanziere.
È morto povero: colpa di Napoli. Se Mastriani fosse vissuto a Parigi, avrebbe lasciato al figliuol suo milioni.
Ma Napoli è retrograda; avrebbe altrimenti fatto torto al «povera e nuda vai filosofia».
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«Il San Carlino» di Napoli
Ossequenti alla volontà dello illustre romanziere, sdegnante ogni elogio e discroso postumo, deponghiamo, riverenti, un fiore sulla sua tomba.